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Alessandro Lattanzio, Atomo rosso

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Atomo Rosso – Storia delle forze strategiche dell’Unione Sovietica (1945-1991)

di Alessandro Lattanzio

Prefazione di Andrea Perrone, giornalista esperto di politica estera di Rinascita.
Postfazione di Emanuele Novazio, corrispondente diplomatico de La Stampa ed autore di Back in URSS. Reportage dal nuovo impero russo, 2009, Guerini e Associati.

Fuoco Edizioni

Il saggio
Il saggio ricostruisce dettagliatamente la nascita e lo sviluppo dell’Unione Sovietica quale potenza mondiale attraverso i suoi programmi nucleari e missilistici per decenni tenuti top secret, descrivendo gli strumenti e la strategia che le hanno permesso di svolgere il ruolo di primo concorrente ed avversario degli Stati Uniti d’America nella seconda metà del XX° secolo. Il programma per la realizzazione della bomba atomica sovietica, solo recentemente è stato reso pubblico in Italia, con la pubblicazione del lavoro dello storico russo Roy Medvedev. L’URSS, benché devastata dall’aggressione nazista del 22 giugno 1941, nell’arco di quattro anni riescì a colmare il gap tecnologico- nucleare con gli USA. Nell’agosto 1949 venne fatto esplodere il primo ordigno atomico sovietico, mentre nel 1954 venne sperimentata la prima bomba all’idrogeno, superando gli USA nella corsa agli armamenti nucleari. In seguito, Mosca decise, nella scelta del vettore strategico principale, di adottare i missili balistici intercontinentali, al contrario di Washington, che puntò, invece sui bombardieri strategici. L’arsenale strategico-nucleare dell’URSS è la principale eredità dell’era sovietica che viene trasmessa alla Federazione Russa di oggi. Ed è grazie a questa eredità, che la Russia di Putin e Medvedev sta ricostruendo e riacquistando il suo ruolo di potenza mondiale.

L’Autore
Alessandro Lattanzio, laureato in Scienze politiche, indirizzo politico-Storico, presso l’Università di Catania; Redattore della Rivista di Studi Geopolitici – Eurasia; Autore dei libri: Terrorismo Sintetico, Insegna del Veltro, Parma, 2007; Potere Globale, Il ritorno della Russia sulla scena internazionale, Fuoco Edizioni, Roma, 2009. Gestisce i siti web: http://www.aurora03.da.ru e http://sitoaurora.altervista.org).


ordini@fuoco-edizioni.it

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Breve nota sui Patti dell’agosto 1939

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BREVE NOTA SUI PATTI DELL’AGOSTO 1939
(Il Patto di Mutuo Soccorso tra il Regno Unito e la Polonia e il Patto Molotov-Ribbentrop)

Considerando le alleanze firmate dalla Gran Bretagna insulare nella cornice della sua secolare politica di potenza anti-europea, finalizzate a contenere e scongiurare i propositi di amicizia e / o integrazione tra le nazioni del Continente Europeo, vale la pena ricordare – come esempio illustrativo – il Patto di Mutuo Soccorso fra il Regno Unito e la Polonia, siglato a Londra il 25 agosto 1939.

Come noto, il trattato di amicizia anglo-polacco sottoscritto da Lord Halifax e dal Conte Rczynski, costituì una deliberata violazione (1) del similare trattato che Germania e Polonia firmarono il 26 gennaio 1934, e, soprattutto, un’esplicita interferenza nelle delicate relazioni tra il Reich nazionalsocialista e l’URSS; Berlino e Mosca, infatti, appena due giorni prima, il 23 agosto, avevano stipulato un trattato di non aggressione, passato alla storia come patto Molotov-Ribbentrop, dal nome dei rispettivi ministri degli esteri.

In questo caso, il Regno Unito intendeva utilizzare – come tassello di un dispositivo diplomatico-militare, teoricamente paritario, – la posizione strategica della Polonia quale “cuneo” interposto tra le due potenze continentali, al fine di incidere, contemporaneamente, sia sulla creazione di un potenziale asse Mosca-Berlino, sia sugli accordi tedesco-polacchi, ed eliminare, in tal modo, qualsiasi futura potenziale prospettiva di saldatura / integrazione tra la Penisola Europea e la massa continentale asiatica.

L’azione di disturbo ideata da Londra, attraverso una sottile trama di attività diplomatiche, nella quale erano coinvolti gli Stati Uniti (2), era perfettamente coerente con la dottrina geopolitica britannica, il cui sfruttamento delle tensioni tra le nazioni continentali costituiva un pilastro fondamentale della sua politica di equilibrio.

NOTE:

1. Alcuni mesi prima, il 19 maggio 1939, un accordo di reciproco aiuto tra Francia e Polonia (probabilmente su richiesta degli Stati Uniti e del Regno Unito) fu firmato a Parigi dall’ambasciatore polacco Juliusz Lukasiewicz e dal ministro francese degli Affari Esteri, Georges Bonnet. Per Berlino, e sotto certi aspetti anche per Mosca, i due Patti di Mutuo Soccorso costituivano una sorta di minaccia per la pace continentale.

2. Ci riferiamo alle riunioni tra l’ambasciatore americano William Christian Bullitt Jr. e gli ambasciatori polacchi Potocki e Lukasiewicz, avvenute in Francia nel novembre 1938 e febbraio 1939; si veda Giselher Wirsing, Roosevelt et l’Europe (Der Kontinent Masslose), Grasset, Paris, 1942, p. 266.

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Rivelato il « Progetto israeliano »

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Rivelato il « Progetto israeliano » (estratti)

Israele e la sua lobby negli Stati Uniti hanno pubblicato, con lo strano titolo di Global Language Dictionnary, un manuale di 116 pagine per definire una strategia di comunicazione filo-israeliana – detta « Israël Project » – destinato a membri del Congresso, a media e ad altri che si trovano in posizioni di potere. Redatta da Frank Luntz, un esperto in sondaggi di opinione, repubblicano, l’iniziativa lascia trasparire un senso di disperazione e di causa perduta. Le argomentazioni avanzate non solo sono prive di ogni verità, ma mancano di rigore o di credibilità. La lettura del documento lascia pensare che la lobby israeliana non sia in realtà che un castello di carte.

Il primo dei 18 capitoli si apre così : « Il primo passo per guadagnare fiducia ed amici per Israele è mostrare che vi preoccupate della pace per le Due parti, gli Israeliani ed i Palestinesi e, in particolare, di un futuro migliore per ogni bambino. In effetti, le fasi della vostra conversazione sono estremamente importanti e voi dovete cominciare con l’empatia per le Due parti. Iniziate la vostra conversazione con messaggi di sicura efficacia come « Israele s’impegna per un futuro migliore per tutti – Israeliani come Palestinesi. Israele vuole vedere la fine della pena e della sofferenza e s’impegna a lavorare con i Palestinesi ad una soluzione pacifica, diplomatica nella quale le due parti potranno avere un futuro migliore. Sia questo per i due popoli il tempo della speranza e dell’opportunità… ».

Nel passaggio successivo, Luntz basa le sue argomentazioni su MEMRI, – agenzia di propaganda israeliana – e su Palestine Media Watch, dell’agente del Mossad, Itamar Marcus. « Per principio, noi crediamo che i bambini abbiamo il diritto essenziale di essere allevati senz’odio. Chiediamo alla direzione palestinese di mettere fine alla cultura dell’odio nelle scuole palestinesi, 300 delle quali hanno ricevuto i nomi di autori di attentati suicidi. I dirigenti palestinesi devono ritirare dalle aule i libri che mostrano il Medio Oriente senza Israele e glorificano il terrorismo. »

Infatti, nessun bambino dovrebbe temere che suo padre o sua madre, suo fratello, sua sorella, etc… siano uccisi perché si trovano nel posto sbagliato al momento sbagliato, ossia quando una recluta di 18 anni, morta di paura, decide di dare degli esempi. Quanto alle carte, mi piacerebbe che Luntz o Itamar Marcus mi mostrassero un libro israeliano sul quale figura una carta della Palestina. Lì, ci troverete la Giudea o la Samaria, ma che ne è dei milioni di Palestinesi che vivono nei Territori ?… Gli attentati suicidi sono cose del passato ed i Palestinesi hanno ampiamente abbandonato questa pratica, a causa della sua impopolarità tra I Palestinesi moderati.

Le parole che « funzionano »

« Se iniziate la vostra risposta con « io capisco e simpatizzo con quelli che … », renderete più credibile quel che seguirà, favorirete che il vostro uditorio simpatizzi e sia d’accordo con voi. »

« Sappiamo che i Palestinesi meritano dirigenti che si preoccupino del benessere del loro popolo, che non concedano a se stessi i milioni di dollari di assistenza dall’America e dall’Europa per metterli in conti bancari in Svizzera, o che non se ne servano per sostenere il terrorismo al posto della pace. I Palestinesi hanno bisogno di libri, non di bombe. Vogliono strade, non razzi ». Le accuse di distrazione di fondi risalgono all’epoca di Arafat, morto da tempo, e Frank Luntz ne dovrebbe essere messo al corrente. In compenso, ai Palestinesi piacerebbe che si costruissero strade diverse da quelle di aggiramento israeliane le quali permettono ai coloni di andare direttamente in Israele attraverso gli ex terreni palestinesi.

O, ancora, « Possiamo essere in disaccordo sulla politica… Ma c’è un principio fondamentale sul quale tutti i popoli concorderanno : un popolo civilizzato non prende di mira donne e bambini innocenti ». Qui, evidentemente, non si tratta delle « donne e dei bambini innocenti » massacrati durante l’offensiva di Gaza ! «… Noi chiediamo ai dirigenti palestinesi di finirla con il linguaggio della violenza… con il linguaggio delle minacce… Se i dirigenti parlano di guerra, non arriveremo alla pace … ». Ma, I dirigenti militari e politici israeliani usano tutti i giorni il linguaggio della violenza, dell’incitamento e della guerra. Ascoltateli.

« Non dite che Israele è senza colpa o senza errore… Nessuno vi crederà… Il vostro interlocutore metterà in dubbio la veridicità di tutto quello che direte dopo. Riconoscete che Israele commette delle azioni colpevoli… Poi cambiate argomento il più rapidamente possibile sperando che lui non abbia notato ciò che avete concesso. Mettete subito l’accento sul fatto che in questo conflitto i Palestinesi sono ben più colpevoli degli Israeliani ». « Soprattutto, portate l’attenzione sull’argomento che il « linguaggio di Israele è il linguaggio dell’America : democrazia, libertà, sicurezza e pace, bambini, cooperazione, collaborazione, compromesso, esempi di sforzi di pace (quelli di Israele, naturalmente), prosperità economica (per i Palestinesi) ».

Siate umili. Dite : « So che nel tentativo di difendere i propri bambini e I propri cittadini dai terroristi, Israele ha ucciso accidentalmente degli innocenti. Lo so e ne sono desolato… Se l’America avesse dato la terra in cambio della pace e questa terra fosse utilizzata per lanciare razzi contro i suoi, che cosa farebbe l’America ?

« La vostra non sia vera umiltà. Sostenete fermamente che Israele è l’America e che non c’è nessuna occupazione, nessuna ingiustizia perpetrata contro i Palestinesi. Sostenete che le loro terre non sono state loro rubate, che essi non sono diventati dei profughi a centinaia di migliaia, che Israele ha il diritto di aspettarsi dai Palestinesi che si comportino come i Canadesi o i Messicani » (che da 150 anni non hanno problemi di frontiera).

Qui va osservata l’interessante confusione di identità tra Israeliani ed Ebrei americani… come se noi fossimo loro.

« Siamo pronti a permettere loro di costruire.. ». Se i Palestinesi si rivelano un partner affidabile, come possono essere in teoria ed in pratica subordinati agli Israeliani ? Che cos’è l’Occupazione se non una « subordinazione » personificata ?

Ricordate – ancora e sempre – che Israele vuole la pace. La prima ragione è : se gli Americani non vedono alcuna speranza di pace, se non vedono che la continuazione di una « disputa di famiglia » vecchia di 2000 anni, rifiuteranno che il loro governo spenda i dollari del contribuente o l’influenza del loro Presidente per aiutare Israele ».

Bingo. Qui Luntz dice la verità : Israele vuole la pace allo stesso modo in cui una ragazzina di 13 anni vuol essere l’idolo del momento. Israele non ha nessun piano, nessun modo di arrivare alla pace. E la paura annidata nel cuore della lobby israeliana è che, un giorno, venga svelato il vero volto di Israele, che gli Americani l’abbandonino, avendo capito che la pace ricercata da Israele è una pace ottenuta alle condizioni di Israele. Dunque, che non ci sarà mai pace. La lobby filo-israeliana vuole evitare ad ogni costo che arrivi quel giorno, perché oggi « gli Ebrei in generale – e gli Israeliani in particolare – non sono più percepiti come un popolo perseguitato. Infatti, tra il pubblico americano od europeo – sofisticati, istruiti, non ebrei, con le proprie opinioni – gli Israeliani sono spesso visti come gli aggressori e gli occupanti… ».

Fonte: http://seminal.firedoglake.com/diary/6256 – Texte intégral: http://www.newsweek.com/id/206021

Fonte : AFI Flash n°95
2 settembre 2009

Traduzione dal francese eseguita da Belgicus

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La produzione petrolifera della Russia sorpassa quella dell’Arabia Saudita

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La Russia estrae più petrolio dell’Arabia Saudita, rendendola il più grande produttore di “oro nero” nel mondo, come le cifre dimostrano. Le statistiche, dell’Opec, indicativi di una tendenza che ha visto i russi superare periodicamente i sauditi come maggiori produttori di petrolio al mondo dal 2002. Questi ultimi dati sono stati chiamati direttamente dalla Russia come prova del fatto che tali picchi di produzione sono periodici, e non sono una tantum e che Mosca ha veramente il diritto di pretendere di essere il numero 1.

Secondo l’Opec, la Russia ha estratto 9,236 milioni di barili di petrolio al giorno nel mese di giugno, più di 46.000 rispetto all’Arabia Saudita. Le statistiche inoltre indicano che la produzione russa nel primo semestre di quest’anno ha avuto un aumento di 235,8 milioni di tonnellate, un miglioramento annuale del 2,3 per cento.

Tradizionalmente, l’Arabia Saudita è stata ritenuta la fonte primaria di petrolio nel mondo e la Russia ha dovuto accontentarsi del secondo posto. Ma negli ultimi anni la Russia ha rinazionalizzata e modernizzato gran parte della sua industria e tale politica sembra essere dare i suoi frutti. Anche gli analisti russi ammettono che la causa di Mosca è aiutata dal fatto che l’Arabia Saudita è soggetta a restrizioni alla produzione dall’Opec. I sauditi sono famosi per la loro capacità di accedere alle riserva e di aumentare la produzione in tempi brevi, e se davvero volevano riaffermare il loro ruolo di leadership la sensazione è che potrebbero farlo facilmente.

Incurante di questi “dettagli”, in Russia la “caduta” dei sauditi è stato salutata ieri a livello nazionale. Il quotidiano populista Komsomolskaya Pravda ha pubblicato un articolo intitolato “La Russia è al primo posto in classifica nella produzione di petrolio”.

Con i prezzi del petrolio al di sopra dei 70 dollari al barile per il Brent di Londra, a causa delle incertezze sulla fornitura del gasdotto della BP in Alaska e della crisi iraniana, la Russia si gode una miniera d’oro senza precedenti. Ma gli analisti dicono che la sua industria del petrolio è già al lavoro al massimo della capacità e che sarà in grado di gestire una produzione aumenta fino a solo il 2 per cento l’anno per il 2009.

Ci sono anche i timori che la Russia stia diventando troppo dipendente da ciò che i politici chiamano “l’ago del petrolio” e stia facendo troppo poco per sviluppare flussi di entrate future.

Il prezzo del petrolio e del gas pesano per 52,2 per cento di tutte le entrate del Tesoro dello Stato, e per oltre il 35 per cento delle esportazioni della Russia. Tali ricchezze possono rendere un paese compiacente, secondo Aleksej Kudrin, il ministro delle Finanze russo. “Allo stato attuale, ci troviamo in una zona di una pericolosa spensieratezza”, ha detto.

Fonte: nzherald.co.nz – 23/08/2009

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Igor Panarin, Il crollo degli Usa potrebbe iniziare tra due mesi

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Il professore russo Igor Panarin dice che gli eventi continuano a confermare la sua predizione apocalittica, fatta per la prima volta più di dieci anni fa, che gli Stati Uniti sarebbero crollati completamente come l’Unione Sovietica prima della fine del 2010 e avvisa che potrebbe iniziare a verificarsi il caos già tra due mesi.

Panarin, dottore in scienze politiche nonché docente dell’Accademia Diplomatica presso il Ministero degli Affari Esteri della Russia ha detto ieri ai giornalisti, durante la presentazione del suo nuovo libro che il presidente Obama non ha fatto niente per prevenire la crisi, che si sta rapidamente avvicinando e che potrebbe iniziare a verificarsi propriamente a novembre.

Obama è il ‘presidente della speranza’, ma tra un anno la speranza non ci sarà più”, ha detto Panarin. “Praticamente è un altro Gorbaciovgli piace parlare, ma non è riuscito a fare realmente nulla. Gorbaciov almeno è stato segretario dell’amministrazione di un partito comunista regionale, mentre Obama era solo un assistente sociale. La sua è una mentalità totalmente diversa. È una persona gentile che parla con altrettanta gentilezza – ma non è un leader e porterà l’America al crollo. Quando gli Americani lo capiranno – sarà come l’esplosione di una bomba”.

Dal 1998 Panarin ha preannunciato la futura disintegrazione degli Stati Uniti e il crollo del dollaro. La recente vittoria elettorale del Partito Democratico Giapponese è un altro segno che il crollo economico degli USA è imminente, secondo Panarin.

Oggi ho ricevuto un’altra conferma che il crollo del dollaro e degli USA è inevitabile. Il Partito Democratico Giapponese ha vinto le elezioni, e vorrei ricordarvi che il suo leader [Yuko Hatoyama] ha nei suoi piani economici di snobbare il dollaro. In parole povere, ha in programma di trasferire le riserve monetarie del Giappone dal dollaro americano ad un’altra valuta. Questa mossa accelererà seriamente il crollo del cambio del dollaro già a novembre. E la disintegrazione seguirà poco dopo”, ha detto, aggiungendo che anche la Cina il prossimo anno inizierà ad abbandonare il dollaro in modo massiccio e che la Russia inizierà a vendere il petrolio e il gas in rubli.

Panarin ha dichiarato in precedenza [3] che il dollaro sarebbe stato infine sostituito con “una valuta comune, l’Amero, come nuova unità monetaria”, in riferimento all’accordo di alleanza per la sicurezza e la prosperità tra gli USA, il Canada e il Messico.

Prevede la suddivisione degli USA in sei parti diverse, pressappoco su linee simili a quelle del 1865 [4] durante la Guerra Civile, “la costa del Pacifico, con la sua crescente popolazione cinese; il sud, con gli Ispanici; il Texas, dove sono in aumento i movimenti per l’indipendenza; la costa dell’Atlantico, con la sua mentalità separata e distinta; cinque degli stati centrali più poveri con le loro grandi popolazioni di nativi americani; e gli stati settentrionali, dove l’influenza del Canada è forte”, secondo Panarin.

Nel lungo termine Panarin prevede che gli stati separatisti finiranno in ultima istanza sotto il controllo dell’Unione Europea, del Canada, della Cina, del Messico, del Giappone e della Russia, e l’America cesserà di esistere del tutto, come illustrato nella figura sopra.

Panarin attribuisce il crollo ad una “elite politica che attua una politica assurda e aggressiva mirata a creare conflitti in tutto il pianeta” e avvisa che l’aumento della vendita delle armi da fuoco negli USA è un segnale che le persone si stanno preparando al “caos” del periodo seguente al crollo finanziario totale.

Secondo la mia opinione, le probabilità che gli USA cessino di esistere entro il giugno del 2010 sono superiori al 50%. A questo punto la missione di tutti i maggiori poteri internazionali è di prevenire il caos negli USA” ha concluso Panarin.

*NOTE

[1] Prison Planet.com: http://prisonplanet.com
[2] Image: http://prisonplanet.tv/signup.html
[3] previously stated: http://www.prisonplanet.com/russian-infowar-analyst-says-us-will-break-apart.html
[4] similar to those of 1865: http://en.wikipedia.org/wiki/Image:US_Secession_map_1865.svg

Titolo originale: “Russian Professor: Collapse Of America Could Begin In Two Months

Fonte: http://www.prisonplanet.com

01.09.2009

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MICAELA MARRI

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Demografia francese: cifre reali e idee false

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In Francia, che conta una popolazione di 64 milioni di abitanti, sono state registrate, nel 2008, 834000 nascite [1]. In riferimento alla cifra rilevata dieci anni fa, l’effettivo annuale è superiore del 9%. Dal 1993 al 2008, il tasso sintetico di fecondità è passato dall’1,65 a 2 figli per donna.

Le coppie di oggi fanno più figli di quelle di ieri ?

