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Channel: Impero romano – Pagina 348 – eurasia-rivista.org
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La sinistra che non c’é

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Le nuove tendenze sociali e economiche insorte dopo la svolta dei primi anni Novanta – privatizzazioni, lavoro precario, pensioni, effetti dell’euro – e la “finanziarizzazione” dell’economia (rapporto 10 a 1 col capitale produttivo alla svolta del secolo) con tutte le sue conseguenze sul mondo della produzione, lavoratori dipendenti compresi: sono questi i due momenti chiave su cui misurare la politica del centrosinistra, per cercare di capire cosa ancora nell’odierna opposizione sopravvive del suo essere “di sinistra”.

Iniziamo con la seconda questione, non solo perché probabilmente è la radice ultima della prima, ma anche per essere stata riportata alla luce dagli ultimi due interventi di Tremonti. Il primo è quello alla festa di Comunione e Liberazione di Rimini di fine agosto. Un discorso eccezionale e coraggioso, quello del ministro dell’economia, interprete di una diffusa tradizione della “destra sociale”: sia per quel riferimento alla compartecipazione dei lavoratori agli utili aziendali – che comunque simboleggia il nodo strategico della possibile alleanza fra ceti produttivi: per inciso, tema-slogan già caro, sia pure con altre configurazioni, al vecchio PCI di Togliatti – sia per il giudizio netto sulla differenza fra la politica di Roosevelt post-29 – un debito pubblico, ha detto Tremonti, per dar soldi e lavoro al popolo 1– e quella dei loro falsi imitatori odierni: un debito pubblico per sanare e ingrassare le banche, le principali responsabili della crisi planetaria odierna. Una verità, ha aggiunto il ministro, che ”non ve la raccontano i banchieri, quelli che frequentano il sinedrio” .

Solo belle parole? Non si direbbe: non solo perché altre parole di Tremonti, quelle al G8 de L’Aquila sul “colpo di manovella”, hanno avuto un seguito concreto, cioè a dire la violazione di una parte almeno dei “segreti bancari” dei paradisi fiscali Svizzera compresa, ma anche perché anche nelle sue ultime esternazioni al G20 del 6 settembre – dunque non in un incontro culturale, ma in una sede intergovernativa dotata di potenziale decisionalità politica – il ministro dell’economia del centrodestra è tornato ad attaccare le banche, accusate sia di fare poco per la fuoriuscita dalla crisi nonostante i grandi benefici di cui hanno goduto, sia di pretendere di comandare sui Governi e sulla Politica. Parole forti, tanto da suscitare critiche nel’area governativa, almeno a giudicare dagli articoli di Forte e Pomicino su il Giornale del 7 e 8 settembre: perché il centrosinistra le ignora, perché non rilancia la sfida invocandone il passaggio ai fatti e incalzando così il governo? Parlate dell’esempio Roosevelt? E allora perché non operate di conseguenza? Perché l’opposizione non incalza costruttivamente il governo su questo terreno cruciale per la giustizia sociale e il benessere dei cittadini a reddito fisso?

La risposta à per me abbastanza semplice: non solo perché in questi tempi di scontro frontale eterodiretto la leadership del centro sinistra non vuole dare spazio ad critiche costruttive, ma anche perché il capitale finanziario e tutto quel che ruota attorno ad esso è tradizionalmente al di fuori delle competenze intellettive e dei programmi della sinistra: resta una zona d’ombra, un tema “di destra”, un argomento tabù, tale o per convenienza “tattica” – in Italia ad esempio i legami col carro mediatico di De Benedetti, la tessera numero 1 del PD – o, e questo vale soprattutto per i “rivoluzionari”, per una radicata tradizione marxista che si pretende ortodossa e per la quale il capitale finanziario sarebbe (udite udite!) un capitale assolutamente marginale e subalterno rispetto a quello “vero”, che è quello industriale, perché solo nel “processo produttivo” l “astratto” e “inesistente” 2 capitale-gruzzolo si “invera” e diventa tale sfruttando il pluslavoro operaio. Come si legge ne Il Capitale: “il capitale esiste come capitale, nel movimento reale, non nel processo di circolazione ma soltanto nel processo di produzione, nel processo di sfruttamento della forza-lavoro”. Come dire, George Soros, i grandi finanzieri come lui e le grandi banche non sono veri capitalisti, nei quali individuare una contraddizione se non “principale” comunque forte con la classe dei salariati: la vera e unica controparte del “proletariato” – cioè a dire delle forze produttive che, entrando in conflitto con i rapporti di produzione, aprono la strada alla “rivoluzione” – sono i capitalisti industriali.

Il Marx astratto de Il Capitale

E’ così? Oso dire, facendo sponda difensiva su Franz Mehring per il quale “il Capitale non è una Bibbia contenente verità immutabili”, che da una parte questa tesi pecca di astrattezza, e dall’altra che in Marx si ritrovano altre sensibilità e altri approcci alla “sfera della circolazione”, fondate non su quel “metodo logico-deduttivo” che secondo Bohm-Bawerk lo avrebbe guidato nella stesura de Il Capitale – opera forse non a caso non conclusa da Marx ma da Fredrich Engels, e solo nel 1894 – ma su una lettura “empirica”, tipica di un approccio sociologico-giornalistico. Meno coerente dal punto filosofico-astratto ma più aderente alla realtà. Cioè più scientifica.

Cominciamo dal primo punto. La breve citazione di Marx prima riportata ha delle conseguenze paradossali per quel che riguarda la capacità di incidenza e la funzione storica effettive dei capitalisti mercantili, bancari e finanziari: infatti, poiché dogma vuole che il capitale “vero” sia solo quello produttivo, che cioè il plusvalore abbia una origine solo nella sfera della produzione, ecco che il commerciante – anche il grande commerciante – è una sorta di salariato del capitalista industriale, un suo “commesso” (sic 3) incaricato semplicemente di completare e riavviare il cerchio del ciclo produttivo con la vendita della merce e il suo pagamento al produttore 4.