Secondo una pubblicazione dell’Istituto nazionale degli studi demografici [2], questi aumenti non deriverebbero da un aumento della fertilità delle coppie da una generazione all’altra, giacché le coppie di oggi prolificano quanto quelle di trenta anni fa. Ma le coppie odierne generano i loro figli più tardi (contraccezione, conciliazione con la vita professionale). Il rinvio della maternità avrebbe causato prima una temporanea riduzione nel tasso di fertilità poi un aumento. Nel 2008, il 21% dei bambini sono nati da madri di età compresa tra 35 e più anni, invece del 16% di dieci anni prima. L’aumento dei tassi di fertilità e delle nascite non dipenderebbero dunque da una propensione delle coppie ad avere più figli, ma piuttosto da un nuovo calendario di maternità, dopo diversi decenni di transizione durante i quali esso era diventato progressivamente più lento da causare il temporaneo calo delle nascite.

Qual è la percentuale dei nati da genitori stranieri ?

A livello nazionale, la cittadinanza dei genitori è ripartita secondo le dichiarazioni dello stato civile. L’80,4% dei nati vivi nel 2008 hanno due genitori francesi: questo è un dato leggermente inferiore rispetto a quello del 1994 che era pari all’81,2%. Il 12,7% dei bambini risultano essere nati invece da una coppia mista; tale percentuale è in costante aumento, a partire dal 1994 quando si attestava al 5,7% . Qui l’immigrazione ha svolto un ruolo determinante rispetto al totale delle nascite. La percentuale dei nati da due genitori stranieri è del 6,9%, lievemente inferiore a quella del 1994 che era pari al 7,6%.
Si registra, quindi, che la percentuale di bambini nati da coppie miste è in aumento, il che riflette l’evoluzione della società francese. Si tratta di un meticciato nel senso della nazionalità, non necessariamente nel senso dell’origine geografica. Giacché, ad esempio, il matrimonio tra una persona proveniente dall’immigrazione algerina, naturalizzata francese, con un algerino viene considerato un “matrimonio misto”.

L’aumento delle nascite annulla il processo d’invecchiamento della popolazione ?

Il processo di invecchiamento della popolazione francese è in continuo aumento, nonostante l’incremento delle nascite registrato a partire dal 1994.
Al 1 gennaio 2007, sono 10,3 milioni le persone con età superiore ai 65 anni, ovvero il 16,2% della popolazione. Nel 1994, essi erano meno del 15%. Al contrario, 15,8 milioni di abitanti hanno meno di 20 anni, cioè il 25% dell’intera popolazione. Nonostante parecchi anni consecutivi di nascite più numerose, la percentuale dei giovani continua a diminuire. Nel 1994, il 26,7% della popolazione aveva meno di 20 anni. A partire dal 2012, la percentuale di persone con età superiore ai 65 anni potrebbe aumentare in maniera significativa [3].
Certo, il limite di 65 anni diventa discutibile per giudicare la “vecchiaia”, poiché lo stato di salute e la speranza di vita progrediscono : 77 anni per gli uomini e 84 per le donne.
Come corollario, occorre ammettere che ciò spinge a ritardare l’età di pensionamento, forse in modo differenziato in rapporto alla speranza di vita per settore di attività.

Tuttavia, la Francia costituisce una eccezione in rapporto all’Unione europea. Infatti, la crescita demografica francese nel 2008 proviene per i quattro quinti dall’incremento naturale, vale a dire dalla differenza tra le nascite e i decessi. La situazione è esattamente inversa nell’Unione europea, dove l’aumento dovuto alle migrazioni costituisce i quattro quinti dell’aumento totale.

1. Sommando i dati della Francia metropolitana con quelli dei dipartimenti d’oltremare. Cfr. Catherine Beaumel, Anne Pla e Mauricette Vatan, Statistiques d’état civil sur les naissances en 2008, Société, n° 97, 21 agosto 2009, INSEE.
2. Cfr. Gilles Pison, France 2008: pourquoi le nombre de naissances continue-t-il d’augmenter ? , Population et sociétés, n° 454, marzo 2009, INED, 4 p.
3. Gérard-François Dumont (dir.), Populations et territoires de France en 2030, le scénario d’un futur choisi, Paris, L’Harmattan, 2008.

*Pierre Verluise, ricercatore all’IRIS di pargi, è autore di 20 ans après la chute du Mur. L’Europe recomposée (Choiseul, 2009) e co-autore di Géopolitique de l’Europe (Sedes, 2009)

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Perché il multipolarismo e la guerra di movimento

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1. Per circa mezzo secolo, dopo la seconda guerra mondiale, si era stabilizzato un sistema globale bipolare, con paesi “non allineati” (anche importanti come l’India), ma tutto sommato non troppo influenti rispetto alla divisione del globo tra le due cosiddette superpotenze. Un campo era quello del capitalismo, l’altro quello del socialismo. Alcuni lo dicevano comunista (così come oggi qualcuno parla con improntitudine di Cina comunista o Cuba comunista, ecc.). In realtà, in quei paesi erano “al potere” (altra espressione troppo comune che sarebbe da ridiscutere) partiti denominati comunisti, ma nessuno di essi sosteneva di aver condotto la società al comunismo; ci si limitava a pretendere che si stava costruendo il socialismo (l’ormai ignoto ai più gradino inferiore del comunismo).
Ci fu semmai assai presto – congresso degli 81 partiti comunisti a Mosca nel 1960 – un allontanamento tra i due colossi del campo socialista, Urss e Cina, che divenne rottura dopo la crisi di Cuba (ottobre 1962) e lo scambio di lettere tra i CC dei due partiti (Pcus e Pcc) nella prima metà del 1963. Poi venne la rivoluzione culturale cinese (1966-69) che accentuò il distacco, rendendo i due partiti e i due paesi autentici nemici. Su questo contrasto si inserirono gli Usa, soprattutto per “merito” di Nixon – un presidente negletto e su cui bisognerebbe rivedere il giudizio storico perché, almeno oggettivamente, è stato più importante dell’osannato Kennedy e ha preparato il terreno a Reagan, considerato a torto l’affossatore del campo socialista (assieme a Papa Wojtyla, altro luogo comune per pigri mentali) – e la situazione, già con Mao e ancor più dopo con Teng, divenne tale che l’Urss (il cosiddetto socialimperialismo) fu considerata dalla Cina (e dai maoisti) il “nemico principale” rispetto all’imperialismo statunitense, con cui spesso si “intrallazzò” (non è ovviamente il termine adatto) a spese dell’Urss.
Generalmente, si sottovaluta quest’aspetto decisivo dell’indebolimento del campo socialista (sempre guidato dai sovietici), mettendo in luce erroneamente solo la corsa al riarmo nella quale l’Orso russo avrebbe perso. Altra questione che dovrebbe essere sottoposta a revisione storica è la vittoria della guerriglia vietnamita. Molto fu dovuto all’azione di Nixon, in grado di capire che le strategie vincenti (alla lunga e contro il nemico principale) richiedono anche l’accettazione di certe sconfitte, soprattutto in una situazione irrisolvibile per gli Usa. In effetti, credo che la fine della guerra (1975) abbia permesso alla fazione filosovietica del partito vietnamita, sempre maggioritaria, di prevalere definitivamente su quella filocinese; il che solo apparentemente avvantaggiava l’Urss, mentre invece allargava il solco tra le due potenze “socialiste”. Ci fu poi, nel 1978, la breve guerra cino-vietnamita in seguito all’invasione della Cambogia da parte del Vietnam con deposizione di un governo alleato dei cinesi. L’anno successivo l’Urss invase l’Afghanistan, dando nuovo impulso all’avvicinamento della Cina a Usa (e Pakistan) con ulteriore indebolimento della potenza sovietica.
Quanto appena accennato (sarebbe di grande importanza rifare la storia di quel periodo cruciale) serve solo a ricordare che, malgrado il dissidio russo-cinese foriero della successiva dissoluzione del campo socialista, si ritenne per mezzo secolo il mondo diviso ormai permanentemente in due, tra Usa e Urss. Fu un periodo di sostanziale pace nel mondo capitalistico avanzato (pur parlando, e l’ho sempre ritenuto uno straparlare, di “equilibrio del terrore”, ovviamente atomico). Le guerre, continue in varie parti del mondo, avvenivano sostanzialmente nelle aree di confine (e frizione) tra i due campi. In realtà, non esisteva alcun socialismo (figuriamoci il comunismo), bensì forme sociali spurie ancor oggi conosciute inadeguatamente (se ne sono fornite innumerevoli analisi contrastanti). L’interpretazione, che fu anche del mio Mastro francese Bettelheim, di un capitalismo di Stato (e di partito), non mi sembra più convincente. Più perspicua mi sembra comunque la tesi bettelheimiana secondo cui le forme (capitalistiche) della merce e dell’impresa vennero durante quel periodo, per motivi fondamentalmente politici e ideologici, soffocate, represse, ma non superate.
In effetti, forte era la credenza che il partito, pur dominato da un’oligarchia da lungo tempo cristallizzatasi, dovesse mantenere – in quanto avanguardia della classe operaia, quella che si sarebbe emancipata dallo sfruttamento, emancipando così l’intera società mondiale dallo stesso e dalla divisione in classi – il potere assoluto, pianificando l’intera economia. Non posso qui elencare i motivi (teorici ma con risvolti pratici) per cui la pianificazione, attuata dal blocco sociale che si era andato solidificando, riusciva solo a porre ostacoli allo sviluppo, dopo il primo periodo staliniano di impetuosa accumulazione e di creazione di una potenza industriale (e militare) con però basso livello di consumi e di tenore di vita per quanto riguarda la netta maggioranza della popolazione. Il periodo brezneviano fu di stagnazione, con degrado delle strutture sociali: si pensi all’istruzione e sanità, orgoglio dei paesi socialisti, alla diminuzione notevolissima della media della vita, nettamente innalzatasi in un primo tempo. E via dicendo.
Il periodo gorbacioviano fu un “vorrei ma non posso”, il tentativo di affermare una contraddizione in termini: il socialismo di mercato. La Cina pure usò questa dizione, ma solo come mascheramento ideologico; in realtà, diede pieno sfogo a forme economiche di tipologia capitalistica, mantenendo solo una direzione centralizzata (con ampie autonomie in sede locale, anche se per le decisioni “minori”, non per quelle nazionali). In definitiva, si tratta di quella centralizzazione che – sia pure tenendo conto delle differenze culturali e di lunga tradizione storica – sta attuando la Russia e, mi sembra, con risultati tutto sommato soddisfacenti, pur non ancora stabili e definitivi.

2. Quello che ho cercato di delineare in modo molto succinto serve alla conclusione che più mi interessa: malgrado non esistesse il campo socialista, o meglio non esistesse il socialismo in tale campo, esso fu realmente antagonista di quello capitalistico tout court, si visse e fu vissuto come alternativa che le classi dominanti “occidentali” – ancor oggi tanto spaventate da trattare spesso la Cina, e talvolta perfino la Russia di Putin, come socialiste (anzi comuniste) – intendevano stroncare; e alla fine ci riuscirono. Da quel contrasto semisecolare risultò però intanto l’imponente decolonizzazione che, pur non avendo portato (nemmeno essa) ai risultati perseguiti, ha cambiato la faccia del globo e permesso la crescita di due delle maggiori potenze…. “potenziali”: Cina e India. L’Urss, in nome della mera politica (di potenza) e dell’ideologia (della costruzione del socialismo come esempio da seguire per le masse dei paesi capitalistici), fu comunque prodiga di aiuti, in specie ma non solo militari (a Cuba, Egitto, ecc.); aiuti non corrispondenti al classico concetto di imperialismo, che implica non solo la forza politica e militare, bensì anche un ritorno economico: non solo per lo Stato ma pure per le imprese investitrici di capitali.
Se si guarda alla conquista (o mantenimento) di sfere di influenza, forse si può allora parlare di imperialismo sovietico. Pure qui, tuttavia, si è trattato di un’azione di prevalente contenimento dell’aggressività altrui, poiché a partire dal 1945 gli Stati Uniti – dopo aver accettato, per eliminare definitivamente dal novero dei competitori Inghilterra e Francia oltre alle sconfitte Germania e Giappone, gli accordi di Yalta con la loro divisione del mondo in due (accordi che non a caso Churchill, avendo capito come sarebbe andata a finire, avrebbe voluto far saltare: e qui sarebbero da rivedere molte “bucce” riguardo ai “segreti contatti” in piena guerra tra Inghilterra e Germania) – hanno tentato, con varia fortuna (prima scarsa e infine vincente), di affermare globalmente quel monocentrismo che era ormai pienamente in atto nel capitalismo “occidentale” (Giappone compreso).
Per 50 anni circa il mondo apparve appunto cristallizzato, e tutto il nostro orizzonte politico fu orientato alla permanenza indefinita di tale situazione. Forse però qualcuno, nei luoghi nascosti dove si preparano le vere strategie politiche di potenza (altro che quelle economiche sempre poste in primo piano per ingannarci), ne sapeva un po’ più di noi, vedeva cambiamenti possibili. E pure qui, sarebbero da spiegare molte mosse durante la breve parentesi di Gorbaciov, liquidatore del cosiddetto Impero sovietico, cospiratore con l’allora segretario del Pc cinese per combinare guai anche in quel paese (stroncati nella Tiananmen), oggi consulente degli americani per contatti (a mio avviso improduttivi) con deboli oppositori russi di Putin.
Quello che mi preme rilevare, quello a cui volevo arrivare, è che il confronto politico tra Usa e Urss, pur viziato da nette distorsioni ideologiche, condusse ad un reale antagonismo tra i due campi, che prese il posto della – ma venne ampiamente confuso e identificato con la – altrettanto ideologica credenza nella lotta “a morte” tra borghesia e proletariato, tra classe capitalistica e classe operaia. Si fu anche convinti che l’azione dell’Urss corrispondesse al concetto di “internazionalismo proletario”; quell’internazionalismo molto carente, ad es., nell’azione del Pc francese in merito al colonialismo francese e alla lotta del Fln algerino, del tutto assente negli operai americani nei confronti del Vietnam, e si potrebbe continuare. Una lunga serie di distorsioni ideologiche, che coprivano comunque conflitti reali e risultati concreti, certo svisati nel loro effettivo significato.
Ci fu un’apparentemente insuperabile guerra di posizione, durante la quale i partiti comunisti dei paesi capitalistici occidentali (quelli in cui ancora essi avevano seguito e forza, quelli di meno avanzata industrializzazione) si trasformarono progressivamente in sinistra integrata e riformista (salvo frange sempre meno consistenti e più agitatorie che fattive); mentre nella parte orientale si veniva preparando il crollo della “facciata socialista”, da cui sarebbero nate, dopo un tumultuoso ma breve periodo di solo apparente totale sconfitta, nuove formazioni sociali (di ancora impossibile definizione a meno di non erigersi a profeti) che sembra proprio si assestino e crescano come alternativa al capitalismo di tipologia “occidentale”.

3. Oggi la situazione, nel giro di una quindicina d’anni (periodo storico brevissimo), è completamente mutata, tanto da essere irriconoscibile; solo dei “cervelli cristallizzati” continuano a rimuginare il passato come se tutto fosse rimasto eguale o con piccoli ritocchi. Non esiste più una guerra di posizione ma di pieno movimento. C’è stata all’inizio l’illusione ottica dell’ormai realizzato monocentrismo (“imperiale”) statunitense, con questo paese in piena “arroganza di (pre)potere” e quindi direttamente (militarmente) aggressivo. Gli Usa non hanno affatto ancora accettato in pieno la nuova realtà; Obama è solo un po’ meno “diretto”, un po’ più viscido e avvolgente dei Bush e di Clinton, non ha per nulla tratto le debite conclusioni.
Vi era stata quella illusoria e “avveniristica” visione di Wesley Clark (generale dell’aggressione alla Jugoslavia) per cui ormai la guerra si vinceva con l’aviazione, senza bisogno di truppe di terra. Alcuni, anche oggi, suggeriscono di ritirarsi dall’Afghanistan, affidandosi a truppe “ascare” (ma già perfino un Karzai non è più ritenuto affidabile) e usando addirittura i “droni”, aerei senza piloti. Se gli Usa, con i loro succubi della Nato, si ritirassero, si tratterebbe di una sconfitta vera, non più quella del Vietnam; poiché non si potrebbe questa volta sperare nel crollo dell’avversario (allora l’Urss e il campo socialista), bensì essere invece sicuri dell’occupazione degli spazi lasciati vuoti dalle potenze in crescita: Russia, Cina, India, probabilmente anche Pakistan che si renderebbe indipendente dagli Usa.
Certo, questi ultimi potrebbero giocare sulle contraddizioni esistenti (e latenti oggi, ma non del tutto) tra i paesi “a est”. Tuttavia, sarebbe un gioco indiretto, tramite alleanze temporanee e “area per area”, destinate a continui disfacimenti e rifacimenti. Le manovre nel Caucaso – e i veri o presunti successi conseguiti dagli Stati Uniti in Turkmenistan ed Uzbekistan – sarebbero resi rapidamente evanescenti. Diverrebbe pure difficile controllare Georgia e Ucraina; e non parliamo di Iran e perfino Turchia, paesi ancora sotto trama più o meno sovversiva da parte degli Usa. Insomma, si produrrebbe il ben noto “effetto domino”, che non si sa dove si arresterebbe; e metterebbe difficoltà gravi anche il sicario pur sempre preferito della prepotenza americana, Israele, di cui un sempre minore numero di paesi difenderebbe allora l’esistenza in nome dell’astratta formula dei “due Stati”. Proprio per tali motivi, gli Usa di Obama non hanno alcuna intenzione di ritirarsi e programmano invece il potenziamento delle truppe sul fronte afgano.
Quanto appena esposto è appunto effetto della fine della guerra di posizione, in cui uno dei due campi non era però in grado di tenere la posizione; mentre nell’odierna guerra di movimento, con più attori in gioco, e in rafforzamento, tutto è diverso, tutto muta con rapidità (certo sempre tenendo conto che stiamo parlando di processi storici). Viene nel contempo messa in mora definitivamente la credenza ormai vetusta nella “lotta di classe”, nell’antagonismo delle masse lavoratrici contro il capitale e l’imperialismo dei paesi avanzati. Tale credenza sopravviveva (a malapena in ogni caso) per la confusione, fatta da “ritardati” (che si credevano marxisti quando erano scolastici e religiosi), tra questa lotta e lo scontro tra i due campi in quella guerra di posizione, in cui uno dei due era ormai in surplace e incapace di uscire dal giogo dell’ideologia della lotta tra socialismo (inesistente) e capitalismo, dell’ideologia del soltanto presunto “internazionalismo proletario”.
Non siamo noi del blog ad esserci inventati la preminenza dello scontro di tipo internazionale (tra quegli Stati che non esistevano più per i fumosi chiacchieroni altermondialisti e moltitudinari); e di quello interno in pieno svolgimento tra dominanti, legati alle vecchie strutture economiche e sociali “preinnovative”, e dominanti di quelle fortemente “innovative” (della distruzione creatrice, intesa in senso ampio e non solo relativa alla sfera economica), dove i primi si legano servilmente agli Usa, mentre i secondi allargano i loro orizzonti ai nuovi poli e dunque alla guerra di movimento. A noi non piacciono affatto i dominanti, siamo ancora attratti dall’idea che si riaffermeranno nuovi scontri in verticale. Non siamo per nulla convinti che tutto si giochi solo negli spazi (orizzontali) della “geopolitica”. Siamo però consci che la fase attuale è questa, non quella ancora pensata con schemi obsoleti da “vecchi ossi” (ormai rosi dal tempo) che si definiscono, per di più, di sinistra (magari “estrema”; estrema solo nella sua idiozia). Bisogna passare per una fase di guerra di movimento tra poli, che definiamo momentaneamente (e senza alcuna intenzione di cristallizzare il pensiero in tale schema) capitalistici; ma non un capitalismo, bensì alcuni capitalismi.
Attraverso tale tipo di guerra si riconfigureranno anche le “strutture” sociali nei vari capitalismi, e sarà allora possibile avvicinarsi, con nuovi orientamenti di pensiero, alla teoria e prassi di altre lotte combattute in verticale. Oggi, è proprio per colpa dei “vecchi ossi” sopra citati che è impossibile prevedere adeguatamente tali nuove lotte, non meramente interne alla riproduzione capitalistica, come sono tutte quelle odierne. Il primo compito è l’eliminazione di questi ritardati, la loro sparizione perfino nel retropensiero dei più giovani. Per il momento, è più utile la discussione con i geopolitici; non perché siamo convinti in assoluto che hanno ragione ma perché, per un’intera fase storica (non per pochi anni), sarà più energica e produttiva di effetti eclatanti la guerra di movimento tra poli, con i suoi effetti su quella interna tra dominanti nei diversi paesi facenti parte dell’area di influenza di ognuno dei poli in questione. Nessun dialogo quindi, e mai più, con i “vecchi ossi”; che crepino presto, questo il migliore augurio per le nuove generazioni!

Fonte: “Ripensare Marx”

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Brasile e Francia siglano partnership militare

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L ‘accordo sul Rafale è stato annunciato come parte di un più ampio piano di cooperazione militare, raggiunto dopo due giorni di colloqui tra il presidente Luiz Inácio Lula da Silva e il presidente francese Nicolas Sarkozy. Funzionari hanno detto che i dettagli della transazione sugli aerei saranno resi pubblici in seguito, ma Lula ha indicato ai giornalisti che l’offerta francese consente il trasferimento di tecnologia, rendendo l’affare Rafale più attraente rispetto alle proposte concorrenti dell’F/A-18 Super Hornet statunitense e dello svedese Saab GripenNG. Sarkozy ha anche accettato di collaborare con il Brasile sullo sviluppo dell’aereo da trasporto KC-390, su cui l’impresa aeronautica brasiliana Embraer sta lavorando, per sostituire il trasporto a turboelica degli USA, il C-130 Hercules, impiegato nella forza aerea brasiliana. La Francia ha accettato di acquistarne 10.