Ed ecco che anche banchieri e finanzieri – “il capitale per il commercio di denaro” – assumono una funzione solo “tecnica”, completamente subalterna a quella del capitale industriale sia dal punto di vista economico sia da quello storico. Nella quarta sezione del III Libro de Il Capitale, Marx descrive il “capitale per il commercio di denaro” come mera “parte del capitale industriale” che da questo “si stacca” per eseguire “operazioni monetarie per tutta la classe dei capitalisti industriali”: il capitale finanziario è cioè solo “capitale industriale … che esce dal processo di produzione”: esso perciò “rappresenta un costo di circolazione, ma non crea valore” ed è manovrato da una “categoria speciale di agenti o di capitalisti” che agisce “per tutta la classe di capitalisti”. Nessuna autonomia vera, dunque, nell’imposizione dei tassi bancari e usurari, perché essi sono “incapaci” di profitto autodeterminato e solo partecipano in modo subalterno a quello estorto dai capitalisti industriali ai lavoratori. Il capitale finanziario non è un possibile concorrente e avversario di quello produttivo industriale come alcune volte appare nella realtà storica (vedi la dialettica forte oggi fra imprese e banche), ma una sua articolazione interna, tanto che i suoi protagonisti vengono ridotti ne Il Capitale se non proprio a commessi (come nel caso del capitale mercantile), comunque a suoi “agenti”. Il passaggio cruciale sta nel citato “costo di circolazione” (una banca in effetti ha i suoi costi) ma esso meriterebbe una definizione più precisa: quale “costo”? Quale interesse sul denaro? Chi lo determina? Perché se banchieri e finanzieri sono “agenti” del capitalista industriale questi è talvolta se non spesso in conflitto con essi, quando chiede prestiti per salvare o migliorare la sua azienda?

Il Marx giovane e sociologo-giornalista
de
Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850

Si dirà: ma forse l’epoca di Marx era diversa, la rivoluzione industriale avviata già alla fine del XVIII secolo aveva mutato radicalmente i rapporti fra il vecchio capitale mercantile e appunto quello, in crescita esponenziale, dell’industria. E’ proprio così? La marginalizzazione del capitale bancario e finanziario era assolutamente tale ed evidente nell’Ottocento, almeno fino alla morte dell’autore de il Capitale, nel 1883?

Eccoci dunque al secondo corno del problema: in verità, contro il Marx dogmatico de Il Capitale (fino all’incompiutezza dell’opera, “rattoppata” qui e là dal buon Engels) emerge dalla sua vastissima produzione un Marx diverso, giovane, lettore acuto e “immediato” (senza pretese cioè da filosofo della storia) della realtà che lo circondava. Come quello che descrive, una ventina di anni prima della stesura del primo libro della principale opera marxiana (1867), “Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1950”:

Dopo la rivoluzione di luglio il banchiere liberale Laffitte, accompagnando il suo compare, il duca di Orléans, in trionfo all’Hôtel de Ville, lasciava cadere queste parole: “D’ora innanzi regneranno i banchieri”. Laffitte aveva tradito il segreto della rivoluzione.

Sotto Luigi Filippo non era la borghesia francese che regnava, ma una frazione di essa: banchieri, re della Borsa, re delle ferrovie, proprietari di foreste, e una parte della proprietà fondiaria rappattumata con essi; insomma la cosiddetta aristocrazia della finanza. Era essa che sedeva sul trono, che dettava leggi nelle Camere, che dispensava i posti governativi, dal ministero fino allo spaccio di tabacchi. La borghesia veramente industrial formava una oparte dell’opposizione ufficiale …

.Mentre l’aristocrazia finanziaria dettava le leggi, guidava l’amministrazione dello Stato, disponeva di tutti i pubblici poteri organizzati, dominava la pubblica opinione coi fatti e con la stampa, andava ripetendosi in ogni sfera, dalla Corte al Café-Borgne, l’identica prostituzione, l’identica frode svergognata, l’identica libidine di arricchire non mediante la produzione, ma mediante la rapina dell’altrui ricchezza già creata …

La borghesia industriale vide in pericolo i propri interessi; la piccola borghesia trovavasi urtata nella sua morale, la fantasia popolare si rivoltava. Parigi era inondata di libelli – La Dynastie Rothschild … Les juifs, rois de l’èpoque – nei quali il dominio dell’aristocrazia finanziaria, veniva, con maggiore o minor spirito, denunciato e stigmatizzato5

Andiamo dritti alle questioni che suscita questo scritto di Marx, antologia di articoli per la Neue Rheinische Zeitung:

Prima questione, il paradigma marxiano è qui rovesciato rispetto a quello de Il Capitale: ne Il Capitale la contraddizione principale è fra classe operaia e capitalisti industriali, e anzi Marx, come più tardi Hilferding – diversamente da un altro classico della saggistica sull’Imperialismo, Hobson – teorizza in qualche pagina della sua principale opera, una funzione addirittura anticapitalista del capitale finanziario, potenziale artefice della “soppressione del modo di produzione capitalistico nell’ambito dello stesso modo di produzione capitalistico una contraddizione che si distrugge da se stessa, che prima facie si presenta come un semplice momento di transizione verso una nuova forma di produzione6. Dunque l’ “aristocrazia finanziaria” poteva diventare compagna di strada del progetto rivoluzionario, così come oggi il popperiano George Soros sarebbe il levatore mondiale della rivoluzione: invero non più rossa e proletaria, ma piuttosto globalcapitalista e arancione o verde. “Rivoluzioni” che non a caso attraggono molto i tragici residui “marxisti” del postbipolarismo in Italia e in Occidente.

Al contrario, nelle Lotte di classe … emerge un Marx giovane, che non gioca ancora in Borsa come più tardi a Londra: un intellettuale ribelle alla sua tribus di appartenenza (si ricordi la Questione ebraica del 1843), e che – sia pure nella fugace brevità di una cronaca della rivoluzione – vede un’alleanza di fatto fra classi produttrici, operai e industriali, contro la rapace e sanguisuga aristocrazia della finanza franco-cosmopolita con il suo regime autoritario e la sua stampa falsamente “libera” e ingannevole. Questa era la lettura della rivoluzione del 1848 di Marx. Un Marx che faceva del capitale finanziario il protagonista della Politica e della Storia della Francia di Filippo II, e che per questa sua lettura ricorda quel che avrebbe scritto nel 1902 John Atkinson Hobson in uno scritto – Imperialism: a Study – che, nonostante la matrice culturale diversa del suo autore, fa parte anch’esso della tradizione di pensiero marxista:

Questi grandi interessi finanziari … formano il nucleo centrale del capitalismo internazionale. Uniti dai più forti legami organizzativi, sempre nel più stretto contatto l’uno con l’altro e pronti a ogni rapida consultazione, situati nel cuore della capitale economica di ogni Stato, controllati, per quel che riguarda l’Europa, principalmente da uomini di una razza particolare, uomini che hanno dietro di se molti secoli di esperienza finanziaria … Ogni grande atto politico che implica un nuovo flusso di capitali, o una grande fluttuazione nei valori degli investimenti esistenti deve ricevere il benestare e l’aiuto concreto di questo piccolo gruppo di re della finanza … Creare nuovi debiti pubblici, lanciare nuove società, provocare costantemente notevoli fluttuazioni del valore dei titoli sono tre condizioni necessarie per svolgere la loro profittevole attività.

Ciascuna di queste condizioni li spinge verso la politica, e li getta dalla parte dell’imperialismo … Non c’è guerra, rivoluzione, assassinio anarchico, o qualsiasi altro fatto che impressiona l’opinione pubblica, che non sia utile per questi uomini; sono arpie che succhiano i loro guadagni da ogni nuova spesa forzosa e da ogni improvviso disturbo del credito pubblico7

Di queste riflessioni però, nell’area “marxista” postbipolare rimane pressoché nulla. I “marxisti” di oggi pensano solo ad aiutare Repubblica a rovesciare con un colpo di stato mediatico-giudiziario Berlusconi, una sorta di Tengentopoli bis in soccorso dei “compagni” banchieri e finanzieri. Non è fenomeno di oggi: quando fu fondata Liberazione caporedattore fu nominato Francesco Fargione il quale sul neo-quotidiano del PRC, un giorno sì e l’altro pure, sparava a zero contro Andreotti e inneggiava a Di Pietro, a sua volta lanciato da Repubblica come il salvatore della patria. Riflettere e far riflettere perciò su Tangentopoli – su Craxi in Tunisia e Andreotti sotto processo per motivi essenzialmente politici: Sigonella – era impossibile: ci sarebbero voluti dirigenti capaci di sganciarsi dal ricatto dei rubli dell’URSS al PCI, per cercare di fare delle pur solo accennate riflessioni di Libertini su Tangentopoli, appunto, la linea del Partito: un fatto, i rubli al principale partito comunista dell’Occidente, di una banalità e normalità sconvolgente, come i dollari della CIA alla DC ammessi da Cossiga.

Ma torniamo alla questione del capitale finanziario: nel 1996 scrissi un intervento su L’Ernesto uno dei cui paragrafi, dedicato appunto a questo problema (avevo un paio di anni prima partecipato a un convegno all’Università di Teramo, in occasione del centenario del III Libro: 1994, con una relazione su “Il III Libro alla verifica empirica della storia” 8) proponeva la questione oggi cruciale degli statarelli e dei paradisi fiscali: “Chi mai oserà violare le “indipendenze” delle Bahamas e del Liechtenstein, per difendere il potere d’acquisto dei redditi fissi di operai e impiegati?9. Ora la risposta ce l’ho: non certo i rifondaroli e la loro variegata diaspora post 1998 ma semmai – se la ricognizione dei “paradisi fiscali” dovesse diventare una costante, e se tutte le parole dette si trasformeranno in fatti – Tremonti e … il G8-G20, che hanno posto il problema di regole da imporre alla globalizzazione finanziaria, e del necessario primato dei Governi – cioè della Politica – sulle Banche e sul capitale finanziario transnazionale. Senza il quale i fondamenti della democrazia, cioè del governo del popolo, sono minacciati in tutto il mondo.

E’ vero, dietro tutto questo potrebbero esserci solo esigenze di imbellettamento dei “potenti” della Terra di fronte agli effetti della crisi economica mondiale. Ma potrebbe esserci anche dell’altro: ad esempio l’esperienza diffusa di una Politica che ha perso ogni autonomia a fronte del ricatto dei sempre più potenti mass media, i quali eccezioni a parte, e in particolare nella loro versione “progressista”, sono un articolazione fondamentale del potere del capitale finanziario; e ci potrebbe essere, in tempi recentissimi, la colossale truffa di Madoff ai danni del mondo intero correligionari compresi. Dove è finito il malloppo? Chi utilizzerà quella enorme montagna di denaro, e per quali scopi, per quali fini politici? James Petras ha ipotizzato una interpretazione iperbuonista per la megatruffa, uno retroscenario “antifalchi” israeliani, se non direttamente filo palestinese 10. Ipotesi contro ipotesi, in attesa di eventuali ma probabilmente impossibili risultati dell’inchiesta, possiamo avanzarne un’ altra: un evento di tale portata non potrebbe comunque allarmare tutto il ceto politico planetaria, tutti gli Stati sovrani, al potere dei quali già agli inizi degli anni Novanta veniva equiparato, dal sottosegretario americano Strobe Talbott, il finanziere George Soros 11? Un ceto

La risposta a questo interrogativo ci porta dritti alla seconda questione che suscita il testo marxistically uncorrect su Le lotte di classe in Francia.

Se si applicasse la “lente di Marx” (del 1848) alla fase postbipolare in Italia e nel mondo …

Seconda questione, dunque: il valore euristico del paradigma de Le lotte di classe in Francia per la comprensione della storia, la storia attuale. Lasciamo infatti perdere l’Ottocento nel corso del quale comunque, anche prima della svolta di fine secolo tratteggiata da Engels nella prefazione al III Libro de Il Capitale da lui “corretto” e pubblicato nel 1894, “pare” che il capitale finanziario e bancario abbia avuto un ruolo determinante in eventi e fenomeni cruciali dell’epoca: la sconfitta di Napoleone, la conquista dell’Algeria del 1830, la costruzione del Canale di Suez con la sua funzione geopolitica centrale per tutta l’ “età dell’imperialismo”; l’acquisto delle azioni del Canale, grazie a un prestito dei Rothchilds alla Corona inglese, mediatore Disraeli, al khedivé d’Egitto; il meccanismo dell’indebitamento finanziario come chiave principale di intervento del colonialismo europeo anche nel resto del Nordafrica; lo scramble for Africa; e per finire la conquista della Libia con l’intervento del Banco di Roma.