Dei quattro sottomarini diesel-elettrici Scorpene, nella lista della spesa del Brasile, uno sarà convertito in sottomarino a propulsione nucleare attacco. L’accordo comprende 50 elicotteri da trasporto francesi Eurocopter CE-725, che saranno costruiti su licenza presso gli impianti del Brasile, Helibras.

Alcuni funzionari hanno detto che il costo totale della transazione, incluse le infrastrutture connesse e i mezzi navali della Marina che accompagnano l’affare dei sottomarini, potrebbe superare i 17,1 miliardi dollari. I dettagli del finanziamento non sono stati rivelati, ma dei funzionari hanno detto che la maggior parte dei costi dovrebbe essere coperto da un consorzio europeo di banche.

E’ il consolidamento di una partnership strategica tra due popoli che hanno molto in comune“, ha detto il presidente Lula, secondo cui la collaborazione non è solo commerciale. “Vogliamo pensare insieme, creare insieme, costruire insieme e, se possibile, vendere insieme“, ha detto. Sarkozy ha detto: “Vogliamo sviluppare una grande industria aerospaziale, per costruire e vendere aerei insieme” aggiungendo, “questo accordo è per il Rafale A…, ma ora siamo in grado di parlare del prossimo Rafale“. Un comunicato congiunto ha detto che Lula e Sarkozy hanno deciso che “il Brasile e la Francia saranno anche partner strategici nel settore del trasporto aereo, in cui entrambi i paesi hanno vantaggi importanti e complementari“.

L’acquisto di armi del Brasile è parte di una strategia di difesa nazionale, annunciata da Lula, che prevede il rinnovo delle infrastrutture ed equipaggiamenti militari. Nonostante un rallentamento economico derivante dalla recessione mondiale, il Brasile, quest’anno, ha alzato il suo bilancio della difesa da 5,6 miliardi dollari dai 3,6 miliardi dollari dello scorso anno.

Il ministro della Difesa, Nelson Jobim, ha indicato che la revisione militare riguarda la spesa sulle principali voci, tra cui aerei da combattimento, elicotteri, carri armati e autoblindo. Lula ha detto che il Brasile starebbe cercando di spendere almeno il 50 per cento in più tra il 2009 e il 2010.

L’annuncio di Lula ha portato ad una lotta tra i fornitori, ansiosi di assicurarsi una quota del mercato. Dalle statistiche della Defense and Security Organization export del governo britannico, emerge che tre dei primi cinque fornitori militari del Brasile, tra il 1998 e il 2007, sono i più importanti operatori europei nel settore difesa e sicurezza. La Spagna finora è in cima alla lista, con 977 milioni dollari di forniture, la Francia si colloca al terzo con 505 milioni dollari e la Gran Bretagna è al quinto posto con 300 milioni. Israele è il secondo della lista, con 540 milioni dollari, e gli Stati Uniti, sorprendentemente per alcuni analisti, sono quarti con 425 milioni. La nuova offerta di Parigi farà della Francia la capolista.

Fonti del settore, a luglio, hanno riferito che il Brasile era nel processo di acquisizione di 250 carri armati Leopard tedeschi, per dispiegarli lungo i suoi confini. Il Brasile condivide quasi 10.000 chilometri di frontiere terrestri e d’acqua con 10 paesi. Il graduale declino della sua industria nazionale della difesa ha inferto un duro colpo alle capacità dei militari. Il Brasile, durante le dittature militari negli anni 1970 e 1980, ha costruito una formidabile industria della difesa che è caduta in disgrazia quando la democrazia è tornata nel paese. Ora Lula vuole rilanciare la capacità produttiva della difesa del Brasile.

Il riarmo militare e l’affermazione della capacità nucleare del Brasile, sono visti dagli analisti come parte dell’iniziativa di Lula per stabilire una valida superiorità del paese sull’ America Latina. Una campagna diplomatica è in corso per far ottenere al Brasile un seggio permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Fonte: http://www.upi.com/ – 8 settembre 2009

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru
http://www.bollettinoaurora.da.ru
http://sitoaurora.narod.ru
http://sitoaurora.altervista.org
http://eurasia.splinder.com

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“US uses Europe as a bridge-head to attack Eurasia”– Interview with Tiberio Graziani

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(Russia Today). The world financial crisis is not just about money though it started on Wall Street, says Tiberio Graziani, editor of Eurasia magazine on geopolitical studies and author of many books on geopolitics. RT spoke to Graziani in Rome.

RT: Governments worldwide are adopting protectionist measures. It affects all levels of society. In Italy we are seeing more support towards right wing anti-immigration policies. How can Italy and how can we all outlive the world financial crisis?

Tiberio Graziani: First of all, we should reflect on the motives of this financial crunch, which also affected production at an industrial level, first, in the United States and then in the entire Western system, constituted by a famous triumvirate: the US, Western Europe and Japan. This crisis has affected the whole world market. As for Italy, the effects have begun to show slightly later and, in my view, will become more pronounced during 2009 and in 2010.

Because the Italian economy is mainly based on small and medium enterprises, there’s no high concentration of industry, and therefore Italy tends to have more flexibility necessary to face and contain the crisis. Anyway, the crisis will be very deep.

We’ll be able to overcome a financial crisis if we operate in a continental geo-economic context. It means that we should look for recipes in which the economies of the emergent countries such as Russia, China and India are going to have their part. The crisis cannot be resolved only through national recipes or recipes created in Brussels by the European Union only.

RT: Lets talk about the recent gas crisis, Italy has been affected perhaps not as much as the Balkans and Eastern Europe, but still, it was among those taken hostage by it. The truth has been concealed. What is the real origin of the dispute?

T.G.: The origin of the gas dispute between Kiev and Moscow is actually a reflection of NATO enlargement in Eastern Europe as well as EU expansion into Eastern European countries. These two coinciding enlargements were seen in Moscow as a kind of aggression in its close neighbourhood.

This kind of enlargement began in 1989 after the fall of the Berlin Wall. From that moment the United States had decided to manage the whole planet. They chose Western Europe as a starting point to move in the direction of Russia and Central Asia, as it’s known that Central Asia has huge resources of gas and oil.

If we analyze the so-called ‘Orange Revolution’, we’ll realize that behind these achievements of the so-called civil society of Ukraine were interests coming from across the Atlantic, from Washington. We mustn’t also forget about the influence of so called philanthropists such as George Soros not just in the destabilization of Ukraine, but also in the former Yugoslavian republics.

When Ukraine abandoned or tried to abandon its natural geo-political context, that of a privileged partner of Moscow, it’s evident that when it came to gas, Moscow tried to set market prices for it as Ukraine was no longer a privileged client but a customer like any other. Obviously gas prices went up affecting Europe because Ukraine’s leaders lack sovereignty and are driven by other Western interests. Instead of looking for an economic agreement, as is usually done between sovereign countries, Ukraine aggravated the situation by siphoning off gas designated for European nations.

This true reason was neglected by the Eastern European press, including the Italian press. In the gas dispute, the majority of Italian journalists focused their attention not on its real causes, but on the deionization of the Russian government, saying that it had used geo-policy as a weapon in the gas issue, but President Medvedev and Prime Minister Putin were only applying market prices to normal economic transactions concerning gas.

RT: Ukraine is on the verge of default. Russia cannot possibly count on Ukraine paying market prices next year.

T.G.: I believe it’s possible to find an economic agreement. Moscow and Kiev can also negotiate possible discounts. I’d like to stress again that it’s not only a problem of economic transaction, export and import. It’s a geopolitical issue. It’s evident, if Ukraine chooses to set up a Western camp with Washington’s leadership, that’ll affect not only gas, but also other economic issues as well. Hence, I believe, it’ll be possible to find an economic solution, but resistance comes from Kiev, because it depends on Washington’s interests.

RT: While we’re focusing on Washington let’s talk about US military bases on Italian soil, what is public opinion here?

T.G.: Most people are aware of the presence of military bases but they aren’t politically conscious. Thus, in the case of the enlargement of a military base in Vicenza, in the north of the country, the main argument was environmental. And the main motive was hidden as, in reality; this enlargement serves the US armed forces, as they’d have the opportunity of contacting a nearby military base, located in Serbia, which also depends on Washington. In future it’ll be possible to operate in border countries and in the Middle East, such states as Syria and Iran and to some extent Russia. The Yugoslavian nation, Serbia in this case, wasn’t chosen by chance, but because it has some cultural and ethnic similarities to Moscow.

RT: The gas crisis has strained Russia-EU relations, many EU states are already looking for alternative suppliers. Does Russia need to worry?

T.G.: No, I don’t think Russia should worry about it. I think every country should look for the best opportunities in the market concerning energy supplies and be self-sufficient. In a wider geo-political context of Eurasia I believe relations between Russia and Europe, between Russia and Italy should be based also on economic interests: exchanging new high technology, military technology, energy resources and, obviously, cultural relations.

I believe cultural relations between the European Union and Italy and, naturally, the Russian Federation should be strengthened.

After WWII, more than sixty years ago, these relations declined because they were undermined by the intellectual class of Europe which supported the Westernization or Americanization of European culture. If we compare European and Italian literature of recent years with the 1930s we’ll notice that many Italian writers use more incorrect language with many borrowed English words. It is a result of cultural colonization which Washington has been carrying out since WWII until today. It’s interesting to note that this tendency is also present in the countries of the former Soviet block.

RT: What is the general line of Italy towards Russia? Can Russians count on Italy to play a part in improving Russia-EU relations?

T.G.: Sure, naturally Italy along with other countries of the European Union is a potential partner of Russia. But to be a real, not just potential, partner Italy should have more liberty and total political sovereignty, which it doesn’t have at present.

I’d like to reiterate that in Italy there are more than 100 military sites depending on the US, which are part of the project of American influence and occupation of the entire European peninsula. Under such conditions there are certain limits for Italy and other countries to express their own interests in their politics and their economy. But it should also be acknowledged that in recent years the economic policy of President Putin before President Medvedev today has laid the ground for Italy to become a true partner of Moscow not only economically but also in politics and, in my view, in a military field as well. Italy is located in the Mediterranean area, and occupies an important strategic position. Besides, Italy’s central position is also vital at a geopolitical level. And it would be correct if it uses it for Eurasian integration.

I believe relations between Italy and Russia are improving, as Italian entrepreneurs are moving in the right direction, because they overcome limitations established by a political power which comes directly from Washington and London.

RT: You’re very critical of Washington, you portray the US almost as an imperial nation almost, but we hardly live in a unilateral world anymore.

T.G.: I’m very critical of Washington because it has included Europe in its own geopolitical space and looks on Europe only as a bridge-head to attack the whole Eurasian ground. It makes me critical, but, of course, the significance of the US should always be taken into account. And the US should also realize that its era as a superpower is over. At present, in the 21st century, on a geo-political level we have a multipolar system with Russia, China, India, the United States and some states in South America, which are also creating their own geo-political entity, I refer to Brazil, Argentina, Chile and Venezuela, and, obviously, Bolivia too. In particular, major liberties which these South-American countries enjoy can allow the European Union to leave the Western camp ruled by the US and Great Britain.

RT: You travel all over Europe’s hotspots and breakaway regions. You were monitoring the election in Transdniester. There is an island off the coast of Sardinia in Italy that’s just declared independence, they say inspired by Abkhazia and South Ossetia. Is there one universal formula on how to deal with separatism?

T.G.: These issues are absolutely different. In Sardinia there is a political movement of separatism, but this is a movement which a few years ago to those people who are in the government of Italy now. As for Transdniester, it’s necessary to view its situation from the geo-strategic point of view. The countries of Moldavia and Romania feel the weight of the United States and NATO. Transdniester is one of the so called frozen conflicts. I think Transdniester’s independence would be interesting, because in this case it’ll become an area the United States won’t be able to enter. It’ll be a territory of liberty from the Eurasian point of view, because Transdniester will have its sovereignty. I don’t analyze this republic judging it by its actual government. I only analyze its geo-strategic and geo-political situation. Thus, Transdniester is a republic, and it means that on its small territory there are no NATO bases.

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Il Trentino abbraccia Beslan

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Il legame che unisce la comunità di Beslan con il Trentino è diventato assai profondo. Sin dal giorno successivo alle drammatiche vicende della scuola n. 1 della cittadina osseta l’Associazione trentina “Aiutateci a Salvare i Bambini Onlus” [www.aiutateciasalvareibambini.org], operante dal 2001 nella Federazione Russa in favore dell’infanzia ammalata ed abbandonata, in accordo con la Provincia Autonoma di Trento, invitava un gruppo di sessantatre cittadini ex ostaggio della scuola di Beslan per un periodo di riabilitazione e svago a Trento. Ciò grazie al fatto che “Aiutateci a Salvare i Bambini Onlus” dal 2001 è presente a Mosca, presso la Clinica pediatrica RDKB dove molti bambini feriti a Beslan erano stati ricoverati successivamente ai tragici eventi.

Dalla metà di novembre 2004 alla metà di gennaio 2005 viene gestito, grazie al finanziamento della Provincia di Trento, il primo progetto italiano ed uno dei primi al mondo di “Accoglienza dei bambini di Beslan” volta ad offrire ospitalità, cure riabilitative e svago.

In questo progetto un ruolo vitale è stato svolto dall’equipe di Psicologhe dell’Emergenza dell’Università di Padova, coordinata dalla compianta prof.ssa Vanna Axia, che hanno aiutato l’Associazione a capire e gestire le drammatiche dinamiche psicologiche degli ospiti di Beslan che a poche settimane dalla liberazione portavano ancora i segni del profondo trauma e del malessere psicologico unito ai complessi dovuti alla diversità culturale e del trasferimento in un paese sin a quel momento a loro sconosciuto.

Alla fine del periodo, grazie soprattutto al grande lavoro delle Psicologhe, la nostra Associazione decise di proseguire l’opera in Ossezia Settentrionale – Alania. Nacque il secondo progetto “Bambini di Beslan”: proseguire l’aiuto psicologico” che ci ha visto presenti dal 2005 al 2009 a Beslan operare con le istituzioni locali, le insegnanti della scuola e le psicologhe locali sia nel comprendere lo stato dei bambini sia per aiutare le insegnanti e le psicologhe locali nel proprio lavoro di aiuto.

In questi quattro anni la nostra Associazione ha intessuto relazioni positive e durature con la popolazione locale e le Istituzioni della Repubblica, del Rajon e della città, ed ha aiutato ad uscire dalla solitudine, dalla rabbia, dal dolore senza speranza fornendo le psicologhe locali, le insegnanti, le famiglie ed i bambini di Beslan di strumenti in grado di comprendere e gestire con fiducia le pesanti dinamiche psicofisiche derivate dal devastante evento.

Lo abbiamo fatto con un assoluto rispetto per l’antichissima cultura osseta, così distante dalla nostra, riuscendo a farci ascoltare, capire e rispettare valorizzando il lavoro di tutti quelli che hanno contribuito alla buona riuscita del progetto.

Ma per il forte legame che ci lega con il popolo osseto la nostra Associazione non poteva non organizzare una commemorazione nel quinto anniversario della tragedia di Beslan, non dimenticando altresì quella degli osseti del sud colpiti dal tentativo di genocidio dell’agosto del 2008.

Per questo due sono stati i momenti del ricordo il 3 settembre 2009. Il primo, ufficiale, nella città di Trento dove presso la Sala di rappresentanza della Provincia Autonoma si è tenuta una breve ma commossa commemorazione alla presenza dell’Assessore alla Solidarietà internazionale Lia Giovanazzi Beltrami ed il Presidente dell’Associazione. Due le evidenze sottolineate: in primo luogo che anche una tragedia come questa soggiace alla legge spietata dei media e rischia quindi di venire dimenticata, se non ne coltiviamo assiduamente la memoria; la seconda, che la solidarietà trentina oggi è l’unica realtà esterna alla Federazione russa a continuare a cooperare con Beslan, stando al fianco dei bambini sopravvissuti al massacro e alle loro famiglie.

La sera dello stesso giorno una seconda cerimonia suggestiva, alla presenza del Sindaco della Città della Pace di Rovereto, prof. Guglielmo Valduga, del Presidente dell’Associazione, del Reggente della Fondazione Campana dei Caduti e del Primo Console del Consolato della Federazione Russa in Milano Aleksandr Ju. Grachev si è svolta presso la Campana dei caduti di Rovereto, da sempre luogo della memoria e della solidarietà. Particolarmente importanti sono state le parole del Sindaco Valduga che, ringraziando l’Associazione per il ruolo e l’importante attività svolta in favore dei bambini di Beslan ha dichiarato la volontà di instaurare con la cittadina osseta un rapporto ancora più stretto ed istituzionale fra le due cittadine. La manifestazione si è conclusa con una breve cerimonia funebre celebrata da Padre Ioan, in rappresentanza del Patriarcato di Mosca e con un breve ricordo di Don Sebastiani, delegato del vescovo di Trento per l’Ecumenismo.

La Campana dei Caduti ha suggellato la cerimonia con cento rintocchi al mondo a ricordo perenne dei bambini di Beslan e delle sofferenze del popolo osseto tutto, vittime innocenti della follia umana.

La mano che per primi porgemmo loro ci pone al centro della loro memoria. Beslan si ricorda di noi ogni giorno. Noi non lasceremo solo il popolo osseto e la comunità di Beslan.

Eterna Memoria, Вечная память, æнустæм рох нæ уызыстут!

* Ennio Bordato, cittadino onorario della Città di Beslan è presidente di “Aiutateci a Salvare i Bambini Onlus”

www.aiutateciasalvareibambini.org

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Recensione a Martino Conserva/Vadim Levant, Lev Nikolaevic Gumilëv

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Martino Conserva / Vadim Levant
Lev Nikolaevic Gumilëv
Quaderni di geopolitica
diretti da Tiberio Graziani
Edizioni all’insegna del Veltro

Quarto titolo della collana “Quaderni di Geopolitica”, quest’opera differisce dalle precedenti perché non è la pubblicazione commentata d’un testo inedito, bensì una biografia. Anche la scelta del soggetto, a prima vista, potrebbe apparire insolita per l’argomento della collana; ma ciò, appunto, solo a prima vista, a quanti volessero ridurre la geopolitica ad una pura analisi contingente dei rapporti internazionali. Tale, evidentemente, non è l’opinione degli Autori: Vadim Levant e Martino Conserva. Quest’ultimo è un economista milanese, già specialista d’analisi di rischio paese e dei mercati finanziari internazionali presso una delle maggiori banche italiane, ancora oggi collaboratore di riviste finanziarie, ma appassionato di arte, filosofia e storia. Egli risiede, con la famiglia, a San Pietroburgo, dove, quando ancora si chiamava Leningrado, Vadim Ridovic Levant ha condotto i suoi studi storici.