Lasciamo perdere tutto questo: proviamo invece ad applicare il Marx del 1848 a fatti, problemi, fenomeni degli ultimi vent’anni. La prima domanda è: chi determina oggi gli eventi cruciali del pianeta? Quale capitale pretende di fare e in buona parte fa la Storia all’alba del nuovo secolo? Quale capitale è protagonista delle terribili guerre che hanno assassinato la Jugoslavia e l‘Iraq? La risposta dei maghi zurlì dell’ economia “marxista” è che capitale finanziario, bancario e industriale sono fusi in un unicum inscindibile, alibi per disinteressarsi (e restare al servizio sia pure indiretto) del capitale finanziario e bancario: e se i fatti (il conflitto in Confindustria, lo scontro Berlusconi- De Benedetti 12, la dialettica banche piccola e media industria, il controllo finanziario di molti paesi ex socialisti) dimostrano il contrario, gli stessi fatti vengono trasformati con un colpo di bacchetta magica in “parole”, o in contraddizione secondaria del “blocco borghese”, o in semplice “vetrina”, come da battuta militante bernocchiano alla manifestazione contro il G8 aquilano: “er Gi-otto è ‘na vetrina, volemo vedé le case”.

Però i fatti restano i fatti. La constatazione è duplice: primo, è proprio il capitale-gruzzolo, il capitale che nasce e si sviluppa nel cielo della speculazione, che è cioè massa di denaro liquido enorme e libera proprio perché non costretta a essere impiegata nei macchinari e nel salari della “sfera della produzione”: è proprio questo capitale marginalizzato da Marx nel III Libro, ad avere la possibilità di determinare gli eventi cruciali della storia del mondo. Un esempio fra i tanti: Gore Vidal ha raccontato quel che gli aveva detto una volta Kennedy, e cioè che il suo predecessore Truman, si convinse a riconoscere il neonato Stato di Israele quando, “candidato alle elezioni presidenziali” e “praticamente abbandonato da tutti”, un “sionista americano” si era presentato da lui con una valigetta contenente due milioni di dollari in contanti. Non si può dire che quella valigetta – come quelle dispensate a re e principi in età moderna 13– non abbia determinato un’evento chiave per la storia non solo del popolo ebraico, ma dell’intera regione mediterranea e mediorientale 14. Quanti capitalisti industriali disponevano all’epoca, in modo totalmente libero da gravami produttivi, un capitale così ingente?

Secondo, è questo specifico capitale che oggi – in un’epoca storica in cui si è enormemente accresciuto – sta costruendo una rete di dominio mondiale dagli effetti preoccupanti: esso può fomentare e finanziare guerre e destabilizzazioni degli Stati sovrani sotto forma di sostegno alle rivoluzioni verdi e arancioni (Soros), o alle guerriglie di manovalanza islamica ma di progetto altro in Kosovo (Soros), Cecenia (Berezowsky), Bosnia (ancora Soros). E’ capace di finanziare persino la “giustizia internazionale”, come nel caso del Tribunale per il Ruanda la cui Procura (l’accusa cioè) gode di contributi sostanziosi della Fondazione Rockfeller e (di nuovo) di George Soros. Può anche lanciarsi in imprese rischiose e spesso in perdita dal punto di vista puramente economico, ma che hanno un ritorno utile in termini di dominio ideologico e geopolitico: vedi le grandi catene multimediali che all’occorrenza possono scatenare campagne contro la Russia di Putin, l’Iran di Ahmedimnejad, la Libia di Gheddafi e persino – nonostante la radicale, plateale, differenza del quarto esempio – contro l’Italia di Berlusconi. Giornali e reti televisive che inventano genocidi in Jugoslavia, Iraq e Sudan e “crimini contro l’umanità” a Lampedusa. Mass media che diffondono il “pensiero unico” sulle guerre che insanguinano il pianeta, con i movimenti di liberazione nazionali territorializzati e nati per contrastare una occupazione straniera, ridotti a “terrorismo”; e con il terrorismo transnazionale del finanziere Bin Laden equiparato alle guerriglie irachena, libanese, palestinese. Produzioni cinematografiche con film-patacca ma di effetto sicuro, assai più di cento libri dotti e mille editoriali: come quelli anticristiani con le Madonne escort, o col Codice da Vinci che fa della chiesa e non della classica sinagoga il luogo principe del “complotto”; quelli antislamici e antiarabi tipo Indiana Jones, quelli anti italiani, con i nostri connazionali tutti mafiosi scemi e delinquenti. O quel prodotto mirato contro l’Argentina – un paese annientato anni fa da una crisi finanziaria “manovrata” – che è Evita: dove la donna ammirata e amata dai descamisados di Baires è stata ridotta dal diffamatore di turno a una prostituta, tanto per affossare nella vergogna un grande leader nazionalista e populista come Peron.

C’è poi, forse, il fenomeno emergente del’interesse per il calcio: potrà il finanziere cattolico romano Perez, che ha acquistato per il Real Madrid i supergrandi del calcio mondiale pagandoli con cifre iperboliche, mentre molte altre società vivono gli effetti della crisi economica mondiale, utilizzare la squadra spagnola per eccellenza a fini non solo di incassi ma anche “politici”? Un passato politico lo ha, e le centinaia di milioni di euro che utilizza sembrano non essere di provenienza solo personale. Dunque quale progetto?

E passando ad altra squadra, quale significato attribuire agli assalti periodici di Soros alla Roma? E’ solo uno “sfizio” personale dello straricco magnate, di guidare una ottima squadra di calcio, o anche il desiderio di acquistare quella squadra, nel cuore della Roma cristiana? L’interrogativo probabilmente è eccessivo: è certo comunque che il filantropo Soros fa sempre investimenti “politico-ideologici”, così come è certo che oggi il calcio è diventato, nel bene e nel male, il vettore ideologico di alcune grandi e cruciali tematiche dei nostri tempi: razzismo e antirazzismo ad esempio, con i loro impropri e continui scivolamenti in campi altri, in cui l’antirazzismo è alibi per parlare di tutt’altro e per diffamare religioni, ideologie e politiche diverse dalla propria.

Le attività “ludiche” “culturali” non sono secondarie rispetto al discorso sull’imperialismo e sulla capacità di “determinare” la storia: per spianare la strada alle guerre neocoloniali – come nell’Ottocento col jingoismo – occorrono “opinioni pubbliche” ben educate: è stata la campagna della grande stampa americana (la stessa che oggi “complotta” contro Ahmedinejad e Berlusconi) contro la debolezza dell’ “imbelle” Bush jr, a trascinare quest’ultimo – inizialmente, dopo l’11 settembre, molto titubante – nelle guerre in Afghanistan e in Iraq con la scusa di combattere “Bin Laden”. Già Hobson ricordava il ruolo determinante della stampa nel provocare le guerre della sua epoca, la classica età dell’imperialismo secondo titolo di un libro di Fieldhouse. Ma agli inizi del ‘900 i quotidiani erano fogli per piccole élités: oggi ci sono tutte le tecnologie della multimedialità, grande strumento di liberazione e comunicazione ma anche di propaganda e di omologazione al “pensiero unico” sull’Islam e sulla “democrazia”.

Le riforme economiche e sociali del centrosinistra
post-tangentopoli: ma che sinistra è?

La “sinistra finanziaria”, a costo del suo snaturamento 15, non “vede” o non vuole vedere questa dimensione del conflitto economico in Italia e nel mondo, l’importanza cioè del problema banche e finanza negli equilibri sociali e di reddito anche per i lavoratori salariati e stipendiati: i moderati perché subalterni nei fatti alla catena mediatica di Repubblica. Fu il centrosinistra a privatizzare definitivamente il 17 maggio 1999 la Banca d’Italia, il cui capitale è – udite udite! – all’84 per cento in mano a privati.

Quanto ai “marxisti” essi non ne parlano in parte per lo stesso motivo, in parte anche per presunta ortodossia (vedi quanto detto in precedenza), e per paura di confondersi con la destra. Non è la destra, o una parte della destra, che protesta – dalle posizioni moderate a quelle radicali del mio ex collega a Teramo Giacinto Auriti – contro l’assurdità di una moneta nazionale che viene emessa da una Banca “nazionale” in mano ai privati e che costituirebbe di per sé un “signoraggio”, vale a dire un prelievo abusivo di ricchezza dai cittadini attraverso l’emissione di cartamoneta?

Tanto non vedono i marxisti la sfera autonoma della finanza nella dialettica intracapitalistica, che quando parlano dell’alleanza Putin-Berlusconi o diventano emuli di Bernard Henry Levy – uno del solito giro che odia oltre a Berlusconi anche Putin, Ahmedinejad, Hamas, Hezbollah: fra un po’ anche Obama … – oppure la spiegano in modo ridicolo, l’alleanza, in termini di pacche sulle spalle fra due amiconi che si stanno simpatici. Veramente disastrosi questi presunti “materialisti dialettici”: prima cancellano con la bacchetta magica della loro superficialità la realtà del conflitto in Russia fra Putin e la famiglia finanziaria di Eltsin – quella che infiammava i cuori dei Bernard Henry Levi di tutto il mondo e che si è infranta contro la dignitosa e legittima reazione di Putin (tutti arrestati o esuli, i ricchi finanzieri, e i loro imperi rubati al popolo ricondotti sotto il sostanziale controllo dello Stato) – poi nascondono anche quella del vero conflitto in Italia fra Berlusconi e i suoi nemici falsi progressisti; poi ancora evitano di analizzare la convergenza geopolitica (vedi il viaggio improvviso di Berlusconi ad Ankara, a parlare dell’oleodotto South Stream) dei due leaders: infine concludono con la pietosa barzelletta della pacche sulle spalle. A quale miseria si è ridotto certo marxleninismo del Terzo millennio! 16

Ma di questo si à già abbondantemente detto. Resta la seconda considerazione iniziale per cercare di capire dove sta la destra e la sinistra oggi in Italia, e cioè le riforme economiche e sociali dagli anni Novanta ad oggi. Ci vorrebbe ancora molto spazio per una analisi completa: ma si può dire telegraficamente, credo, che non c’è stata controriforma a danno del mondo del lavoro, dell’occupazione e della lotta al precariato, della sicurezza nei luoghi di lavoro, delle privatizzazioni che non porti l’imprimatur del centrosinistra post-bipolare e post-comunista. Lo jus primae noctis della mattanza della classe operaia italiana e del mondo del lavoro dipendente è stato esercitato, di tappa in tappa, dai vari don Rodrigo del centrosinistra. Il centrodestra è venuto dopo, o solo per razionalizzare svarioni e dimenticanze dell’avversario (vedi la trasformazione dell’ANAS in Spa, o la legge Biagi del 2003), o per capitalizzarne i “vantaggi”, oppure, invece, per fare una politica paradossalmente più avanzata di quella dell’odierna opposizione: come da articolo di Tremonti citato poco fa in nota.

Fa in effetti sorridere vedere Franceschini in mezzo ai precari della scuola, quando si pensa che nel 1993 era stato il governo Amato a privatizzare l’impiego pubblico e nel 1997 il governo Prodi e il suo ministro Treu a codificare il “lavoro interinale”. Rende perplessi l’ “indignazione” “eroica” di certi tromboni a senso unico della cultura “progressista” contro Berlusconi, quando si pensa che non hanno fatto nulla quando nel 1997-1998 il governo Prodi prima e quello D’Alema poi privatizzarono a raffica non solo la Biennale di Venezia e il Centro Sperimentale di Cinematografia, ma decine e decine di istituti storici, culturali, linguistici. Solo Berlusconi è l’ostacolo per la cultura chic dell’Italia “progressista”? Nel 1997 è mancato loro il là di un appello redatto dal loro giornale-partito? Non sanno pensare da soli?