Per una curiosa inversione di tendenze, se l’economista Conserva ha finito con lo scrivere di storia e filosofia, lo storico Levant è oggi dirigente d’una società russo-cinese! Dicevamo, dunque, che i due Autori non hanno questa visione riduttiva della geopolitica, ma la estendono anche all’indagine storica della vicenda umana relazionata all’ambiente. Tale è senz’altro il caso di Lev Nikolaevic Gumilëv, celeberrimo storico, filosofo e geografo russo. Una piccola parte della propria notorietà, egli la dovette all’uomo e alla donna che lo generarono nel 1912, i poeti Nikolaj Stepanovic Gumilëv e Anna Andreevna Achmatova. Purtroppo per lui, in vita questi nobili natali finirono col perseguitarlo: dalla fucilazione del padre nel 1921, il nuovo corso bolscevico fu per il giovane Gumilëv un vero e proprio incubo. Dal 1935 iniziò a fare avanti e indietro dalle carceri ai lavori forzati (in totale, tra prigionia, campi di lavoro e confino, 13 anni di segregazione), sempre per delazioni che il più delle volte la stessa giustizia sovietica avrebbe poi riconosciute come infondate. Ma, riabilitazione o no, resta il fatto che il pur geniale Gumilëv riuscì a laurearsi solo a 36 anni, non ottenne mai la carica di professore universitario e poté tenere i propri corsi di “studio dei popoli” solo in maniera informale, semiclandestina. Fondatore della scuola etnologica russa, elaboratore di teorie originalissime, Lev Nikolaevic rimase sempre un intellettuale isolato perché troppo indipendente, spesso e volentieri attaccato dalla intelligencija ufficiale. Basti per tutti l’aneddoto, nello stesso tempo divertente e tragico, riportato da Levant e Conserva. Nel 1974 Gumilëv, che già s’era imposto all’attenzione per diverse pubblicazioni, decise di conseguire il dottorato in geografia, siccome, essendo nell’organico di quella facoltà ma laureato in storia, rischiava d’esserne espulso col pretesto che non era “specialista”. La sua dissertazione di dottorato, L’etnogenesi e la biosfera della terra (fulcro dell’omonimo capolavoro che avrebbe pubblicato in seguito), fu riconosciuta dagli stessi esaminatori come un’opera d’altissimo profilo, ma, proprio per questo, ritenuta «superiore al livello di una elaborazione di dottorato e, pertanto, non una tesi di dottorato»; come dire: bocciato perché troppo bravo! Eppure lo studioso, che nel frattempo cominciava già a mietere riconoscimenti all’estero, rifiutò sempre di fuggire e di lasciare il paese che, nonostante tutti i torti e i soprusi arbitrariamente inflittigli, amava intensamente. Tanto più dolorosa dovette apparirgli, allora, la campagna denigratoria condotta negli anni ‘80 contro di lui da sedicenti “patrioti”, in realtà vetero-nazionalisti con sfumature xenofobe, che l’accusavano d’essere un nemico della Russia. Nel frattempo, proseguiva contro di lui l’ostracismo degli accademici, e nel 1981 gli fu anzi vietato di pubblicare alcunché. Gumilëv accolse con scetticismo anche la perestrojka, e fu proprio Juri Afanas’ev, uno dei suoi teorici, a condurre l’ultimo grande attacco contro il pensiero dello storico e geografo. Lev Nikolaevic giunse vecchio e malato alla caduta della “cortina di ferro”: innumerevoli inviti gli giungevano dall’estero, ma le sue condizioni di salute, e non più il regime, gl’impedivano ora di muoversi. Per lo meno, dal 1992 la Russia cominciò a tributare a Gumilëv i sacrosanti onori che meritava: successi editoriali per i suoi libri, inviti a dibattiti televisivi e radiofonici, lezioni pubbliche delle sue teorie. Ma l’anziano studioso, amareggiato dal tragico crollo di quella patria che, come Socrate, aveva amata benché gli fosse stata carnefice, riuscì solo ad assaggiare la tanto sospirata popolarità, perché proprio nel 1992 terminò la sua esistenza terrena. I concittadini pietroburghesi parteciparono commossi e in massa ai funerali, accompagnando la bara fino alla tumulazione nel Monastero Aleksandr Nevskij, dove riposa anche il celebre eroe eponimo. In Italia una sola opera di Gumilëv è stata finora pubblicata: Gli Unni, dalla Einaudi nel 1972. L’aspetto del suo pensiero che interessa più gli Autori, e che viene analizzato nella seconda parte dell’opera, è invece la teoria dell’etnogenesi. In estrema sintesi (chi leggerà l’opera potrà avere maggiori e più esatti particolari), Gumilëv vedeva i popoli come organismi collettivi viventi, i quali attraversano diverse fasi di crescita e caduta, regolate dall’elemento della passionarietà (ch’è sentimento sia individuale sia collettivo), ossia «l‘aspirazione ad agire, senza alcuno scopo evidente, o in base a scopi illusori», incontrollabile e inevitabile. Non poteva mancare, inoltre, un capitolo su Gumilëv e la geopolitica.

A differenza degli studiosi già presi in esame dai “Quaderni di Geopolitica” (Haushofer e Von Leers), Gumilëv si guardò sempre bene dall’elaborare tesi propriamente geopolitiche (un po’ perché non gli interessava, un po’ perché aveva già problemi a sufficienza con le autorità sovietiche). Tuttavia, i suoi studi sono stati fondamentali per la nascita della contemporanea scuola geopolitica russa.

Innanzitutto, Gumilëv con le sue opere ha rivalutato senza mezzi termini i popoli orientali e il loro apporto alla nascita della Russia: non a caso l’Università Nazionale Eurasiatica di Astana (capitale del Kazakistan) è stata intitolata proprio a lui. Ne consegue, inoltre, ch’egli ha svuotato il patriottismo russo delle possibilità d’una deriva xenofoba e piccolo-nazionalistica, riconoscendo il carattere multietnico e le molteplici radici culturali della Russia – o, per altri versi, l’unità indissolubile dell’Eurasia, quell’Eurasia che era già da decenni al centro dell’elaborazione geopolitica anglosassone e che ora, finalmente, veniva riconosciuta nella sua unità d’insieme anche a Mosca. Notano gli Autori come la concezione gumilëviana dell’Eurasia quale unione tra “Foresta” (gli Slavi) e “Steppa” (i nomadi turanici) ricalchi esattamente il tema di Halford Mackinder della Russia quale grande nemica degli Anglosassoni, in quanto riunificatrice delle forze del “Cuore della Terra” (Heartland).

Lev Nikolaevic fu anche definito “l’ultimo eurasiatista”, ed egli accettò di buon grado questo titolo. Ci piace allora concludere con una frase dello stesso Gumilëv (non prima di segnalare che l’opera comprende anche un Glossario dei concetti e dei termini e una Bibliografia scientifica, un esplicito invito all‘approfondimento rivolto al lettore): «Tesi eurasiatista: occorre cercare non tanto nemici – ce ne sono tanti! – quanto amici, questo è il supremo valore nella vita».

Un insegnamento di Gumilëv che meriterebbe davvero d’essere appreso e fatto proprio da tutti.

Daniele Scalea (“Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici”, 1/2006)

Sullo stesso argomento, si veda anche Claudio Mutti, nota introduttiva a Etnogenesi ed etnosfera di Lev GumilÎv, Eurasia. Rivista di studi geopolitici, 2, 2005, pp. 47-48.

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“Spazi metropolitani”: una strategia verso una “governanza mondiale”

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Le città e le comunità locali sono una sfida inevitabile per la strategia dei mondialisti. Essendo il loro obiettivo arrivare ad una gestione mondiale, progettano di scomporre a tutti i livelli gli stati nazione pretendendo di rafforzare i comuni (istituzioni locali). Così, costruire una vera maglia sul campo permette l’instaurazione di nuove strutture al livello più basso (il locale) che si inseriranno in organismi politici regionali, quindi continentali, infine per arrivare ad un “saltatore” unico, un governo mondiale (il globale). Quest’architettura si prefigge di raggirare l’autorità politica degli stati. È questa la sfida dell’istituto “città e governi locali collegati” – CGLU- (in inglese: United Cities and local Governments – UCLG)

In realtà, la CGLU deriva dalla fusione di tre istituti mondialisti che trattano di problemi locali: l’Unione internazionale degli enti locali (iniziale inglese IULA), la Federazione mondiale delle città unite (FMCU) e Métropolis. La IULA è la più vecchia organizzazione mondiale di enti locali poiché la sua fondazione risale al 1913. La missione della IULA consiste nel favorire il rafforzamento delle istituzioni locali e la rappresentazione dei governi locali nei settori dell’urbanizzazione. La FMCU, creata nel 1957, riunisce più di 1400 città in più di 80 paesi per sviluppare reti tematiche e programmi di cooperazione su argomenti come l’ambiente, la gestione urbana o anche il sostegno portato ad azioni internazionali. Infine, Métropolis, creato nel 1985, raccoglie più di cento città con più di uno milione di abitanti. Quest’istituto è incaricato di rispondere ai problemi specifici delle grandi zone metropolitane.

“L’autonomia” locale controllata da Bruxelles

Pur durando, questi tre organismi hanno generato CGLU nel 2004 a Parigi e la cui sede è a Barcellona. Quest’istituto planetario diretto dal sindaco di Parigi, Bertrand Delanoë, corona una moltitudine di suddivisioni. Nel caso europeo, una vera organizzazione piramidale che si basa sulla carta europea dell’autonomia locale elaborata nel 1981 dal relatore tedesco Galette disciplina tutto il vecchio continente. Questa carta si ispira al modello politico tedesco. Così, ogni paese europeo è dotato di un istituto incaricato degli affari locali che trattano sempre più con le istanze sovrannazionali di Bruxelles a spese dell’autorità nazionale. Possiamo citare il caso francese (AFCCRE: Associazione francese del consiglio dei comuni e regioni d’Europa) o il caso svizzero (ASCCRE: Associazione svizzera per il consiglio dei comuni e regioni d’Europa). Questi vari istituti sono riuniti nell’ambito di un’istanza europea il Consiglio dei comuni e regioni dell’Europa (CCRRE creato nel 1951) e diretto nel 2009 dal sindaco di Vienna, Michael Häupl. Durante gli anni novanta, il suo presidente si chiamava Valéry Giscard di Estaing, il padre del Trattato che stabilisce una costituzione per l’Europa che è stata rifiutata nel 2005 dai cittadini francesi ed olandesi e che è stato, in seguito a ciò, sostituito dal Trattato di Lisbona.

Dictat “di un istituto planetario”

Il CCRRE costituisce soltanto una sezione di CGLU. Troviamo l’equivalente europeo su tutti i continenti. In realtà, quest’istituto planetario è costituito da sette sezioni regionali: CCRRE (sede a Bruxelles), Africa (senza sede ufficiale), Asia-Pacifico (sede a Giacarta), Euro-Asia (sede a Kazan), America latina (sede a Quito), Medio Oriente e Asia dell’Ovest (sede a Istanbul) e America settentrionale (sede a Washington). Affinché tutta questa meccanica funzioni allo stesso ritmo, una carta mondiale dell’autonomia locale è stata elaborata. Ispirandosi alla carta europea, questo documento, incaricato di coordinare tutte le Comunità locali mondiali, hanno assunto forma grazie all’azione di Heinrich Hoffschulte, presidente di un gruppo di lavoro nel quadro dell’ONU. In realtà, la collusione tra le istanze dell’Onu ed europee è stata totale poiché Heinrich Hoffschulte è stato anche il vicepresidente del CCRRE negli anni novanta sotto la presidenza di Valéry Giscard d’Estaing.

Abbiamo cercato di presentare “lo scheletro” della gestione locale dal più basso al più alto livello. Una vera linea di condotta comune deve disciplinare tutta questa struttura immensa a spese degli Stati la cui esistenza non è più necessaria. Tutta quest’organizzazione accompagna le confusioni politico-finanziarie in corso in attesa di instaurare una gestione mondiale dotata di un sistema monetario, bancario, giuridico ecc. in via d’unificazione. Il lavoro di Aldous Huxley, Il migliore dei mondi, è sul punto di concretizzarsi.

Articolo Tradotto da Daniele C. (Risorsetiche)

Fonte: Voltairenet.org/

Pierre Hillard, autore francese, ha pubblicato, tra l’altro:
La Décomposition des nations européennes, sous-titre : De l’union euro-Atlantique à l’État mondial. Géopolitique cachée de la constitution européenne, préface d’ Edouard Husson, Éditions François-Xavier de Guibert, 2005 ;
La Marche irrésistible du nouvel ordre mondial, sous-titre : Destination Babel, Éditions François-Xavier de Guibert, 2007 ;
La Fondation Bertelsmann et la gouvernance mondiale, Éditions François-Xavier de Guibert, 9 avril 2009.

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Il nazionalismo paneurasiatico

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Prima della Rivoluzione, la Russia era un paese in cui il padrone ufficiale di tutto il territorio dello Stato era il popolo russo. Inoltre, non si faceva alcuna distinzione di principio tra le regioni a popolazione propriamente russa e quella con popolazione “allogena”: il popolo russo era proprietario e signore delle une e delle altre, e gli “allogeni” erano semplicemente membri della famiglia.

La situazione è cambiata con la Rivoluzione. Nel processo di decomposizione anarchica proprio del periodo rivoluzionario, la Russia avrebbe rischiato di disintegrarsi, se il popolo russo non avesse salvato l’unità dello Stato sacrificando la sua posizione di padrone unico. Così, la spietata logica della storia ha modificato la relazione tra il popolo russo e gli allogeni. I popoli non russi dell’ex Impero russo hanno acquisito una posizione che prima non avevano. Il popolo russo ora è soltanto uno dei popoli, con pari diritti, che occupano il territorio. Certo, poiché supera per numero tutte le altre popolazioni e possiede una lunga tradizione del sistema statale, esso svolge naturalmente il primo ruolo tra i popoli dello Stato. Tuttavia, non è più il padrone di casa, ma soltanto il primo tra i pari. Tale cambiamento sopraggiunto nella situazione del popolo russo deve essere tenuto in conto da tutti coloro che riflettono sull’avvenire della nostra patria. Non si deve supporre che la nuova posizione del popolo russo tra gli altri popoli dell’ex Impero e dell’odierna URSS, posizione che si è creata con la Rivoluzione, sia transitoria e provvisoria. I diritti di cui dispongono ormai i popoli non russi dell’URSS non possono essere ritirati. Il tempo consolida tale situazione. Ogni tentativo di riprendere o di ridurre questi diritti provocherebbe una resistenza accanita. Se un giorno il popolo russo si azzardasse a riprendersi o ridurre questi diritti con la forza, esso condannerebbe se stesso a una lunga e dolorosa lotta con tutti questi popoli, e a uno stato di guerra aperta o larvata con loro. Non c’è alcun dubbio che tale guerra sarebbe molto opportuna per i nemici della Russia, e che, nella loro lotta contro le pretese del popolo russo, i popoli dell’ex Impero e della URSS attuale, divenuti autonomi, troverebbero sostegno e alleati tra le potenze straniere. Inoltre, dal punto di vista morale, la posizione del popolo russo sarebbe molto svantaggiosa, quasi indifendibile. Questa lotta per riprendere i diritti degli altri popoli sarebbe impopolare in seno anche allo stesso popolo russo, poiché esso si priverebbe di ogni fondamento morale. Quale che sia l’esito di questa lotta, esso significherebbe per il popolo russo la perdita del suo senso statale a profitto di un’autoaffermazione sciovinistica, che comunque sarebbe solo il segno premonitore della disintegrazione dello Stato.

È fuori di questione, dunque, riprendere o ridurre i diritti acquisiti dai differenti popoli dell’ex Impero russo con la Rivoluzione. La Russia in cui il solo padrone di tutta l’estensione del territorio statale era il popolo russo appartiene ora al passato. Ormai, il popolo russo è e sarà soltanto uno dei popoli di pari diritti che occupano il territorio dello Stato e che prendono parte alla sua direzione.

Il cambiamento del ruolo del popolo russo nello Stato pone una serie di problemi alla coscienza nazionale russa. Prima il nazionalista russo più estremista era, malgrado tutto, un patriota. Ora, lo Stato nel quale vive il popolo russo non è più di esclusiva proprietà di quest’ultimo, e il nazionalismo russo esclusivo è un fattore di squilibrio per le componenti dello Stato, sicché finisce per distruggere la sua unità. Un eccessivo orgoglio nazionale russo può sollevare contro il popolo russo tutti gli altri popoli dello Stato, e isolarlo. Se, prima, anche un estremo orgoglio nazionale russo era un fattore sul quale lo Stato poteva appoggiarsi, ora questo orgoglio, se raggiunge un certo limite, può rivelarsi un fattore antistatale, che, lungi dall’edificare l’unità dello Stato, la fa esplodere. Visto il ruolo che ormai il popolo russo svolge nello Stato, il nazionalismo russo estremista può portare al separatismo russo, ciò che prima era impensabile. Un nazionalista estremista, che desideri ad ogni costo che il popolo russo sia il solo padrone del suo Stato e che questo Stato sia di proprietà del solo popolo russo, deve accettare, nelle attuali circostanze, che tutte le “marche” si distacchino dalla sua Russia, cioè che le frontiere di questa “Russia” coincidano approssimativamente con quelle della compatta popolazione grande-russa della Russia al di qua degli Urali: questo sogno nazionalista radicale è ristabilito soltanto nei ristretti limiti geografici. Il nazionalista russo estremista è così, nel momento attuale, un separatista, esattamente come gli altri separatisti: ucraini, georgiani, azerbaigiani, ecc.

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Se, precedentemente, il fattore fondamentale che saldava l‘Impero russo in una totalità era l’appartenenza di tutto il territorio ad un solo padrone, il popolo russo diretto dal suo zar russo, adesso questo fattore è stato annullato. Si pone quindi la questione di sapere quale altro fattore possa ormai saldare tutte le parti di questo Stato in una totalità.

La Rivoluzione ha voluto fare della realizzazione di un certo ideale sociale il fattore unificante. L’URSS non è soltanto un raggruppamento di repubbliche, è un raggruppamento di repubbliche socialiste, che cercano di realizzare lo stesso sistema sociale, ed è precisamente questa comunanza di ideali che riunisce queste repubbliche in una totalità.

La comunanza dell’ideale sociale e, per conseguenza, della direzione verso cui tende la volontà statale di tutte le parti dell’URSS è, certo, un potente fattore di unificazione. Ed anche se, col tempo, il carattere di questo ideale cambierà, il principio stesso della necessaria presenza di un ideale comune di giustizia sociale e di orientamento comune verso questo ideale deve restare alla base del sistema statale dei popoli e delle regioni che si trovano ora riuniti nell’URSS. Ci si può tuttavia chiedere se questo fattore sia sufficiente a riunire popoli così differenti in uno stesso Stato. In realtà, il fatto che la Repubblica dell’Uzbekistan o quella della Bielorussia siano tutte e due guidate nella loro politica interna dall’aspirazione a raggiungere lo stesso ideale sociale non implica affatto che esse debbano essere riunite all’ombra dello stesso Stato. Né impedisce anche che queste repubbliche siano ostili tra loro o che si facciano la guerra. È chiaro che il comune ideale sociale non basta, e che qualcos’altro deve controbilanciare le tendenze separatiste nazionaliste delle differenti parti dell’URSS.

Nell’URSS contemporanea, l’antidoto contro il nazionalismo e il separatismo è l’odio di classe e la coscienza di solidarietà che ha il proletariato di fronte al pericolo che lo minaccia permanentemente. In ogni popolo che costituisce l’URSS soltanto i proletari sono riconosciuti come cittadini a pieno diritto, e, infatti, l’URSS è composta non da popoli, bensì dai proletari di questi popoli. Avendo conquistato il potere ed esercitando la sua dittatura, il proletariato dei diversi popoli dell’URSS si sente costantemente minacciato dai suoi nemici, tanto da quelli interni (il socialismo non è ancora instaurato e, durante l’attuale periodo di “transizione”, bisogna ammettere l’esistenza dei capitalisti e dei borghesi all’interno della stessa URSS) quanto da quelli esterni (cioè il resto del mondo che si trova completamente nelle mani del capitalismo mondiale e dell’imperialismo). E, per mantenere il loro potere contro le macchinazioni dei loro nemici, i proletari di tutti i popoli dell’URSS non hanno altra scelta che di unirsi in un solo Stato. Tale maniera di dare un senso all’esistenza dell’URSS permette al governo sovietico di combattere il separatismo: i separatisti cercano di distruggere l’unità statale dell’URSS, ma questa unità è indispensabile al proletariato per difendere il proprio potere; ne consegue che i separatisti sono i nemici del proletariato. Per la stessa ragione è possibile e necessario opporsi al nazionalismo, poiché quest’ultimo può essere facilmente interpretato come separatismo latente. Inoltre, secondo la dottrina marxista, il proletariato è sprovvisto di istinti nazionalisti, che sono soltanto attributi della borghesia ed il prodotto dell’ordine borghese. La lotta contro il nazionalismo si realizza già nel fatto stesso di spostare l’attenzione del popolo dalle preoccupazioni nazionali a quelle sociali. La coscienza dell’unità nazionale, premessa di ogni nazionalismo, è distrutta dall’intensificazione dell’odio di classe, mentre la maggioranza delle tradizioni nazionali è denigrata per i suoi legami con l’ordine borghese, con la cultura aristocratica o i “pregiudizi religiosi”. D’altra parte, l’orgoglio di ogni popolo è solleticato in una certa misura dal fatto che, entro i confini del territorio da esso occupato, la sua lingua è dichiarata lingua ufficiale, le funzioni amministrative ed altre sono svolte da persone del suo ambito, e che, molto spesso, la stessa regione riceve il nome del popolo che l’abita.

Si può così dire che il fattore che riunisce tutte le parti dell’URSS in una totalità statale è, una volta ancora, la presenza di un solo padrone ufficialmente riconosciuto per tutto il territorio dello Stato; ma precedentemente questo padrone era il popolo russo governato dal suo zar, mentre ora è il proletariato di tutti i popoli dell’URSS, governato dal partito comunista.

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I difetti della presente soluzione del problema sono evidenti. Senza parlare del fatto che la divisione in proletariato e borghesia è intollerabile per numerosi popoli dell’URSS, o priva di senso e artificiale, questa soluzione è essenzialmente provvisoria. Infatti, l’unione statale del popolo e del paese dove il potere è stato preso dal proletariato è opportuna unicamente allo stadio attuale, quello della lotta del proletariato contro i suoi nemici. E il proletariato stesso, in quanto classe oppressa, è, secondo Marx, un fenomeno transitorio, destinato a sparire. Si può dire altrettanto della lotta di classe. In queste condizioni, l’unità dello Stato riposa su una base non permanente, ma transitoria. Ciò produce una situazione assurda, e genera fenomeni anormali. Per giustificare la propria esistenza, il governo centrale deve gonfiare artificialmente i pericoli che minacciano il proletariato, esso stesso deve creare degli obiettivi di odio di classe, prendendo per bersaglio la nuova borghesia, per eccitare il proletariato contro essa, ecc. In breve, esso deve costantemente mantenere nel proletariato l’idea che la sua posizione di unico padrone è estremamente fragile.