La cronologia secca delle leggi, decreti legge e decreti legislativi mostra con ogni evidenza che è stata la sinistra finanziaria a distruggere in pochi anni il patrimonio costruito in decenni di lotte parlamentari e di piazza della sinistra, nel quale peraltro (vedi il caso dell’Agip e della Banca d’Italia) erano stati opportunamente conservate alcune misure e istituti di epoca fascista: 2 giugno 1992, è nato da poco il governo Amato, incontro sul panfilo reale Britannia fra finanzieri, banchieri e managers italiani inglesi e di altri paesi europei, per delineare la strategia delle privatizzazioni delle economie europee; 18 luglio (ancora governo Amato) un DPR codifica definitivamente l’autonomia del Governatore della Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro, che non può intervenire per co-definire il tasso di sconto; 31 luglio, il golpe notturno delle privatizzazioni degli Enti pubblici, dopo la campagna della Repubblica contro i “boiardi”, dove assieme all’acqua sporca degli enti parassitari si svendono anche gioielli dell’industria: ENEL e ENI, IRI. 8 agosto, è la volta delle Ferrovie, anch’esse trasformate in società per azioni.

Febbraio 1993, tocca ai Monopoli di Stato. Sempre nel 1993, il nuovo governo Ciampi dispone la separazione di Agip e Snam dall’ENI spa e la dismissione delle partecipazioni del Tesoro dall’Agip, Ina, Enel, e dalle banche IMI, Commerciale e Credito italiano. 1997, le già ricordate privatizzazioni di enti culturali da parte di Prodi, e il pacchetto Treu sul lavoro interinale con la legge 196 del 24 giugno.

1999, prima l’accordo sull’euro ad un tasso di cambio che si rivelerà disastroso per i redditi fissi, a causa del dimezzamento di fatto di stipendi e salari. Poi un secondo provvedimento cruciale: poi, il 17 maggio il governo D’Alema permette anche alle fondazioni bancarie di diventare azioniste della Banca d’Italia, che si trasforma così completamente in un ente di fatto privatistico, i cui azionisti saranno occultati all’opinione pubblica fino a che una inchiesta di Famiglia cristiana del 2004, non svela gli altarini: più dell’84 per cento del capitale della Banca “di stato” è in mano a privati! La filosofia che sta dietro questo smantellamento della peraltro moderata strutturazione del sistema bancario italiano, oggetto di campagne durissime da parte della stampa della sinistra finanziaria – vedi l’assalto del Corriere di Mieli al cattolico Fazio nel 2005, mentre stava per andare in porto una legge destinata a riportare in mano pubblica il capitale della BdI – è la solita solfa dell’ “autonomia”. E’ lo stesso leitmotiv utilizzato per la riforma Berlinguer dell’Università (altra perla del centrosinistra, a cui Moratti e Gelmini hanno portato qualche miglioramento in positivo): anche l’ “autonomia” degli Atenei è solo presunta, ed è un modo per “liberare” l’autorità e il bilancio centrale dello Stato dal costituzionale obbligo del finanziamento dell’Istruzione pubblica, abbandonando le Università o al degrado e al declino, o alla sottomissione al capitale privato e a gruppi di potere più o meno massonici. Il tutto mentre la vera autonomia degli Atenei – intesa come autonomia del corpo docente e dei propri organi di rappresentanza collegiale – rischia di venire cancellata progressivamente.

Dimentico probabilmente qualche capitolo, ma credo che questi siano già sufficienti. Rispetto alla deriva liberista e antioperaia di tutti i governi del centrosinistra dagli anni Novanta ad oggi, Berlusconi e il centrodestra o hanno ereditato i “frutti” per loro più comoda gestione magari evitando di prendere necessari provvedimenti (come il blocco-controllo dei prezzi dopo il disastroso cambio dell’euro ad opera di Prodi) oppure hanno cercato di porre qualche piccolo o meno piccolo rimedio a vantaggio del mondo del lavoro e dei cittadini. Si sarebbe potuto, e si potrebbe distinguere di volta in volta fra problema o problema, opponendosi o sostenendo questa o quella proposta: ma asservita alla potente catena mediatica “progressista”, la “sinistra finanziaria” è incapace di tutto questo. Cerca solo lo scontro frontale, nato sul nulla, cioè sulla vicenda delle escort, in un momento in cui il governo stava mostrando le sue effettive capacità di risolvere alcuni problemi chiave del paese, dall’immondizia a Napoli al terremoto d’Abruzzo.

Anche le frange più radicali della sinistra finanziaria hanno imboccato questa strada: anzi soprattutto le frange più radicali, che sublimano nel mito assurdo di un nuovo luglio 60 la riscossa mancata di chissà quale “proletariato”.

Tranquilli, compagni: posto che fosse prossimo qualcosa che possa assomigliare al luglio 60 (cosa assai improbabile) esso non avrebbe alle spalle il PCI di Togliatti e il PSI di Nenni, né avrebbe come sbocco le nazionalizzazioni del centrosinistra DC-PSI di mezzo secolo fa. Alle spalle della vostra “rivoluzione” ci sarebbe il capitalista De Benedetti: con le sue profezie recenti sulle “spese proletarie” nei supermarket, con i suoi passati licenziamenti all’Olivetti, 2-3000 operai in un sol colpo, e con la vicenda SME emblema della svendita del patrimonio pubblico al capitale privato. Alle spalle questo, e in prospettiva nessuna, nessunissima rivoluzione ma l’esatto opposto: il secondo colpo di stato nella storia della Repubblica dopo quello di Tangentopoli, e dopo quelli falliti, dello stesso sostanziale segno quanto a politica sociale e economica, degli anni Sessanta e Settanta. La prima Tangentopoli è stata esaltata dalla sinistra estrema (tranne piccole, marginali, inutili eccezioni) poi è arrivata la riflessione e il quasi pentimento vista la macchina delle privatizzazioni e del maggioritario messe in moto dalla “rivoluzione” dipietrista. Adesso si ricomincia, tutti appresso alle dieci domande. Perché non fermarsi un attimo, riflettere, cambiare rotta?

Claudio Moffa

www.claudiomoffa.it

1 Crisi: Tremonti, diverso se debito cresce per salvare gente o banche (ASCA) – Rimini, 28 agosto 2009

2 Articolo de il manifesto

3 Per Marx il “capitale commerciale” ha la funzione di “semplice commesso del produttore” (Libro III, I, p. 329)

4 “… nel processo di circolazione non viene creato alcun valore, quindi alcun plusvalore … Se in conseguenza della vendita della merce prodotta viene realizzato un plusvalore, ciò avviene perché tale plusvalore si trovava già fin da prima in essa contenuto” (Ivi, p. 339).

5 Su internet si trova il testo completo de Le lotte di classe… sul sito http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1850/lottecf

6 Carlo Marx, Il Capitale, III, 2, 27, p. 125, Editori Riuniti, Roma.

7 J. A. Hobson, L’imperialismo, Newton Compton, Roma.

8 Leggi il testo della relazione nel link sul sito

9 Claudio Moffa, Quale identità comunista?, L’Ernesto, pp. 15-16 (vedi il link sul sito), IV, n. 8, ottobre 1996.

10 James Petras

11 La Casa Bianca su Soros: “conta come uno Stato”, il Corriere della Sera 19 gennaio 1995: “Lavorare con Soros è come lavorare con un’entità amica, alleata indipendente, se non con uno Stato – dice Strobe Talbotto, sottosegretario di Stato americano, il numero due della politica estera di Clinton – Noi cerchiamo di sincronizzare il nostro approccio ai Paesi ex comunisti con la Germania, la Francia, la Gran Bretagna. E con George Soros

12 Uno scontro del quale un trafiletto di una quindicina d’anni fa su La Stampa, p. 2, da un significato simbolico per due concezioni (radicalmente?) diverse del capitalismo e del connesso “rischio imprenditoriali”. Nella battuta Berlusconi criticava il far profitti passando i soldi “da una cassaforte a un’altra”.

13 Non solo Werner Sombart ma anche Fernand Braudel ha ricordato il ruolo cruciale delle comunità mercantili e bancarie in epoca preindustriale

14 Israel Shaak, Storia Ebraica e Giudaismo: il peso di tre millenni, Prefazione di Gore Vidal, Sodalitium, Torino (prefazione)

15 Giulio Tremonti, L’ imposta progressiva? un mito ” reazionario”. Ora i tributi ” indiretti ” sono diventati di sinistra e i ” diretti ” di destra. necessario il passaggio dalle tasse sulle persone a quelle sulle cose, Corriere della Sera, 26 aprile 1994

16 Dopo aver scritto queste righe polemiche sul “marxleninismo” attiale, leggo un articolo di Leonardo Mazzei del Campo antimperialista sulla competizione economica e geopolitica fra gli oleodotti South Stream e Nabucco, che si conclude con il riconoscimento della serietà della contraddizione e delle scelte (obbligate?) del governo Berlusconi ad Ankara, e dunque con la sconfessione di quella che lui stesso definisce interpretazione gossipara della vicenda: vale a dire, udite udite, uno scambio fra “bionde” russe e South Stream, con Putin che incassa l’opzione pro-Gazprom e il Berlusca che fa il pieno di escort per le sue ville. E’ veramente pazzesco! Lo spazio che Mazzei dedica a questa ipotesi “interpretativa” potrebbe indicare un mio eccessivo pessimismo sullo stato di salute della sinistra marxisteggiante in Italia, e invece ne è la conferma: un’area fino in fondo succube del giornale-serva del progressismo italiano. Perché, se Mazzei deve dedicare tanto spazio a questa ridicola bufala (come se, peraltro, nei paesi attraversati dal Nabucco non ci fossero escort da esportazione altrettanto attraenti delle “bionde russe”) per convincere il suo pubblico, vuol dire proprio che questo è completamente rimbambito, diseducato al raziocinio e alla serietà politica da quindici anni di qualunquismo antiberlusconiano. (L. Mazzei, I tubi di Putin, letto su Arianna editrice – fonte Campo antiimperialista).

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11 Settembre: gli statunitensi prigionieri delle loro menzogne

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Fatti diversi o evento storico?

Il 7 Ottobre 2001, gli ambasciatori degli Stati Uniti e del Regno Unito informarono, con una lettera, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che le loro truppe erano entrate in Afghanistan in virtù del diritto all’auto-difesa, dopo gli attacchi che avevano rabbuiato l’America, un mese prima. L’ambasciatore John Negroponte ha detto nella sua lettera: “Il mio governo ha ottenuto informazioni chiare e convincenti che al-Qaeda, che è supportata dai talebani in Afghanistan, ha giocato un ruolo centrale negli attacchi.”

Il 29 giugno 2002, il presidente Bush ha rivelato nel suo “Discorso annuale sullo di Stato dell’Unione”, che l’Iraq, l’Iran e la Corea del Nord appoggiavano segretamente i terroristi, perché esse avevano firmato un patto segreto per distruggere gli Stati Uniti: l’”Asse del Male“. Certo, questi tre “stati canaglia” erano cauti, in quanto Washington aveva schiacciato i talebani, ma non avevano abbandonato le loro intenzioni.

Le accuse divennero più precise l’11 Febbraio 2003. Quel giorno, il segretario di Stato degli USA, Colin Powell, presentava le prove, in prima persona al Consiglio di sicurezza, che l’Iraq era responsabile degli attacchi. Poi, brandendo un flacone che avrebbe contenuto polvere di antrace concentrata tale da poter devastare un intero continente, mostrava una foto satellitare della base di al-Qaida installata nel nord dell’Iraq, compreso un impianto per la produzione di veleni. Poi, con il supporto di uno schema, descrisse l’organigramma dei terroristi a Baghdad, sotto il comando di Abu al-Zarqawi. Sulla base di queste informazioni “chiare ed indiscutibili“, le truppe degli Stati Uniti e del Regno Unito, assistite da quelle di Canada, Australia e Nuova Zelanda, entrarono in Iraq, ancora sotto il pretesto del loro diritto all’auto-difesa, dopo gli attacchi dell’11 settembre.

L’argomento dell’11 settembre fu così comodo, che il 15 Ottobre 2003, mentre una pioggia di bombe cadeva su Baghdad, il Congresso degli Stati Uniti incriminava a sua volta la Siria, per il suo sostegno al “terrorismo internazionale” e dava al Presidente Bush il diritto di dichiararle guerra, quando lo ritenesse necessario. Tuttavia, la Siria doveva essere l’”anticipo” in vista del festino in cui l’Iran era il piatto principale. Nel luglio 2004, la Commissione presidenziale sugli attentati fece la sua relazione finale. All’ultimo momento, aggiunse due pagine di rivelazioni sui legami tra l’Iran e Al-Qaida. Il regime sciita avrebbe avuto a lungo collegamenti con i terroristi sunniti, facendoli circolare liberamente sul suo territorio e finanziando le infrastrutture nel Sudan. Su queste basi, una nuova guerra sembrava inevitabile. Questo scenario terrà per due anni col fiato sospeso la stampa internazionale.