Lo scopo di questo articolo non è di fare la critica del partito comunista in quanto tale. Si esamina qui l’idea della dittatura del proletariato sotto uno solo dei suoi aspetti, quello di fattore unificante tutte le popolazioni dell’URSS in una totalità statale e contrastante i movimenti nazionali e separatisti. Ora, sotto questo aspetto, l’idea della dittatura del proletariato, quale che sia l’efficacia avuta finora, non può rappresentare una soluzione stabile e permanente. Il nazionalismo dei differenti popoli dell’URSS si sviluppa man mano che questi popoli si abituano al loro nuovo statuto. Lo sviluppo dell’istruzione e dell’alfabetizzazione nei differenti linguaggi e il fatto che le funzioni amministrative ed altre siano svolte da autoctoni intensificano le distinzioni nazionali tra le regioni, e fanno nascere presso gli intellettuali locali un timore geloso degli “elementi venuti dall’esterno” e il desiderio di rinforzare la propria posizione. Ora, nello stesso tempo, le barriere di classe all’interno di ogni popolo dell’URSS tendono a cancellarsi e le contraddizioni di classe a offuscarsi, il che crea le condizioni più favorevoli per l’emergere del nazionalismo a tendenza separatista per ogni popolo dell’URSS. Contro ciò, l’idea della dittatura del proletariato è impotente. Il proletariato giunto al potere si trova a possedere, talvolta a un livello estremo, questi istinti nazionalisti che, secondo la dottrina comunista, dovrebbero essergli completamente estranei. E questo proletario al potere sente gli interessi del proletariato mondiale in minima parte, rispetto a quanto era stato previsto dalla dottrina comunista…

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La soluzione odierna per l’unificazione statale delle parti dell’ex Impero russo deriva logicamente dal dogma marxista della natura di classe dello Stato e dal disprezzo, tipicamente marxista, del sostrato nazionale della nozione stessa di Stato. I partigiani di questo dogma non hanno altra scelta che rimpiazzare il predominio di un popolo con la dittatura di una classe, cioè di rimpiazzare il sostrato nazionale dello Stato con un sostrato di classe. Da questa sostituzione deriva tutto il resto. I comunisti sono così molto più coerenti dei democratici, che negano ogni sostrato nazionale unico dello stato russo, pretendendo una larga autonomia regionale o una federazione, senza dittatura di classe, senza comprendere che, in queste condizioni, l’esistenza dello Stato unico è impensabile.

Affinché le differenti parti dell’ex Impero russo seguitino a esistere come parti di uno stesso Stato, deve esistere un sostrato unico del sistema statale. Questo sostrato può essere nazionale (cioè etnico) o di classe. Il sostrato di classe può unificare soltanto temporaneamente le parti dell’ex Impero russo. Una unificazione stabile e permanente è dunque realizzabile soltanto sulla base di un sostrato nazionale (etnico). Prima della Rivoluzione, questo sostrato era il popolo russo. Ma non si può tornare ad una soluzione dove il popolo russo era il solo padrone di tutto il territorio dello Stato. Ed è anche chiaro che nessun altro popolo può svolgere questo ruolo. Ne consegue che il sostrato nazionale dello Stato che si chiamava precedentemente Impero russo e che ora si chiama URSS, può essere soltanto l’insieme dei popoli che abitano questo Stato, considerati come una nazione particolare, fatta di più popoli, e che, in quanto tale, possiede il suo nazionalismo.

Noi chiamiamo questa nazione eurasiatica, il suo territorio Eurasia, e il suo nazionalismo l’eurasiatismo.

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Ogni nazionalismo deriva da una coscienza precisa della natura personale, individuale, di una unità etnica data, che gli fa affermare prima di tutto l’unità organica e l’unicità di questa entità etnica (popolo, gruppo di popoli o parti di un popolo). Ma in realtà non ci sono popoli perfettamente monolitici od omogenei; in ogni popolo, anche in quello più piccolo, ci sono molteplici suddivisioni etniche, che si differenziano spesso in maniera netta per la lingua, il tipo fisico, il carattere, i costumi, ecc. Parimenti, non ci sono in realtà popoli interamente specifici o isolati: ogni popolo fa sempre parte di un gruppo di popoli al quale è legato da alcuni tratti generali. Inoltre, uno stesso popolo fa parte di un gruppo di popoli per una serie di caratteristiche, e di un altro gruppo per un’altra serie. Si può dire che l’unità di un’entità etnica è inversamente proporzionale alla sua importanza numerica, mentre la sua specificità è ad essa direttamente proporzionale. Soltanto le più piccole entità etniche (per esempio una piccola sottodivisione tribale di un popolo) si avvicinano alla piena omogeneità e all’unità totale. E solo le grandi entità etniche (per esempio un gruppo di popoli) si avvicinano all’unità totale. Il nazionalismo si astrae così sempre in una certa misura dall’eterogeneità e dall’indistinzione della sua entità etnica, e, secondo il grado di questa astrazione, si potranno distinguere differenti tipi di nazionalismo.

In ogni nazionalismo, si trovano a volte degli elementi centralizzatori (affermazione dell’unità dell’entità etnica) e degli elementi separatisti (affermazione dell’unicità e della distintività). Poiché un’entità etnica è inclusa in un’altra (un popolo fa parte di un gruppo di popoli che comporta delle sottodivisioni tribali o regionali), possono esistere dei nazionalismi di ampiezza variabile, di scala variabile. Questi nazionalismi sono anche “inclusi” l’uno nell’altro come dei cerchi concentrici, in conformità con le entità etniche verso le quali essi sono orientati. È chiaro che gli elementi centralizzatori e separatisti di uno stesso nazionalismo non sono contraddittori, allorché questi due nazionalismi concentrici si escludono a vicenda: se una entità etnica A è “inclusa” nell’entità etnica B, l’elemento separatista del nazionalismo A e l’elemento centralizzatore del nazionalismo B si escludono reciprocamente

Affinché il nazionalismo di una entità etnica non degeneri in un puro separatismo, è necessario che esso si combini con quello di un’entità etnica più grande, inclusiva di questa entità. Per quanto concerne l’Eurasia, ciò vuol dire che il nazionalismo di ciascun popolo dell’Eurasia (l’odierna URSS) deve combinarsi con il nazionalismo pan-eurasiatico, cioè con l’eurasiatismo. Ogni cittadino dello stato eurasiatico deve aver coscienza non solo di appartenere a un dato popolo, o a un sottogruppo di un popolo, ma anche a un popolo che appartiene alla nazione eurasiatica. E la fierezza nazionale di questo cittadino deve trovare soddisfazione nell’uno e nell’altro dei suoi aspetti. È in funzione di questo che deve essere costruito il nazionalismo di ciascuno di questi popoli: il nazionalismo pan-eurasiatico deve nascere dall’allargamento del nazionalismo di ogni popolo dell’Eurasia, dalla fusione di tutti questi nazionalismi in un tutto.

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Tra i popoli dell’Eurasia sono sempre esistite (e stabilite facilmente) relazioni fraterne, che suppongono l’esistenza di attrazioni e simpatie incoscienti (il caso inverso, cioè il caso della repulsione e dell’antipatia incoscienti tra due popoli dell’Eurasia sono molto rari). Certo, questi sentimenti incoscienti nono sono sufficienti. Occorre che la fraternità dei popoli dell’Eurasia divenga un fatto cosciente essenziale. Occorre che ogni popolo dell’Eurasia sia cosciente di se stesso innanzitutto come membro di questa fraternità, occupando un posto determinato in questa fraternità. E occorre che questa coscienza della sua appartenenza alla fraternità eurasiatica dei popoli divenga per ciascun popolo più forte e più chiara della coscienza della sua appartenenza a qualche altro gruppo di popoli. È certo che, per alcuni aspetti, ogni popolo dell’Eurasia può essere incluso in un altro gruppo di popoli non esclusivamente eurasiatico. Così, se si prende il criterio della lingua, i Russi fanno parte del gruppo dei popoli slavi, i Tatari, i Ciuvasci, i Ceremissi ed altri fanno parte del gruppo dei popoli chiamati “turanici”; se si prende quello della religione, i Tatari, i Baschiri, i Sarti, ecc. fanno parte del gruppo dei popoli musulmani[1]. Ma questi legami devono essere per loro meno forti di quelli che li uniscono alla famiglia eurasiatica: né il panslavismo per i Russi, né il panturanismo per i Turanici d’Eurasia, né il panislamismo per i musulmani d’Eurasia devono trovarsi in primo piano, bensì l’eurasiatismo. Tutti questi “panismi”, che intensificano le forze centrifughe dei nazionalismi etnici particolari, mettono al primo posto il legame unilaterale tra un popolo e altri popoli mediante un solo insieme di criteri; è per questo che sono incapaci di fare di questi popoli una vera nazione multietnica vivente: una individualità personale. Ma nella fraternità eurasiatica i popoli sono legati tra loro non da un insieme unilaterale di criteri, bensì dalla loro comunità di destino storico[2]. L’Eurasia è una totalità geografica, economica e storica. I destini dei popoli eurasiatici sono intrecciati, essi formano un immenso groviglio che non si può più disfare, al punto che il distacco di un popolo da questa unità non può avvenire se non con un atto di violenza contro la natura, che può apportare solo sofferenza. Non si può dire nulla di simile riguardo ai gruppi di popoli che formano la base del panslavismo, del panturanismo o del panislamismo. Nessuno di questi gruppi è unito a un tale grado dall’unità del destino storico dei popoli che ne fanno parte. Nessuno di questi “panismi” ha un valore pragmatico comparabile a quello del nazionalismo paneurasiatico. Questo nazionalismo non ha soltanto un valore pragmatico, esso è semplicemente una necessità vitale: soltanto il risveglio della coscienza dell’unità della nazione eurasiatica multietnica può dare alla Russia-Eurasia il sostrato etnico del sistema statale, senza il quale essa comincerà prima o poi a esplodere in pezzi, causando sofferenze e dolori infiniti a tutte le sue parti.

Affinché il nazionalismo paneurasiatico possa svolgere efficacemente il suo ruolo di fattore di unificazione dello Stato eurasiatico, bisogna rieducare la coscienza dei popoli dell’Eurasia. Certamente, si può dire che la vita stessa si incarica di questa rieducazione. Il solo fatto che tutti i popoli eurasiatici (e nessun altro popolo al mondo) da tanti anni sopportino insieme il regime comunista e tentino di sbarazzarsene crea tra loro migliaia di legami psicologici e storico-culturali nuovi e li costringe a vedere più chiaramente la comunità del loro destino storico. Ma questo non è tutto. È indispensabile che gli individui che hanno già pienamente e chiaramente coscienza dell’unità della nazione eurasiatica multietnica diffondano le loro convinzioni, ognuno nella nazione eurasiatica nella quale lavora. Ecco un terreno vergine da esplorare per i filosofi, i saggisti, i poeti, gli scrittori, i pittori, i musicisti e gli scienziati nei più diversi campi. Bisogna rivedere un certo numero di discipline scientifiche dal punto di vista dell’unità della nazione eurasiatica multietnica, e costruire nuovi sistemi scientifici per rimpiazzare quelli antichi, divenuti obsoleti. In particolare bisogna considerare in modo assolutamente nuovo la storia dei popoli dell’Eurasia, compresa quella del popolo russo…

In questo lavoro di rieducazione della coscienza nazionale, mirante a stabilire l’unità sinfonica (corale) della nazione multietnica d’Eurasia, è indubbio che il popolo russo deve fare lo sforzo maggiore. In primo luogo, esso dovrà più degli altri lottare contro gli antichi punti di vista, che hanno formato la coscienza nazionale russa al di fuori del contesto reale del mondo eurasiatico e che hanno isolato il passato del popolo russo dalla prospettiva generale della storia dell’Eurasia. In seguito, il popolo russo, che era prima della Rivoluzione il solo signore della Russia-Eurasia e che è ora il primo (per numero e per importanza) tra i popoli eurasiatici, deve naturalmente essere d’esempio per gli altri.

Il lavoro di rieducazione della coscienza nazionale che fanno gli eurasiatisti si svolge attualmente in condizioni eccezionalmente difficili. È sicuramente impossibile condurre apertamente questo lavoro sul territorio dell’URSS, e nell’emigrazione la maggior parte delle persone sono incapaci di prendere coscienza dei cambiamenti dovuti alla rivoluzione e delle loro conseguenze oggettive. Per costoro, la Russia è ancora un insieme di unità territoriali conquistate dal popolo russo e ad esso appartenenti in modo chiaro e netto. Essi non possono comprendere né lo scopo della costruzione di un nazionalismo paneurasiatico, né l’idea dell’unità della nazione eurasiatica multietnica. Per costoro, gli eurasiatisti sono dei traditori, che hanno rimpiazzato la nozione della “Russia” con quella dell’”Eurasia”. Essi non si rendono conto che non l’eurasiatismo, ma la vita stessa è responsabile di questa sostituzione; essi non comprendono che il loro nazionalismo russo nelle condizioni attuali è soltanto un separatismo grande-russo, che la Russia puramente russa ch’essi vorrebbero far “rinascere” è possibile solo a condizione che si separino tutte le province esterne, il che significa che essa può esistere solo nei limiti della Grande-Russia etnica. Altri movimenti di emigrati attaccano l’eurasiatismo dal punto di vista opposto, essi esigono l’abbandono di ogni specificità nazionale e pensano che si possa riorganizzare la Russia sui principi della democrazia europea, senza alcun sostrato etnico o di classe. In quanto rappresentati delle posizioni occidentalizzanti astratte delle vecchie generazioni dell’intellighenzia russa, essi non vogliono comprendere che, affinché uno Stato esista, bisogna prima di tutto che i cittadini di questo Stato abbiano coscienza della loro appartenenza organica a una totalità unica, a una unità organica che non può essere soltanto etnica o di classe, e che nel momento attuale ci sono solo due soluzioni: o la dittatura del proletariato, o la coscienza dell’unità e dell’unicità della nazione eurasiatica multietnica e il nazionalismo paneurasiatico.

(*) Articolo apparso in “Evrazijskaja Khronika”, 9, 1927, pp. 24-31, con il titolo originale Obščevrazijskij nacionalizm.

(estratto da Eurasia. Rivista di studi geopolitci, a. I, n. 1, 2004)


[1] I Tatari sono il più numeroso tra i popoli della Volga (oltre 2.500.000); rappresentano la parte fondamentale della Repubblica Autonoma Tatara, sebbene gruppi consistenti di Tatari vivano anche in altre regioni della Russia. I Tatari parlano una lingua turca e sono di religione islamica (sunnita).

I Ciuvasci, che costituiscono il grosso della popolazione della Repubblica Autonoma Ciuvascia, sono un popolo di un milione e mezzo di anime, che parla una lingua turco-tatara. Si ritiene che discendano dai Bulgari medioevali, fusi con una popolazione finnica della Volga, i Mari. In parte sono ortodossi, in parte musulmani (sunniti).

I Ceremissi (o Mari) sono un popolo di mezzo milione di anime, che vive per lo più nella Repubblica Autonoma Mari. Assieme ai Mordvini, formano il ramo dei Finni della Volga; parlano quindi una lingua ugrofinnica. Benché ufficialmente ortodossi, i Ceremissi da una parte hanno conservato molti elementi dell’antica cultura sciamanica, dall’altra hanno subìto l’influsso dell’Islam.

I Baschiri, circa un milione di persone, vivono dentro e fuori i confini della Repubblica Autonoma Baschira, al di là degli Urali. Secondo alcuni, i Baschiri sarebbero gli antenati dei Magiari, o comunque una popolazione ugrofinnica assimilata dai Turchi; altri li considerano una popolazione originariamente turca, che avrebbe integrato alcuni gruppi ugrici o finnici. La lingua che parlano è turca e la religione è islamica (sunnita).

I Sarti sono la componente sedentaria (e maggioritaria) degli Usbechi, popolo di lingua turca e religione islamica (sunnita) stanziato principalmente nell’Uzbekistan. (nota di C.M.)

[2] Confronta l’articolo del Principe K.A. Ckheidze in “Evrazijska Khronika”, 4.

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Netanyahu è andato in segreto a Mosca per poche ore

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Il gabinetto del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha riconosciuto che ha visitato segretamente Mosca all’inizio di questa settimana. Inizialmente, l’addetto militare aveva spiegato che la scomparsa del Primo Ministro per dieci ore suggerendo che aveva partecipato ad una riunione, particolarmente lunga, presso la sede del Mossad.
La stampa israeliana ha affermato che il Primo Ministro ha utilizzato un aereo della società privata Merhav, di proprietà del suo amico Yossi Maiman, ex capo del Mossad in America Latina [1].
La Rete Voltaire è stato informata di questo breve viaggio prima di essere resa pubblica.
Secondo le nostre fonti, questo cambiamento è legato al caso del cargo Artic Sea, che sarebbe stato utilizzato per una operazione del Mossad. Mosca, che non ha mai perso di vista la nave, avrebbe finto di chiedere aiuto alla NATO per costringere gli occidentali a scoprire le proprie carte per rivelare se fossero o meno coinvolti nell’operazione.
Sempre secondo le nostre fonti, la disinformazione secondo cui il cargo trasportava armi all’Iran, nel quadro del traffico organizzato dalla mafia e all’insaputa delle autorità russe, sarebbe intossicazione diffusa da parte israeliana per nascondere le suo attività.
Tuttavia l’esatta natura di tali attività non è stata specificata.
L’Artic Sea è una nave gestita da una società finlandese e battente bandiera maltese. Il suo proprietario e il suo equipaggio sono russi. Ufficialmente stava trasportando legname tra la Finlandia e l’Algeria. E’ stato presa d’assalto da un commando armato, travestito con uniformi Svedesi, il 24 luglio al largo della costa della Svezia. Le autorità marittime hanno perso il contatto con essa il 20 luglio. Il 14 agosto, la Russia ha dichiarato che era stata dirottata e mobilitava notevoli risorse militari per trovare i suoi cittadini (e il carico). Ha sollecitato l’aiuto della NATO nella sua ricerca. Ha affermato di aver individuato la nave il 17 agosto, al largo di Capo Verde. Ne ha ripreso il controllo, l’equipaggio è stato rimpatriato e vietato di avere contatti con la stampa e posto al sicuro i membri del commando.

[1] Su Yossi Maiman, «L’Égypte subventionne l’électricité en Israël», Réseau Voltaire, 3 maggio 2008.

Fonte: http://www.voltairenet.org/

10 Settembre 2009

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Il Venezuela riconosce Abkhazia e Ossezia del Sud

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In visita ufficiale a Mosca, il presidente venezuelano Hugo Chavez, Giovedi 10 Settembre, ha riconosciuto l’indipendenza dell’Abkhazia e dell’Ossezia del sud.

Voglio cogliere questa occasione per dichiarare che il Venezuela si unisce al riconoscimento dell’indipendenza delle repubbliche di Abkhazia e Ossezia del Sud”, ha detto il leader venezuelano durante i colloqui con il suo omologo russo, Dmitrij Medvedev.

La Federazione russa ha riconosciuto l’indipendenza delle due repubbliche dopo essere state attaccate dalla Georgia, col malcelato aiuto degli Stati Uniti, del Regno Unito e d’Israele. Finora, soltanto il Nicaragua ha riconosciuto i due nuovi stati.

Questo riconoscimento è anche una sfida alla NATO e una risposta alla proclamazione dell’indipendenza del Kosovo da parte dell’Occidente. Restano due repubbliche non riconosciute nella regione: il Nagorno-Karabakh e la Transnistria.

A Washington, i pareri sono divisi: per alcuni, deve essere evitato a tutti i costi che Mosca possa ampliare e consolidare la sua sfera d’influenza, indipendentemente dalla dimensione e dall’importanza dei territori interessati, per gli altri, al contrario, la trappola funziona perché la Russia s’è privata degli argomento contro i separatisti delle sue minoranze interne.

Fonte: http://www.voltairenet.org/article162015.html

10 Settembre 2009

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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Il Dipartimento di Stato degli USA estende la sua destabilizzazione nel Golfo

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L’amministrazione Obama ha deciso di rinominare l’Iran Democracy Fund. Questo programma, creato da Bush nel 2006 per la “rivoluzione verde“, ora sarà chiamato Near East Regional Democracy Fund (NERD).

Questa decisione mira in primo luogo a non imbarazzare più l’opposizione iraniana. E’ stato difficile negare che i riformatori e la loro “rivoluzione verde” siano stati sovvenzionati da Washington, quando una nota ad hoc apparve ufficialmente sul bilancio del Dipartimento di Stato.

E’ anche possibile che la modifica del nome permetta nuove operazioni di destabilizzazione degli altri Stati della regione. Pensiamo anche al Bahrain, uno stato sunnita dalla popolazione a maggioranza sciita. Anche se questa monarchia costituzionale è un’alleata degli Stati Uniti, sarebbe interessante per Washington condurre una rivoluzione, al fine di creare artificialmente dei leader rivoluzionari sciiti concorrenti dell’Iran.

Comunque sia, Hillary Clinton dovrà decidere presto tra l’USAID, l’Ufficio Affari del Vicino Oriente e l’Ufficio per la democrazia, che si disputano la gestione del nuovo fondo. Inoltre, a causa della recessione economica, esso per il momento non dispone che di 25 milioni di dollari per il 2009 (contro i 66 milioni del suo predecessore, l’Iran Democracy Fund, nel 2008).

Fonte: http://www.voltairenet.org/

8 Settembre 2009

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Daniel Estulin, Il Club Bilderberg

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Daniel Estulin
Il Club Bilderberg
La storia segreta dei padroni del mondo
Pagine 384, Prezzo € 18,50

Arianna Editrice, 2009



Dal 1954 e una sola volta all’anno, un gruppo ristretto di persone si ritrova per decidere segretamente il futuro politico ed economico dell’umanità. Nessun giornalista ha mai avuto accesso alle riunioni che fino a poco tempo fa si sono svolte presso l’Hotel Bilderberg, in una piccola cittadina olandese. Nessuna notizia è mai filtrata da quelle stanze, anche se – come dimostrano le pagine di questo libro – è durante questi incontri che vengono prese le decisioni più rilevanti per il futuro di tutti noi.

Risultato di un’indagine serrata durata oltre 15 anni, la rigorosa e documentata inchiesta di Daniel Estulin, tra storia e attualità, svela per la prima volta quello che non era mai stato detto prima, rendendo noti i giochi di potere che si svolgono a nostra insaputa e a scapito della legittima volontà e autodeterminazione dei Popoli.

L’inchiesta di Estulin dimostra come il Club Bilderberg sia stato coinvolto nelle decisioni internazionali più rilevanti della storia recente, dal Piano Marshall allo scandalo Watergate, fino ai recenti conflitti nel Medio Oriente. E’ da questa élite che emergono le figure chiave dello scacchiere internazionale – presidenti statunitensi, direttori di agenzie come la CIA o l’FBI, i vertici dei maggiori gruppi finanziari, economici e dell’informazione  – così come da questi incontri nascono le linee guida della globalizzazione.

Pubblicato in Spagna nel 2005, aggiornato al 2009 in questa prima pubblicazione italiana, Il Club BIlderberg è già stato tradotto in 48 lingue, diffondendosi in 70 paesi.

Daniel Estulin vive in Spagna ed è un prestigioso giornalista investigativo. Da quando ha realizzato ciò che nessun altro prima di lui si era mai spinto a fare, svelando i segreti del Club Bilderberg, è diventato una delle voci più rappresentative dell’informazione indipendente e anticonformista

Per acquisti:

http://www.macrolibrarsi.it/libri/__il-club-bilderberg.php

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11 Settembre – Intervista a Kurt Sonnenfeld

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Introduzione

Kurt Sonnenfeld si è laureato all’Università del Colorado (USA) alla facoltà di Affari Internazionali ed Economici, nonché in Letteratura e Filosofia. Ha lavorato per il governo degli Stati Uniti come videografo ufficiale ed è stato Direttore delle Operazioni di Trasmissione per il National Emergency Response Team della FEMA (Federal Emergency Management Agency). In più, Kurt Sonnenfeld è stato assunto da varie altre agenzie e progetti governativi per operazioni segrete e “delicate” in installazioni scientifiche e militari sparse per gli Stati Uniti.

Dopo l’11 settembre 2001, la zona conosciuta come “Ground Zero” venne chiusa agli sguardi del pubblico. A Sonnenfeld, tuttavia, venne garantito accesso senza restrizioni, il che gli consentì di raccogliere documenti per le indagini (che non ebbero mai luogo) e di fornire alcuni filmati “epurati” a quasi tutti i network televisivi del mondo. I nastri che rivelano alcune delle anomalie che egli potè notare a Ground Zero sono ancora in suo possesso.

Accusato di un crimine mai avvenuto in un’operazione fatta apposta per incastrarlo, Kurt Sonnenfeld ha subito persecuzioni attraverso più continenti. Dopo molti anni di paura, ingiustizia e isolamento ha deciso di schierarsi apertamente contro la versione ufficiale del governo ed è pronto a sottoporre il suo materiale al vaglio di esperti affidabili.

Intervista

Voltaire Network: Il suo libro autobiografico “El Perseguido” (Il perseguitato) è stato recentemente pubblicato in Argentina, dove lei vive in esilio dal 2003. Ci dica chi la sta perseguitando.

Kurt Sonnenfeld: Anche se è autobiografico, non è la storia della mia vita. E’ piuttosto la storia degli eventi straordinari che sono accaduti a me e alla mia famiglia, per mano delle autorità statunitensi, nell’arco di più di sette anni e nello spazio di due emisferi, dopo il mio periodo di lavoro a Ground Zero che mi aveva trasformato in un testimone scomodo.

Voltaire Network: Lei ha spiegato che la sua richiesta dello status di rifugiato, presentata ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951, è ancora al vaglio del Senato argentino, mentre nel 2005 le è stato concesso l’asilo politico, sebbene su base provvisoria. Ciò la rende probabilmente il primo cittadino americano in questa situazione! Ed è senza dubbio il primo funzionario del governo americano, avente contatto diretto con eventi legati all’11 settembre, che abbia deciso di rompere il silenzio. E’ questo che l’ha costretta all’esilio?

Kurt Sonnenfeld: Un rifugiato è una persona che è stata costretta ad andarsene per sempre (o a restare temporaneamente lontano) dal proprio paese per motivi di persecuzione. E’ innegabile che molte persone siano state perseguitate a causa delle leggi e delle politiche semi-fasciste introdotte dopo l’11 settembre 2001 e che anch’esse meritino lo status di rifugiati. Ma il problema è che richiedere lo status di rifugiati è un passo azzardato e pericoloso da compiere. L’America è l’unica “superpotenza” rimasta nel mondo e il dissenso viene represso con grande efficacia. Qualunque persona che richieda lo status di rifugiato per motivi politici compie per definizione un gesto di dissenso estremo. E se la tua richiesta viene respinta, cosa fai? Una volta fatta la richiesta non si torna più indietro.

Personalmente, non sono stato costretto a lasciare gli Stati Uniti e di certo non sono “fuggito”. A quell’epoca ero ancora abbastanza ignaro di ciò che si stava tramando contro di me. Non avevo ancora collegato i puntini; perciò quando partii nel 2003 avevo tutta l’intenzione di ritornare. Ero venuto in Argentina per avere un attimo di respiro, per cercare di riprendermi dopo tutto ciò che mi era accaduto. Sono venuto qui in piena libertà, con il mio passaporto e usando le mie carte di credito. Ma a causa di un’incredibile serie di avvenimenti, da allora sono stato costretto all’esilio e non sono più tornato indietro.

Voltaire Network: A che tipo di avvenimenti si riferisce?

Kurt Sonnenfeld: Sono stato colpito da false accuse di “reati” che dimostrabilmente non sono mai stati commessi, sono stato incarcerato abusivamente e torturato a causa di quelle accuse, ho dovuto subire calunnie oltraggiose sulla mia reputazione, minacce di morte, tentativi di sequestro e varie altre violazioni dei diritti umani e civili garantiti dagli accordi internazionali. Il mio ritorno negli Stati Uniti mi esporrebbe non solo alla perpetuazione di queste violazioni, ma anche alla separazione – forse permanente – da mia moglie e dalle mie gemelle di tre anni, gli unici motivi che mi restano per vivere. Inoltre, vista l’impossibilità di avere un processo equo per un crimine che non è mai avvenuto, rischierei anche la pena di morte.

Voltaire Network: Nel 2005 il governo americano ha presentato una richiesta per la sua estradizione, che è stata respinta dal Giudice Federale. Poi nel 2007 la Corte Suprema di Argentina – in una manifestazione d’integrità e indipendenza – ha respinto la richiesta di appello, ma il suo governo non desiste. Può fare un po’ di luce su questa situazione?

Kurt Sonnenfeld: Nel 2008 il governo americano ha richiesto un nuovo appello, stavolta senza averne il minimo fondamento legale, alla Corte Suprema, con il quale di certo impugnerà le già inattaccabili ordinanze del Giudice Federale. In queste ordinanze si faceva notare, tra l’altro, che ci sono troppe “sombras”, cioè ombre, sul mio caso. C’erano molte, molte evidenti mistificazioni nell’ordine di estradizione inviato dalle autorità USA e, fortunatamente, siamo riusciti a dimostrarlo. Anzi, le mistificazioni erano così numerose che sono poi servite da sostegno alla mia richiesta di asilo. Siamo anche riusciti a dimostrare di aver subito una campagna di vessazioni e intimidazioni da parte dei servizi segreti americani. Come risultato, da quel momento in poi alla mia famiglia è stato assegnato un servizio di scorta della polizia che opera 24 ore su 24. Come un senatore ha fatto notare riguardo al mio caso: “E’ il loro comportamento che tradisce le loro vere motivazioni”.

Voltaire Network: Per essere un “crimine mai avvenuto” la stanno cercando con molta ostinazione! Come spiega un simile accanimento? Come funzionario della FEMA lei doveva godere della fiducia del suo governo. Quand’è che la situazione si è capovolta?

Kurt Sonnenfeld: Guardandomi indietro, mi rendo conto adesso che la situazione si era capovolta molto prima che io comprendessi che si era capovolta. All’inizio, le false accuse contro di me erano completamente irrazionali e io ne fui totalmente distrutto. E’ già abbastanza difficile dover affrontare il suicidio di una persona che ami, ma essere accusato del suo omicidio è troppo da sopportare. Il caso fu chiuso sulla base di una montagna di prove che mi assolvevano in maniera irrefutabile (Nancy, mia moglie, aveva lasciato una lettera prima di suicidarsi, teneva un diario in cui registrava i suoi propositi suicidi, aveva una tradizione di suicidi in famiglia, ecc.). L’accusa volle essere certa al 100% della mia innocenza prima di chiedere il rigetto delle imputazioni.

Ma il fatto che io rimanessi in carcere anche DOPO che era stato emesso l’ordine di scarcerazione mi fece capire che stava accadendo qualcosa sotto la superficie. Venni tenuto in carcere per QUATTRO MESI dopo che i miei avvocati erano stati informati del mio proscioglimento e venni infine liberato nel giugno del 2002. Durante quel periodo, iniziarono a verificarsi una serie di strani avvenimenti. Mentre ero ancora in carcere, ebbi una conversazione telefonica con alcuni funzionari della FEMA tentando di risolvere la mia questione, e lì mi resi conto che mi consideravano “compromesso”. Mi fu detto che tutti erano d’accordo sul fatto che “l’agenzia andava protetta”, soprattutto alla luce degli sconvolgimenti che incombevano con il varo del “Patriot Act” e l’atteso trasferimento di competenze che sarebbe avvenuto con la nuova Homeland Security. Dopo tutti i pericoli che avevo corso, tutte le traversie e le difficoltà che avevo affrontato per loro negli ultimi 10 anni, mi sentii tradito. Fu una cosa che mi lasciò un vuoto nell’anima.

In seguito a questo abbandono, dissi loro che non avevo più i nastri, che li avevo dati a “un burocrate” di New York e che avrebbero dovuto attendere la mia scarcerazione per poter ritrovare qualunque documento in mio possesso. Poco tempo dopo quella conversazione, la mia casa fu “sottoposta a sequestro”, le serrature furono cambiate e i vicini videro alcuni uomini che entravano nella casa, anche se il tribunale non ha trascritto su nessun verbale le loro testimonianze, come sarebbe stato obbligato a fare. Quando finalmente fui rilasciato, scoprii che il mio ufficio era stato messo a soqquadro, il computer era sparito, la videoteca che tenevo nel seminterrato era stata perquisita e mancavano molte videocassette. C’erano uomini perennemente parcheggiati nella strada dietro casa mia, il mio sistema di sicurezza era stato “violato” più di una volta, le luci di sicurezza esterne erano state disattivate, ecc.. A questo punto me ne andai a stare nella casa di montagna di alcuni amici, e PERFINO QUESTA fu saccheggiata.

Chiunque cerchi la verità dovrà riconoscere che vi è stata una sconcertante serie di irregolarità in questo caso e che una mostruosa ingiustizia è stata perpetrata contro di me e i miei cari. Questa intensa campagna per riportarmi sul suolo americano è un falso pretesto che cela motivi più oscuri.

Voltaire Network: Lei ha fatto capire di aver visto a Ground Zero alcune cose che non concordano con la versione ufficiale. Ha fatto o detto qualcosa che potesse sollevare sospetti in questo senso?

Kurt Sonnenfeld: In quella stessa telefonata dissi che avrei “reso pubblici” i miei sospetti, non solo riguardo ai fatti dell’11 settembre 2001, ma anche riguardo a vari altri contratti su cui avevo lavorato in passato.

Voltaire Network: Su cosa erano fondati i suoi sospetti?

Kurt Sonnenfeld: Ripensandoci, c’erano molte cose a Ground Zero che non quadravano. Era strano, a mio avviso, che mi fosse stato comunicato di andare a New York ancora prima che il secondo aereo colpisse la Torre Sud, quando i media parlavano ancora di un “piccolo aereo” entrato in collisione con la Torre Nord; una catastrofe, fino a quel punto, di dimensioni troppo ridotte per poter interessare la FEMA. Invece la FEMA fu mobilitata in pochi minuti, mentre ci vollero dieci giorni per inviarla a New Orleans dopo l’uragano Kathrina, nonostante l’abbondante preavviso! Era strano che ogni videocamera fosse severamente proibita entro il perimetro di sicurezza di Ground Zero, che l’intera zona fosse dichiarata “scena del delitto”, ma poi tutte le “prove” all’interno della scena del delitto venissero rimosse e distrutte con grande rapidità. Infine trovai molto strano che la FEMA e altre agenzie federali si fossero già posizionate nel loro centro operativo al Molo 91 il 10 settembre 2001, il giorno prima degli attacchi!

Ci si chiede di credere che tutte e quattro le “indistruttibili” scatole nere dei due jet che colpirono le Twin Towers non siano mai state ritrovate perché completamente vaporizzate, eppure io ho girato alcune riprese delle ruote di gomma del carrello di atterraggio degli aerei rimaste quasi intatte, così come i sedili, parte della fusoliera e una turbina, che non si erano per nulla vaporizzate. Detto questo, trovo piuttosto strano che tali oggetti possano essere usciti intatti da un disastro che ha trasformato gran parte delle Twin Towers in polvere sottile. E nutro seri dubbi sull’autenticità di una “turbina di jet”, di gran lunga troppo piccola per appartenere a uno dei Boeing!

Ciò che accadde all’Edificio 7 è poi incredibilmente sospetto. Ho dei video che mostrano che il cumulo di macerie era incredibilmente piccolo e che gli edifici ai due lati non erano stati toccati dall’Edificio 7 durante il crollo. Non era stato colpito da nessun aereo, aveva subito solo danni minori quando le Twin Towers crollarono e c’erano solo piccoli incendi su un paio di piani. Quell’edificio non poteva implodere in quel modo senza una demolizione controllata. Eppure il crollo dell’Edificio 7 fu scarsamente menzionato dai media e sospettamente ignorato dalla Commissione sull’11 Settembre.

Voltaire Network: Stando ai rapporti, i piani sotterranei del WTC7 contenevano materiali d’archivio importanti e indiscutibilmente compromettenti. Si è imbattuto in qualcuno di questi materiali?

Kurt Sonnenfeld: I Servizi Segreti, il Dipartimento della Difesa, l’FBI, l’Internal Revenue Service, la Commissione Sicurezza e Scambi e il “Centro Crisi” dell’Ufficio per la Gestione delle Emergenze vi occupavano ampi spazi che si estendevano per diversi piani dell’edificio. Anche altre agenzie federali avevano lì i propri uffici. Dopo l’11 settembre si scoprì che nascosta nell’Edificio 7 c’era la più grande centrale nazionale clandestina della Central Intelligence Agency al di fuori di Washington, DC, una base operativa dalla quale si potevano spiare diplomatici delle Nazioni Unite e si preparavano missioni di antiterrorismo e controspionaggio.

Al WTC7 non c’erano parcheggi sotterranei. E non c’erano camere blindate sotterranee. Le agenzie federali con sede al WTC7 tenevano i loro veicoli, documenti e materiali nell’edificio dei loro associati, al di là della strada. Al di sotto del piano terra dell’US Customs House (Edificio 6) c’era un ampio garage, separato dal resto dell’area sotterranea del complesso e tenuto sotto stretta sorveglianza. Era qui che le agenzie governative parcheggiavano le loro auto a prova di bomba e le limousine blindate, i finti taxi e i finti furgoni della compagnia telefonica usati per la sorveglianza e le operazioni segrete, i furgoni specializzati e altri veicoli. Inoltre da quell’area di parcheggio si poteva accedere al sottolivello in cui si trovava la camera blindata dell’Edificio 6.

Quando crollò la Torre Nord, la US Customs House (Sede della Dogana, nell’Edificio 6) rimase schiacciata e fu totalmente ridotta in cenere. Gran parte degli stessi livelli sotterranei rimasero distrutti. Ma c’erano dei vuoti. E fu in uno di quei vuoti, appena scoperto, che io scesi a investigare insieme ad una speciale Task Force. Fu lì che trovammo, gravemente danneggiata, l’anticamera di sicurezza alla camera blindata. In fondo all’ufficio di sicurezza c’era la grande porta d’acciaio che dava accesso alla camera blindata; di fianco ad essa, sul muro di cemento, c’era una tastiera a combinazione. Ma il muro era lesionato e parzialmente crollato e la porta era stata forzata ed era aperta. Così entrammo dentro con le torce. A parte diverse file di scaffali vuoti, nella camera non c’era altro che polvere e macerie. Era stata svuotata. Ma perché era stata svuotata? E quando?

Voltaire Network: E’ questo che le fece suonare un campanello d’allarme?

Kurt Sonnenfeld: Sì, ma non subito. Con tutto quel caos era difficile ragionare. Fu solo dopo aver elaborato tutto che il “campanello d’allarme” iniziò a suonare.

L’Edificio Sei era stato evacuato dodici minuti dopo che il primo aereo aveva colpito la Torre Nord. Le strade si erano immediatamente intasate di camion dei pompieri, auto della polizia e traffico in tilt e la camera blindata era così grande (15 metri per 15, secondo la mia stima) che ci sarebbe voluto almeno un grosso camion per portar via tutto il suo contenuto. Dopo il crollo delle torri e la distruzione di buona parte del livello sotterraneo, una missione per recuperare il contenuto della stanza blindata sarebbe stato impossibile. La stanza deve essere stata svuotata prima dell’attacco.

Ho ampiamente descritto tutte queste cose nel mio libro ed è evidente che tutto il materiale importante è stato portato al sicuro molto prima degli attacchi. Per esempio, la CIA non sembrava troppo preoccupata per la perdita. Quando fu scoperta l’esistenza del loro ufficio clandestino nell’Edificio 7, un portavoce dell’agenzia disse ai giornali che un gruppo speciale era stato inviato a frugare fra le macerie alla ricerca di documenti segreti e relazioni d’intelligence, anche se c’erano milioni, se non miliardi, di fogli che svolazzavano per le strade. Nonostante ciò il portavoce sembrava molto fiducioso: “Non dev’esserci poi così tanta carta in giro”, disse.

La Dogana, in un primo momento, affermò che tutto era andato distrutto. Che il calore era stato così intenso da ridurre in cenere tutto ciò che si trovava nella cassaforte a vista. Ma pochi mesi dopo annunciarono di aver sgominato una cellula del riciclaggio di denaro e del narcotraffico colombiano grazie al miracoloso ritrovamento di alcuni documenti cruciali che si trovavano in cassaforte, incluse fotografie di sorveglianza e cassette (sensibili al calore) delle intercettazioni telefoniche. E quando traslocarono nella nuova sede di Penn Plaza 1, a Manhattan, appesero orgogliosamente nell’atrio la loro Placca della Corporazione e la grande insegna rotonda del Servizio Doganale degli Stati Uniti, anch’essi miracolosamente recuperati, in eccellenti condizioni, dal loro ex ufficio schiacciato e incenerito al World Trade Center.

Voltaire Network: Lei non era il solo funzionario assegnato a Ground Zero. Gli altri non hanno notato le stesse anomalie? Sa se anche loro sono stati minacciati?

Kurt Sonnenfeld: In effetti c’erano alcune persone che conobbi in due diverse esplorazioni. Alcuni di noi, in seguito, ne discussero. Essi sanno a chi mi riferisco e spero che si facciano avanti, ma sono certo che sono molto preoccupati di ciò che potrebbe succedergli se lo fanno. Lascio a loro la decisione, ma la forza sta nei numeri.

Voltaire Network: Con la pubblicazione del suo libro lei è diventato un “whistleblower”: un altro passo da cui non si torna indietro! Devono esserci molte persone che abbiano una conoscenza diretta di ciò che realmente accadde, o non accadde, quel giorno fatale. Eppure nessuno è ancora uscito allo scoperto, o almeno nessuno che fosse direttamente coinvolto a livello ufficiale. E’ questo che rende il suo caso così singolare. A giudicare dalle sue traversie, non è difficile immaginare che cosa stia trattenendo questa gente dal parlare.

Kurt Sonnenfeld: In verità ci sono molte altre persone intelligenti e credibili che stanno parlando. Solo che vengono screditate e ignorate. Alcune vengono minacciate e perseguitate, com’è successo a me.

La gente è paralizzata dalla paura. Tutti sanno che se si mette in discussione l’autorità degli Stati Uniti, si va incontro a problemi, in un modo o nell’altro. Come minimo si verrà screditati e disumanizzati. Più probabilmente ci si ritroverà indiziati per qualcosa di completamente irrelato, come evasione fiscale, o qualcosa di peggio, come nel mio caso. Guardi ad esempio cosa è successo alla “gola profonda” dei Servizi Segreti, Abraham Bolden, o al campione di scacchi Bobby Fischer dopo avere espresso il loro sdegno per gli Stati Uniti. Gli esempi sono innumerevoli. In passato ho chiesto ad amici e colleghi di testimoniare a mio favore per contrastare tutte le menzogne che venivano pubblicate dai media, e tutti erano terrorizzati per le conseguenze che questo avrebbe potuto generare per loro e le loro famiglie.

Voltaire Network: A che livello le sue scoperte a Ground Zero potrebbero evidenziare il coinvolgimento del governo in quegli avvenimenti? Lei è a conoscenza delle indagini condotte da numerosi scienziati e professionisti qualificati che non solo corroborano le sue scoperte, ma si spingono molto più in là? Lei considera queste persone come “pazzi complottisti”?

Kurt Sonnenfeld: Ai più alti livelli di Washington qualcuno sapeva cosa stava per accadere. Desideravano così tanto una guerra che come minimo lo hanno lasciato succedere, ma più probabilmente hanno contribuito agli eventi.

A volte mi sembra che i “pazzi” siano coloro che si aggrappano a ciò che gli viene detto con un fervore quasi religioso, nonostante tutta l’evidenza del contrario: coloro che non prendono neppure in considerazione l’idea che possa esservi stato un complotto. Ci sono così tante anomalie nelle indagini “ufficiali” che non si può dare la colpa solo alla distrazione o all’incompetenza. Conosco bene gli scienziati e i professionisti qualificati a cui lei si riferisce e le loro scoperte sono convincenti, credibili e presentate nel rispetto del protocollo scientifico; in netto contrasto con le scoperte delle indagini “ufficiali”. in più, numerosi funzionari dell’intelligence e del governo hanno ora espresso la ben informata opinione che la Commissione sull’11/9 fosse una farsa nel migliore dei casi, una copertura nel peggiore. La mia esperienza a Ground Zero non è altro che un ennesimo pezzo del puzzle.

Voltaire Network: Questi avvenimenti sono ormai 8 anni alle nostre spalle. Lei ritiene che scoprire la verità sull’11/9 continui a essere un obiettivo importante? E perché?

Kurt Sonnenfeld: E’ di assoluta importanza. E lo sarà ancora tra 10 e anche tra 50 anni se la verità non sarà ancora stata rivelata. E’ un obiettivo importante perché, in questa fase della storia, molte persone sono troppo disposte a credere qualunque cosa venga detto dalle autorità e troppo disposte a seguirle. Una persona in stato di shock cerca una guida. Le persone che hanno paura sono manipolabili. E la possibilità di manipolare le masse si traduce in benefici inimmaginabili per un pugno di individui molto ricchi e potenti. La guerra è estremamente costosa, ma il denaro deve pur andare da qualche parte. C’è una minoranza per cui la guerra è assai remunerativa. E in qualche modo i loro figli finiscono sempre a Washington DC, a prendere decisioni e scrivere budget, mentre i figli dei poveri e di chi è privo di contatti finiscono sempre sulle linee nemiche, a prendere ordini e combattere le loro battaglie. Gli enormi fondi neri del Ministero della Difesa americano rappresentano una fonte di denaro senza limiti per il complesso militar-industriale, con cifre che raggiungono i multi-trilioni di dollari, e continuerà così finché le masse non si sveglieranno, recupereranno il loro scetticismo e chiederanno attendibilità. Le guerre (e i falsi pretesti per la guerra) non cesseranno finché la gente non comprenderà le vere cause della guerra e non smetterà di credere alle spiegazioni “ufficiali”.

Voltaire Network: Ciò che si è soliti definire il Movimento per la Verità sull’11/9 ha richiesto una nuova indagine indipendente su quegli avvenimenti. Lei pensa che da questo punto di vista l’amministrazione Obama dia adito a qualche speranza?

Kurt Sonnenfeld: Lo spero, ma sono un po’ scettico. Perché mai la leadership di un qualsiasi governo dovrebbe volontariamente intraprendere un’azione che si tradurrebbe in un grave danno per la sua autorità? Preferiranno mantenere lo status quo e lasciare le cose come sono. Il conducente del treno è cambiato, ma il treno ha per questo cambiato il suo percorso? Ne dubito. La spinta deve venire dal pubblico, non solo a livello nazionale, ma internazionale, come sta cercando di fare il nostro gruppo.

Voltaire Network: Parecchi gruppi attivisti e per i diritti umani stanno sostenendo il suo appello, non ultimo il vincitore del Premio Nobel per la pace Adolfo Pérez Esquivel. In generale, come ha risposto il popolo argentino alla sua situazione?

Kurt Sonnenfeld: Con un’incredibile valanga di sostegno. La dittatura militare è un evento ancora fresco nella memoria collettiva della gente di qui, insieme con la consapevolezza che la dittatura (insieme a tutte le altre dittature sudamericane dell’epoca) era supportata dalla CIA, guidata all’epoca da George Bush Senior. Si ricordano bene dei centri di tortura, delle prigioni segrete, delle migliaia di persone “scomparse” a causa delle loro opinioni, del vivere quotidianamente nella paura. Sanno che gli Stati Uniti farebbero oggi la stessa cosa se ciò andasse a loro vantaggio, che invaderebbero un paese per perseguire i loro obiettivi politici ed economici e poi manipolerebbero i media con un “casus belli” fabbricato ad arte per giustificare le loro conquiste.

Io e la mia famiglia siamo onorati di avere Adolfo Pérez Esquivel e i suoi colleghi del Servicio de Paz y Justicia (SERPAJ) tra i nostri più cari amici. Abbiamo lavorato insieme su molte questioni, inclusi i diritti dei rifugiati, i diritti delle donne, i bambini senza famiglia e i bambini malati di HIV/AIDS. Siamo anche onorati di avere il sostegno di: Abuelas de Plaza de Mayo; Madres de Plaza de Mayo, Línea Fundadora; Centro de Estudios Legales y Sociales (CELS); Asamblea Permanente de Derechos Humanos (APDH); Familiares de Detenidos y Desaparecidos por Razones Políticas; Asociación de Mujeres, Migrantes y Refugiados Argentina (AMUMRA); Comisión de Derechos Humanos de la Honorable Cámara de Diputados de la Provincia de Buenos Aires; Secretaría de Derechos Humanos de la Nación; e del Programa Nacional Anti-Impunidad. A livello internazionale, Amicus Curiae è stato presentato a nostro favore da REPRIEVE in Gran Bretagna, con la collaborazione di NIZKOR in Spagna e Belgio. In più, mia moglie Paula e io siamo stati ricevuti al Congresso dalla Comisión de Derechos Humanos y Garantías de la Honorable Cámara de Diputados de La Nación.

Voltaire Network: Come si diceva, decidere di scrivere questo libro e di esporsi al pubblico è stato un passo importante. Come si è deciso a compierlo?

Kurt Sonnenfeld: Per salvare la mia famiglia. E per far sapere al mondo che le cose non sono come sembrano.

Voltaire Network: Ultimo ma non meno importante: cosa ne farà dei suoi nastri?

Kurt Sonnenfeld: Sono convinto che i miei nastri rivelino molte più anomalie di quante io sia in grado di riconoscerne, viste le mie limitate qualifiche. Cercherò pertanto di collaborare in ogni modo che posso con esperti seri e affidabili nello sforzo comune di rivelare la verità.

Voltaire Network: Grazie mille!

Traduzione di Gianluca Freda

http://blogghete.blog.dada.net/post/1207098305/FUGA+DA+NEW+YORK

http://www.silviacattori.net/article952.html

Fonte:  www.voltairenet.org

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La Russia, un grande ostacolo sulla strada dell’”American World”

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Mentre gli Stati Uniti cercano, dall’11 settembre 2001, di accelerare la trasformazione del mondo a immagine della società democratica e liberale sognata dai loro padri fondatori, le civiltà non occidentali si oppongono nel loro cammino e affermano la loro volontà di potenza. La Russia, in particolare, costituisce un grave ostacolo geopolitico per Washington. Essa dovrà difendere la sua area d’influenza e dimostrare al mondo che è essenziale sul piano energetico.

Uno degli autori classici della geopolitica, Halford J. Mackinder (1861-1947), un ammiraglio inglese, che ha insegnato geografia a Oxford, ha difeso come tesi centrale che le principali dinamiche geopolitiche della Terra ruotano intorno al cuore del mondo (Heartland), l’Eurasia. Perno della politica mondiale a cui la potenza navale non poteva arrivare, l’Eurasia è il cuore intimo della Russia, un impero che “occupava, per tutto il mondo, la posizione strategica centrale che occupa la Germania in Europa”. Attorno a questo epicentro delle crisi geopolitiche globali, protetto da una cintura fatta di barriere naturali (il vuoto Siberiano, l’Himalaya, il deserto del Gobi, Tibet), che Mackinder chiamava la mezzaluna interna, si trovano le coste del continente eurasiatico: l’Europa occidentale, Medio Oriente, Asia meridionale e orientale.

Al di là di queste periferie, oltre le barriere marine, due sistemi insulari completano l’inquadramento dell’Heartland: la Gran Bretagna e il Giappone, teste di ponte di una mezzaluna più lontana, quella a cui appartengono gli Stati Uniti. Secondo questa visione del mondo, le potenze marittime mondiali, la talassocrazie difese da Mackinder, devono impedire l’unità continentale eurasiatica. Esse devono quindi mantenere la divisione est-ovest tra le maggiori potenze continentali in grado di attuare delle alleanze (Francia/Germania, Germania/Russia, Russia/Cina), ma anche il controllo sulle rive del continente eurasiatico. Questa matrice anglo-sassone, che può essere applicata al caso dell’Impero Britannico nel XIX secolo, come in quello della talassocrazia statunitense del XX secolo, rimane un utile strumento per capire la geopolitica di oggi.

La teoria di Mackinder ci ricorda due cose che le talassocrazie anglo-sassoni non hanno mai dimenticato: non esiste un progetto europeo di potenza (potenza europea) senza una forte e indipendente Germania (ora la Germania rimane in gran parte sotto il controllo americano dal 1945), non ci sono equilibri globali opposto al mondo americano, senza una Russia forte. L’America vuole l’America-mondo: l’obiettivo della sua politica estera, al di là della semplice ottimizzazione dei suoi interessi strategici ed economici del paese, è la trasformazione del mondo a immagine della società americana. L’America è messianica, e lì sta il motore della sua intima proiezione di potenza.

Nel 1941, con la firma della Carta Atlantica, Roosevelt e Churchill diedero una tabella di marcia al sogno di un governo mondiale che organizzasse la globalizzazione liberale e democratica. Fino al 1947, l’America aspirava alla convergenza con l’Unione Sovietica, nell’idea di formare con essa un governo mondiale, nonostante l’evidente irriducibilità dei globalismi sovietico e americano. Due anni dopo il crollo dell’Europa nel 1945, gli americani si resero conto che non sarebbero riusciti a trascinare i sovietici nel loro globalismo liberale e si rassegnarono a ridurre geograficamente il loro progetto: l’Atlantismo sostituì temporaneamente il globalismo. Poi, nel 1989, quando l’Unione Sovietica vacillò, il sogno globalista alzò la testa e l’America spinse l’acceleratore la sua diffusione in tutto il mondo. Un nuovo nemico globale, sul cadavere del comunismo, ha fornito un pretesto per le nuove proiezioni globali: il terrorismo islamista. Durante la guerra fredda, gli americani avevano fatto crescere questo nemico, perché bloccava la strada alla rivoluzione socialista, che si sarebbero volte verso la Russia sovietica. L’islamismo sunnita è stato l’alleato degli americani contro la Russia sovietica in Afghanistan. Questo fu il primo crogiolo della formazione dei combattenti islamici sunniti, la matrice di Al Qaeda come degli islamisti algerini… Poi ci furono la rivoluzione fondamentalista sciita e l’abbandono da parte degli americani dello Scià dell’Iran, nel 1979. Il calcolo di Washington era che l’Iran fondamentalista sciita non si sarebbe alleato con l’Unione Sovietica, al contrario di una rivoluzione marxista, e avrebbe costituito un contrappeso ai fondamentalisti sunniti.

Nel mondo arabo, è stata la Fratellanza Musulmana, dall’Egitto alla Siria, ad essere incoraggiata. Washington spinse l’Iraq contro l’Iran, e viceversa, secondo il principio del “let them kill themselves” (lasciare che si uccidano a vicenda), già applicata ai popoli russo e tedesco, per distruggere il nazionalismo arabo contrario agli interessi d’Israele. L’Alleanza continuò dopo la caduta dell’URSS. Fu al lavoro nella demolizione dell’edificio della Jugoslavia e nella creazione di due stati musulmani in Europa, Bosnia-Erzegovina e in Kosovo. L’islamismo è sempre stato utile per gli americani, sia nella sua posizione di alleato contro il comunismo durante la guerra fredda, sia nel suo nuovo ruolo di nemico ufficiale dopo la fine del bipolarismo. Certo, gli islamisti esistono realmente non sono una creazione immaginaria dell’America e hanno una capacità di danneggiamento e di destabilizzazione innegabile. Ma se possono prendere delle vite, non cambieranno il quadro della potenza nel mondo.

La guerra contro l’Islam è lo schermo ufficiale di una guerra ben più grave: la guerra americana contro le potenze eurasiatiche.

Dopo il crollo dell’URSS, divenne chiaro agli americani che una potenza continentale, attraverso la combinazione di massa demografica e di potenzialità industriale, potrebbe rompere il progetto dell’America-mondo: la Cina. La formidabile ascesa industriale e commerciale della Cina rispetto all’America ricorda la situazione della Germania che, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, raggiunse e superò le talassocrazie anglo-sassoni. Questa fu la causa primaria della prima guerra mondiale. Se la Cina diventa una potenza di primo piano, pensano gli strateghi degli Stati Uniti, per la combinazione della crescita economica e dell’indipendenza geopolitica, e mantiene il suo modello confuciano immune dalla democrazia occidentale, allora è finita per l’American World… Gli americani possono rinunciare al loro principio del Manifest Destiny (Principio del Destino Manifesto) del 1845 e al messianismo dei loro padri fondatori, i fondamentalisti biblici o massoni.

Mentre l’Unione Sovietica era appena crollata, gli strateghi statunitensi orientarono le loro riflessioni su come contenere l’ascesa della Cina. Senza dubbio compresero la piena attualità del ragionamento di Mackinder. Gli anglo-sassoni avevano distrutto prima i progetti eurasiatici dei tedeschi e poi quelli dei russi; bisognava abbattere quello dei cinesi. Ancora una volta il mare ha voluto contrastare la Terra. La guerra umanitaria e la guerra contro il terrorismo potrebbero essere utilizzate come nuovi pretesti per nascondere i veri scopi della nuova Grande Guerra Eurasiatica: la Cina come obiettivo, la Russia come condizione per vincere la battaglia. La Cina come obiettivo perché la Cina è l’unica forza in grado di superare l’America nella classifica della potenza materiale, nell’orizzonte di venti anni. La Russia come condizione perché dal suo orientamento strategico deriverà, in gran parte, l’organizzazione del mondo di domani: unipolare o multipolare.

Di fronte alla Cina, gli americani hanno cominciato a dispiegare una nuova strategia globale, che è articolata in diverse componenti:

Estensione del blocco transatlantico allargato fino ai confini della Russia e della Cina occidentale.

Il controllo della dipendenza energetica della Cina.

L’accerchiamento della Cina attraverso la ricerca e il rafforzamento delle alleanze con gli avversari secolari del Regno di Mezzo (indiani, vietnamiti, coreani, giapponesi, taiwanesi …).

L’indebolimento dell’equilibrio tra le maggiori potenze nucleari attraverso lo sviluppo dello scudo anti-missile.

La strumentalizzazione dei separatismi (in Serbia, Russia, Cina, e fino agli estremi confini dell’Indonesia) e il ridisegno della mappa delle frontiera (Medio Oriente arabo). Washington ha creduto, negli anni ‘90, di essere in grado di portare al suo fianco la Russia, per formare un vasto blocco transatlantista, da Washington a Mosca, con al centro la periferia europea atlantizzata dal crollo del 1945. Questo disse George Bush padre, nel 1989, quando rivolse un appello per la formazione di un’alleanza “da Vancouver a Vladivostok”; insomma il mondo dei bianchi organizzati sotto l’egida dell’America, una nazione destinata paradossalmente, per il contenuto stesso della sua ideologia, a non essere prevalentemente bianca entro il 2050.

L’estensione del blocco transatlantico è la primo dimensione del grande gioco euroasiatico. Gli americani non solo hanno mantenuto la NATO dopo il crollo del Patto di Varsavia, ma vi hanno ridato forza: in primo luogo la NATO è passata dal diritto internazionale classico (intervento solo in casi di aggressione a uno Stato membro dell’alleanza), al diritto di interferire. La guerra contro la Serbia nel 1999, ha segnato il passaggio e questo distacco tra la NATO e il diritto internazionale. In secondo luogo, la NATO ha inglobato i paesi dell’Europa centrale e orientale. Gli spazi del Baltico e della Jugoslavia (Croazia, Bosnia, Kosovo) sono stati integrati nella sfera d’influenza della NATO. Per ampliare ulteriormente la NATO e stringere il cappio attorno alla Russia, gli americani erano dietro le rivoluzioni colorate (Georgia nel 2003, Ucraina nel 2004, Kirghizistan nel 2005), questi capovolgimenti politici non-violenti, finanziati e sostenuti da fondazioni e ONG Americane, mirano ad installare governi anti-russi. Una volta al potere, il presidente ucraino pro-occidentale, ha chiesto la partenza della flotta russa dai porti della Crimea e l’entrata del suo paese nella NATO. Quanto al presidente georgiano ha dovuto, nel 2003, militare per una campagna per l’adesione del suo paese alla NATO e per la rimozione dei peacekeeper russi, dal 1992 dislocati per tutelare i popoli dell’Abkhazia e dell’Ossezia meridionale.

Alla vigilia dell’11 Settembre 2001, attraverso la NATO, l’America aveva già esteso la sua forte presa sull’Europa. Aveva rafforzato i musulmani bosniaci e albanesi e respinto la Russia dallo spazio jugoslavo. Durante il primo decennio del post-Guerra Fredda, la Russia non aveva quindi cessato di subire le avanzate americane. Gli oligarchi, spesso estranei agli interessi nazionali russi, s’erano spartite le ricchezze petrolifere russe e i consiglieri liberali filo-americani attorniavano il presidente Eltsin. La Russia era impantanata nel conflitto ceceno, sobillato in gran parte dagli americani, come in effetti ogni ascesso islamista. Il mondo sembrò sprofondare lentamente ma sicuramente nell’ordine mondiale americano, nell’unipolarismo.

Nel 2000 un evento importante, forse il più grande dopo la fine della guerra fredda (ancora più importante dell’11 settembre 2001) è successo: l’ascesa al potere di Vladimir Putin… Uno di quei capovolgimenti della storia le cui conseguenze colpiscono le sue fondamenta, le sue costanti. Putin ha avuto un programma molto chiaro: recuperare la leva energetiche della Russia. Bisognava riprendere il controllo della ricchezza del sottosuolo dalle mani degli oligarchi, che non si preoccupavano degli interessi dell’Impero. Bisognava ricostruire dei potenti operatori del settore petrolifero (Rosneft) e del gas (Gazprom) lagati allo stato russo e alla sua visione strategica. Ma Putin non aveva ancora rivelato le sue intenzioni in merito alla situazione dello stallo USA-Cina. Lasciava planare il dubbio. Alcuni, tra cui io, poiché avevo analizzato all’epoca la convergenza russo-americana come transitoria e tempestiva (i discorsi degli USA sulla guerra contro il terrorismo, vietavano temporaneamente qualsiasi critica americana circa l’azione russa in Cecenia), avevano capito ben presto che Putin avrebbe ricostruito politica indipendente della Russia; mentre altri pensavano, al contrario, che sarebbe stato dalla parte degli occidentali. Egli doveva finirla con la Cecenia e riprendere il petrolio. Il lavoro era pesante. Un sintomo evidente, che ancora dimostrava che Putin avrebbe ripreso i fondamenti della grande politica russa: il cambio favorevole all’Iran e la ripresa delle vendite di armi a quel paese, così che il rilancio della cooperazione nel settore del nucleare civile.

Perché, allora l’ascesa di Putin è stato un evento così importante?

Senza apparire al momento eclatante, il suo arrivo ha significato che l’unipolarismo americano, senza il proseguimento dell’integrazione della Russia nella zona transatlantica, era ormai destinato al fallimento, e con esso, la grande strategia che mirava a spezzare la Cina e a prevenire l’emergere di un mondo multipolare.

Inoltre, molti europei non si accorsero subito che Putin recava la speranza di una risposta alle sfide della competizione economica globale basata su l’identità e la civiltà. Non c’è dubbio, che gli americani stessi hanno capito ciò meglio degli europei occidentali. George Bush non confessò, un giorno, di non fidarsi di lui, quando vide in Putin un uomo dedito profondamente all’interesse del suo paese?

L’11 settembre 2001, tuttavia, ha offerto l’opportunità per gli americani ad accelerare il loro programma dell’unipolarismo. In nome della lotta contro un male che loro stessi avevano fabbricato, avrebbero potuto ottenere la solidarietà costante degli europei (e quindi più atlantismo e meno “potenza europea”), un ciclico riavvicinamento con Mosca (per schiacciare i separatisti ceceni-islamici), un arretramento della Cina nell’Asia centrale, con l’accordo USA-Russia nelle repubbliche islamiche dell’ex Unione Sovietica, con un piede in Afghanistan, a ovest della Cina e, pertanto, a sud del Russia e un netto ritorno nell’Asia del sud-est. Ma l’euforia americana in Asia centrale è durata solo quattro anni.

La paura di una rivoluzione colorata in Uzbekistan spinse il potere uzbeko, una volta tentato di divenire la grande potenza dell’Asia centrale, come contrappeso al grande fratello russo, a cacciare gli americani e ad avvicinarsi a Mosca. Washington ha perso poi, a partire dal 2005, molte posizioni in Asia centrale, mentre in Afghanistan, nonostante le quote di contingenti ausiliari spillati agli Stati europei, incapaci di prendere il destino della loro civiltà in mano, continua a perdere terreno di fronte all’alleanza tra taliban e pakistani, sostenuti in silenzio, dietro le quinte, dai cinesi che vogliono vedere l’America cacciata dall’Asia Centrale.

I cinesi, ancora una volta, possono sperare di prendere parte del petrolio kazako e del gas turkmeno e di costruire, così, le strade che conducono verso il loro Turkistan (Xinjiang). Pechino volge le sue speranze energetiche verso la Russia, che in futuro pareggerà gli approvvigionamenti energetici per l’Europa verso l’Asia (non solo la Cina ma anche il Giappone, la Corea del Sud, India …).

Il gioco di Putin è ora scoperto. Poteva accordarsi con Washington nella lotta al terrorismo, che ha colpito duramente la Russia. Egli non aveva intenzione di abdicare alle legittime rivendicazioni della Russia, ha rifiutato l’assorbimento dell’Ucraina (perché l’Ucraina è una nazione sorella della Russia, l’apertura sull’Europa, l’accesso al Mediterraneo attraverso il Mar Nero grazie al porto di Sebastopoli, in Crimea) e della Georgia nella NATO. E se l’indipendenza del Kosovo è stata sostenuta dagli americani e dai paesi dell’Unione europea, in nome di cosa i russi non hanno il diritto di sostenere i popoli dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia, tanto più che i popoli interessati volevano la secessione dalla Georgia?

Mackinder aveva dunque ragione. Nel grande gioco eurasiatico, la Russia rimane il pezzo chiave. E’ la politica di Putin, molto più che la Cina (anche se resta il primo obiettivo di Washington, perché è una possibile potenza mondiale), che ha sbarrato la strada a Washington. È questa la politica che sostiene l’asse energetico Mosca(e Asia centrale)-Teheran-Caracas che pesa, da solo, la metà delle riserve accertate di petrolio e quasi la metà di quelle di gas (fonte di energia sempre più usata). Questo asse è il contrappeso al petrolio e al gas arabi conquistati dall’America. Washington voleva strangolare la Cina attraverso il controllo dell’energia. Ma se l’America è in Arabia Saudita e in Iraq (1° e 3° per riserve di petrolio accertate), non controlla né la Russia, né l’Iran, né il Venezuela o il Kazakistan, e questi paesi, piuttosto al contrario, si avvicinano. Insieme, essi sono decisi a spezzare la supremazia dei petrodollari, base della centralità del dollaro nel sistema economico mondiale (che permette all’America di fare sostenere agli europei un enorme deficit di bilancio e di alimentare le sue banche in rovina).

Non c’è dubbio che Washington cercherà di spezzare questa politica della Russia, continuando a fare pressione sulla sua periferia. Gli americani stanno cercando di sviluppare delle rotte terrestri per l’energia (oleodotti e gasdotti) alternative alla rete russa che si sta diffondendo in tutto il continente eurasiatico, alimentando l’Europa occidentale come l’Asia. Ma cosa può fare Washington contro il cuore strategico e energetico dell’Eurasia? La Russia è una potenza nucleare.

Gli Europei ragionevoli e non troppo accecati dai mezzi di disinformazione degli Stati Uniti, hanno bisogno di sapere che la Russia non ha bisogno di loro. Tutta l’Asia in crescita chiede petrolio e gas della Russia e dell’Iran. In queste condizioni e mentre il multipolarismo è in atto, gli europei farebbero bene a svegliarsi. La profonda crisi economica in cui sembrano dover sprofondare per molto, li condurrà a tale risveglio? È la conseguenza positiva in cui bisognerebbe sperare, delle sfide difficili che i popoli d’Europa subiranno nei decenni a venire.

Fonte: Theatrum Belli: blog multidisciplinare di Polemologia

http://www.theatrum-belli.com/ 11 Settembre 2009

Traduzione di Alessandro Lattanzio.

Alessandro Lattanzio, redattore di Eurasia, ha scritto Terrorismo sintetico, Potere Globale e L’atomo rossso
(vedi la sezione Biblioteca); anima, inoltre, i seguenti siti di informazione ed analisi:

http://www.aurora03.da.ru
http://www.bollettinoaurora.da.ru
http://sitoaurora.narod.ru
http://sitoaurora.altervista.org
http://eurasia.splinder.com

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Richard Heinberg: « La crescita mondiale ha raggiunto i suoi limiti »

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Un anno fa, il barile di petrolio raggiungeva il prezzo record di 147 dollari. Il mondo intero si rivolse allora all’Arabia Saudita — tradizionale produttore a cui appoggiarsi — per chiederle di aumentare la sua produzione al fine di rispondere alla domanda stabilizzando i prezzi. Ma il Regno non ne fu capace perché i suoi pozzi si stanno esaurendo. Questo avvenimento segna la fine di un periodo. In una drammatica concatenazione, la presa di coscienza che la crescita economica sarebbe ormai limitata dalla rarefazione dell’energia fossile, ha fatto crollare gli investimenti, la domanda di petrolio ed il suo prezzo.
In un’intervista esclusiva concessa al Réseau Voltaire, Richard Heinberg, autore noto per i suoi lavori sulla deplezione delle risorse, esamina questo storico avvenimento, le sue conseguenze per l’attività umana e le prospettive per il futuro.

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14 agosto 2009

Réseau Voltaire : Secondo la maggior parte dei media, l’origine della crisi finanziaria va cercata all’interno stesso del sistema finanziario. Questa spiegazione la soddisfa o, invece, come da lei suggerito in maniera premonitrice in Pétrole : La fête est finie ! [1], sarebbe un fattore essenziale anche la mancanza di fiducia nella ripresa della crescita fondata su una produzione di petrolio ?

Richard Heinberg : Nel 2008 si è prodotta la più importante impennata mai vista dei prezzi dell’energia. Storicamente, le fiammate del prezzo dell’energia hanno sempre condotto ad una recessione. Per questo, era ragionevole prevedere una grave recessione per il primo trimestre del 2008. infatti, la recessione è iniziata un po’ prima e si è rivelata più profonda e persistente di qualsiasi altra degli ultimi decenni. Ciò deriva dal fatto che un crac finanziario era divenuto più o meno invitabile a causa dell’esistenza di una moltitudine di bolle nell’immobiliare e nei mercati finanziari.

L’impatto della crisi sull’industria aeronautica e sui costruttori di automobili e di camion è largamente dovuta ai prezzi dell’energia. La caduta dei valori immobiliari e l’aumento del numero delle ipoteche non sono tanto legati al petrolio.

Tuttavia, ad un livello avanzato di analisi, l’aspirazione della nostra società ad una crescita economica perpetua è basata sull’ipotesi che avremo sempre a disposizione volumi crescenti d’energia a basso costo per alimentare i nostri mercati di produzione e di distribuzione. Tale aspirazione alla crescita si è istituzionalizzata attraverso livelli sempre crescenti di debito e di sopravvalutazione. È così che quando i volumi disponibili di energia hanno cominciato a stagnare o a declinare, il castello di carta del mondo finanziario è completamente crollato.

Sfortunatamente, la crisi resta ampiamente incompresa dai dirigenti del mondo intero. Questi ultimi pretendono che essa abbia un’origine unicamente finanziaria ; inoltre, pretendono che sia transitoria. Credono che, se noi sosteniamo a sufficienza le banche, la crescita economica ridiverrà positiva e tutto andrà bene. Di fatto, il nostro attuale sistema finanziario non può essere ricondotto a funzionare in un mondo in cui le risorse energetiche diminuiscono. Abbiamo bisogno di un’economia che possa andare incontro ai bisogni primari dell’umanità senza aumentare il nostro ritmo di consumo delle risorse. A questo fine sarà necessaria la creazione di sistemi monetari e di istituzioni finanziarie basati su altre cose che non siano il debito, gli interessi e e la cartolarizzazione.

Réseau Voltaire : Pensa che la speculazione sui mercati dell’energia accelererà malgrado l’episodio dell’anno scorso ? In questo caso, quale sarebbe secondo lei la miglior soluzione perché il serpente non si morda più la coda ?

Richard Heinberg : La speculazione dei contratti a termine dell’energia non è efficace nello sforzo collettivo per adattarsi ai ribassi caotici dei mercati in tempi di combustibili fossili a basso prezzo. Senza la messa in campo di controlli dei contratti a termine, non eviteremo divari ancora maggiori dei prezzi degli idrocarburi, cosa che abbiamo visto in questi ultimi diciotto mesi. Quando il prezzo degli idrocarburi prende il volo, l’economia viene gravemente colpita, l’abbiamo constatato una volta di più. Quando il prezzo crolla, gli investimenti nella produzione di energia sono trascurati.

L’OPEC si è sforzata di aiutare ad attenuare gli scarti di prezzo aumentando o diminuendo la produzione e di mantenere così il prezzo del barile più stabile di quello che sarebbe senza intervento. Ma l’OPEC sta già perdendo la sua limitata capacità di agire in tal modo, perché la maggior parte delle nazioni che essa raggruppa vedono diminuire la loro produzione e hanno poca o nessuna capacità di una produzione supplementare. L’Arabia Saudita è l’unico importante produttore di sostegno in questo senso ed uno Stato, da solo, non può veramente equilibrare a lungo i tassi di produzione del mondo intero.

L’unica soluzione praticabile è quella di un accordo internazionale per il razionamento della produzione e del consumo come ho proposto nel mio libro The Oil Depletion Protocol [2].

Réseau Voltaire : Che cosa pensa del numero crescente di scienziati che rimettono in discussione la responsabilità dell’Uomo nel cambiamento del clima ? All’interno dell’ASPO (Associazione per lo studio dei picchi di produzione di petrolio e di gas naturale) alcuni, come Jean Laherrère, sono molto scettici…

Richard Heinberg : Non sono sicuro che il numero di scienziati che rimettono in discussione la responsabilità umana nel cambiamento climatico sia in aumento ; secondo me, è piuttosto il contrario. Sì, so che Jean Laherrère, di cui ho un enorme rispetto, ha sollevato numerose questioni sull’argomento. In quanto geologo, egli articola la sua riflessione su milioni di anni e in effetti, su tale scala cronologica, il clima della Terra è molto variabile. Per questo posso capire che egli si chieda se ciò che noi constatiamo oggi sia dovuto o meno a processi climatici risultanti da modifiche delle radiazioni solari, dall’eccentricità dell’orbita terrestre ( i famosi parametri di Milankovich) e dalle correnti oceaniche. Tuttavia, i climatologi hanno spinto molto lontano le loro ricerche sui probabili effetti dei fattori diversi dal carbonio e hanno concluso che essi, da soli, ’non possono spiegare il riscaldamento che attualmente si produce.

Fondamentalmente, io mi schiero sul punto di vista della maggior parte dei climatologi, i quali concludono che noi umani esercitiamo una pressione su un sistema instabile per natura (l’atmosfera, il clima) e lo spingiamo al suo punto di rottura iniettandovi enormi quantità supplementari di gas ad effetto serra.

Réseau Voltaire : Che cosa le suggerisce questa ipotesi: il progetto internazionale di borsa del carbonio è solo un mezzo per l’elite finanziaria di mantenersi a galla e per i paesi ricchi finanziariamente e poveri di risorse naturali è quello di arrogarsi il diritto di consumare le riserve ancora disponibili di combustibili fossili in cambio di denaro, privando del loro diritto allo sviluppo gli Stati poveri finanziariamente ma ricchi di risorse naturali ? In altre parole, il fondo del problema non è « Andiamo a consumare le ultime riserve di idrocarburi ? » (è indubbiamente il caso, a meno di non riprendere più a crescere economicamente), ma « Chi le consumerà ? ».

Richard Heinberg : Per quanto riguarda i programmi internazionali di borsa del carbonio, sono cauto per parecchie ragioni, tra cui il fatto che essi innescheranno la creazione di un enorme mercato di contratti derivati che necessiterà di una ferma regolazione se vogliamo evitare le bolle e i crac finanziari di grandi dimensioni. Mettere un limite alle emissione di carbonio è necessario, ma forse ci sono metodi migliori per mettere in opera queste limitazioni invece di creare nuovi tipi di prodotti derivati. Ad esempio, potrebbe funzionare un sistema di razionamento che impegni la totalità dei cittadini, come le quote di emissioni di carbonio (TEQ, Tradeable Energy Quotas).

Una volta giunta la fine degli idrocarburi, essi saranno utilizzati solo da quelli che potranno comprarli. A volte questo avviene indirettamente: per produrre ed esportare le sue merci a basso prezzo, la Cina brucia carbone per conto dell’America del Nord e dell’Europa.

Ma, in ogni caso, lo sviluppo basato sul consumo di combustibili fossili non è più una via verso la ricchezza e la sicurezza, come lo era all’inizio del XX secolo. Oggi, è divenuto una trappola. Crea solo una dipendenza da risorse sempre più rare e costose. L’economia dei paesi poveri andrà in modo migliore se essi riusciranno a tenersi lontani da talee trappola.

Mi rendo conto che è più facile esprimersi per un semplice giornalista che per un capo di Stato il cui popolo si vede negare i vantaggi dell’era moderna. Eppure è una delle più dure realtà di questo ancor giovane secolo.

Réseau Voltaire : Quale dovrebbe essere la priorità in materia di presa di decisione ufficiale ? Prepararsi alla crisi dell’energia o al cambiamento climatico ?

Richard Heinberg : Sotto numerosi aspetti, le soluzioni ai due problemi sono identiche : ridurre la dipendenza dalle energie fossili e aumentare la produzione di energie alternative.

Malgrado tutto, certe proposte per risolvere la crisi climatica sono assurde per quanto riguarda i limiti di approvvigionamento di combustibili fossili. Prendiamo un esempio, quello del recupero e dello stoccaggio del carbonio emesso dalle centrali termiche che funzionano a carbone. È un progetto che necessiterebbe di un enorme investimento e di decenni di messa in opera ; nello stesso tempo, il prezzo del carbone salirà vertiginosamente; è un aspetto del problema di cui si è tenuto ben poco conto ’nelle previsioni dei costi di questo « carbone proprio ». A priori, meno di vent’anni ci separano dal picco di produzione mondiale del carbone, come ho detto nel mio ultimo libro Blackout [3]. Allora sarebbe più ragionevole investire con più moderazione per sviluppare la produzione di energie rinnovabile invece di mettere in piedi un’infrastruttura vasta e costosa destinata a mantenere un consumo ininterrotto di un combustibile in rarefazione, sempre più costoso e che emette grandi quantità di carbonio.

Réseau Voltaire : Lei prevede un aumento del numero di conflitti per le risorse energetiche ? Se sì, come lo spiega ?

Richard Heinberg : Dobbiamo aspettarcelo. Gli uomini si sono sempre battuti per le risorse essenziali. Oggi, mentre le risorse energetiche da idrocarburi che hanno alimentato la società moderna diventano rare e costose, è prevedibile che aumenti il numero dei conflitti per il controllo di queste risorse. Sapendo questo, quelli che decidono politicamente a livello nazionale devono prevedere i luoghi dove possono esplodere tali conflitti ; devono inoltre cercare di evitarli. Innanzitutto, il solo modo per arrivarci è ridurre la competizione per l’accesso a queste risorse diminuendo, là dove è possibile, la dipendenza (alcune risorse, come l’acqua, ci sono indispensabili) e concludendo degli accordi sulla limitazione della produzione e del consumo di energie fossili con l’ausilio di protocolli concertati di gestione della penuria.

Naturalmente, per questo ci vorrebbe un cambiamento radicale delle posizioni dei capi di Stato. Oggi, la loro riflessione ruota unicamente attorno alla questione di avere il vantaggio della competitività ; schématicamente, essi cercano ulteriormente di uscire vittoriosi dai conflitti energetici invece di evitarli. Questo modo di pensare è sempre più pericoloso man mano che cresce la popolazione mondiale e si riducono le risorse.

Réseau Voltaire : Secondo lei, qual è il ruolo dell’aumento dei prezzi delle energie fossili, dei fertilizzanti e dei pesticidi nell’attuale crisi alimentare ?

Richard Heinberg : A prima vista, certi aspetti della crisi alimentare non sembrano direttamente collegati alla dipendenza dalle energie fossili. Ad esempio, le penurie d’acqua si moltiplicano a causa dell’irrigazione; eppure, per la maggior parte del le volte, esse sono la conseguenza del cambiamento climatico, il quale è a sua volta dovuto alle emissioni di carbonio prodotte dai combustibili fossili. Poi, c’è l’erosione dei suoli, il più delle volte causata dai moderni metodi di produzione agricola intensiva che implicano l’utilizzo di trattori ed altri macchinari agricoli alimentati a gasolio. L’uniformità genetica delle sementi costituisce un altro fattore : le piante diventano più vulnerabili nei confronti dei parassiti ed allora hanno bisogno di più pesticidi contenenti idrocarburi. Se seguiamo le catene della causalità che si concludono con queste eterogenee minacce sul nostro sistema alimentare, quasi tutte tendono ad emergere da una stessa origine.

Generalmente, il nostro moderno sistema alimentare, basato sul consumo di energie fossili, soffre di una grave vulnerabilità a parecchi livelli e questa vulnerabilità trova prima di tutto la sua origine nella nostra dipendenza da tali energie. L’inevitabile riduzione del rifornimento di carburante per i trattori sarà nefasta per gli agricoltori ; in più, i composti chimici utilizzati in agricoltura diventeranno sempre meno abbordabili. Gli elevati costi del petrolio renderanno più oneroso lo scambio di prodotti alimentari a grandi distanze. Il cambiamento climatico e l’inaridimento diminuiranno le capacità di resa delle sementi.

Ci troviamo di fronte ad una crisi alimentare del tutto prevedibile, le cui cause sono evidenti. Le politiche da mettere in campo sono anch’esse evidenti : dobbiamo impegnarci nella riforma del nostro sistema alimentare nel suo complesso in modo da ridurre la nostra dipendenza dalle energie fossili.

Réseau Voltaire : Potrebbe presentarci in poche parole gli obiettivi del lavoro che lei ed I suoi colleghi conducete al Post Carbon Institute e qual è stato finora il suo impatto ?

Richard Heinberg : Attualmente, noi riuniamo una costellazione di ricercatori che condividono la stessa visione della crisi mondiale e che si dichiarano interessati a lavorare con i programmi di istruzione. Pensiamo di vivere in un momento storico che rende necessario ripensare in profondità i nostri postulati circa la crescita economica, il consumo di energia, il sistema alimentare, il cambiamento climatico e la demografia ; questioni che si intrecciano, ma che raramente sono affrontate in maniera sistematica da chi prende le decisioni politiche.

Nello stesso tempo, il Post Carbon Institute lavora in stretta collaborazione con le Iniziative di transizione (Transition Initiatives, transitiontowns.org) ; si tratta di una rete di comunità di cittadini che promuove l’economia del dopo-petrolio. Finché le necessarie riforme politiche non saranno pensate, adottate, sperimentate e promosse dagli individui e dalle comunità, i capi di Stato continueranno a tirarla per le lunghe.

Noi riteniamo che l’attuale crisi economica costituisca una svolta fondamentale nella nostra storia. L’economia mondiale ha incontestabilmente raggiunto i suoi limiti in termini di crescita. Ora, tutto dipende dalla nostra volontà di collaborare e di adattarci a questi limiti.

Noi condividiamo l’idea che, in definitiva, sia possibile una vita migliore senza energia fossile e senza una crescita continua in termini demografici e consumistici. Ma la transizione tra il paradigma attuale di una crescita basata sui combustibili fossili e quello di una società stabile basata sulle energie alternative ha tutte le possibilità di essere una parentesi difficile. In una maniera o nell’altra, l’umanità vi arriverà : la deplezione delle risorse lo garantisce. Ciò che desideriamo è semplicemente rendere questa transizione più facile, più equa e più vivibile per tutti coloro che ne sono interessati.

Traduzione eseguita da Belgicus dalla versione francese di Krieg per il Réseau Voltaire

Richard Heinberg ha scritto Pétrole, la fête est finie !. Questo libro di riferimento è raccomandato dal Réseau Voltaire e diffuso per corrispondenza dalla Libreria del Réseau.

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[1] Pétrole : La Fête est finie ! Avenir des sociétés industrielles après le pic pétrolier, Editions Demi-Lune, Collection Résistances, 2008, tradotto da Hervé Duval.

[2] Leggi il testo della proposta di protocollo. L’opera alla quale si riferisce R. Heinberg è disponibile solo in inglese : Richard Heinberg et Colin Campbell, The Oil Depletion Protocol, New Society Publishers, 2006.

[3] Disponibile in inglese : Richard Heinberg, Blackout : Coal, Climate and the Last Energy Crisis, New Society Publishers, 2009.

Voltaire, édition internationale

Sito personale di Richard Heinberg: http://www.richardheinberg.com/Home.html

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