Solo ora, otto anni dopo gli attentati dell’11 settembre, la prova “chiara e indiscutibile” della colpevolezza di al-Qaida degli Stati Uniti, non sono ancora state presentate al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che ha anche dimenticato di chiedergliele. Peggio, nessuno crede che al-Qaida sia un’organizzazione strutturata, ma ora se ne parla come un vaga e immateriale “movimento“, che il più grande esercito del mondo non ha ancora trovato Osama bin Ladin e la CIA ha sciolto la cellula responsabile del suo inseguimento, il patto segreto tra Iraq, Iran e Corea del Nord sembra essere una fiaba e nessuno osa parlare dell’Asse del Male; l’ex segretario di Stato americano Colin Powell ha ammesso pubblicamente che le informazioni presentate al Consiglio di sicurezza erano delle sciocchezze e, infine, i funzionari degli Stati Uniti continuano a ricercare un mutuo aiuto da Siria e Iran per la gestione del pantano iracheno. Eppure è il “diplomaticamente corretto” esige che tutti continuino a far finta che le cose siano chiare, come se l’illuminato con la barba, rintanato in una grotta in Afghanistan, abbia colpito al cuore il più grande impero della storia e sfugga dalla sua vendetta.

Tutti? Non del tutto. In primo luogo i leader degli Stati interessati, Afghanistan, Iraq, Siria, Iran e Corea del Nord non si sono accontentati di negare ogni responsabilità per gli attentati, ma hanno esplicitamente accusato il complesso militare-industriale degli Stati Uniti di aver esso stesso organizzato e deliberatamente ucciso 3000 dei suoi cittadini. In secondo luogo, i leader degli stati oppositori a Washington, come Venezuela e Cuba, si sono anche presi la briga di mettere in ridicolo la versione di Bush di questi eventi. Infine, i leader degli Stati che desiderano mantenere buoni rapporti con Washington, ma senza ingoiarne stoicamente tutte le sue bugie, hanno affermato che gli attacchi in Afghanistan e in Iraq non hanno alcun fondamento giuridico, pur astenendosi dal commentare gli attacchi stessi. Ciò vale per diversi paesi come Emirati Arabi Uniti, Malesia, Russia, e ora il Giappone. Vediamo l’elenco degli Stati scettici non ha nulla a che fare con un sentimento pro o anti-USA, ma con l’idea che ognuno si fa delle sua sovranità e dei mezzi a sua disposizione per affermarla.

Che cosa è successo poi, l’11 settembre? I giornalisti non sono soggetti alla stessa riservatezza dei diplomatici, come andremo a vedere.

Grande budget hollywoodiano, ma sceneggiatura sciatta

Secondo la versione ufficiale, il malvagio islamico Osama Bin Ladin, che accusa gli “infedeli” americani di avere profanato il sacro suolo dell’Arabia Saudita con l’installazione di basi militari, ha organizzato un’operazione terroristica gigantesca, con mezzi materiali insignificanti, ma ricorrendo a un commando di 19 fanatici.

Vive in una grotta degna di un film di James Bond. Infiltra i suoi kamikaze negli Stati Uniti, come nel film di Chuck Norris dall’intrigante titolo premonitore “Ground Zero“.

Quattro di loro si formarono in un club di volo. Trascuravano il decollo e l’atterraggio per concentrarsi esclusivamente sulla guida degli aerei in volo. In quel giorno, divisi in quattro squadre, i fanatici dirottano gli aerei di linea minacciando di sgozzare le hostess con dei taglierini.

Alle 8:29, l’American Airlines ricevette una chiamata radio che si pretende provenisse dall’equipaggio del Volo 11 (Boston-Los Angeles) per informare del dirottamento. La procedura ufficiale prevede la notifica immediata da parte dell’aviazione civile alla Difesa aerea, e il decollo dei caccia-intercettori entro un massimo di 8 minuti. Ma quando 17 minuti dopo, si ebbe il primo impatto al WTC, i caccia non erano ancora decollati.

Alle 8:47 il transponder del volo United Airlines 175 (anch’esso Boston-Los Angeles) fu spento. Il suo numero d’identificazione scomparve dagli schermi radar civili, quando non è osservabile che come un punto. Ciò diede l’allarme, senza che in questa fase l’ente del trasporto aereo civile potesse sapere se si trattasse di un guasto o di un dirottamento. Perciò, quando ha luogo il secondo impatto, alle 9:03, nessun caccia è stato inviato per stabilire il contatto visivo.

Alle 8:46, un Boeing 757 si schiantò sulla torre nord del World Trade Center. Il velivolo colpì il centro millimetrico della facciata. Dal momento che era largo 63 metri e la sua velocità massima era di 700 km/h, la precisa manovra si svolse in 3 decimi di secondo, una prodezza di cui pochissimi piloti da caccia sono capaci, ma che sarebbe stata eseguita da un pilota dilettante. La stessa impresa fu eseguita una seconda volta alle 9:03, con un altro Boeing 757, sulla torre sud, per di più in direzione opposta al vento, questa volta.

Nel momento esatto in cui si ebbe il secondo impatto, un missile attraversò il campo visivo della telecamera del canale ‘New York One’. Fu sparato da un aereo oscurato dal fumo dell’impatto e corre diagonalmente verso il suolo. Non abbiamo mai sentito parlare di queste immagini incongrue.

I primi testimoni dicono che i due velivoli che hanno colpito le torri sono aerei cargo senza finestrelle, ma gli aerei sono stati successivamente indicati come i voli di linea 11 e 175. C’è solo un video del primo impatto, ma sei del secondo impatto. Nessun ingrandimento consente di osservare gli oblò.

Al contrario, gli ingrandimenti permettono d’osservare un oggetto scuro appeso ad ogni carlinga. La visione del fotogramma video mostra due lampi di luce dal punto di impatto, poco prima che l’apparecchio si schianti sul grattacielo. Gli aerei non si schiantano sulle facciate, ma si precipitano all’interno degli edifici e scompaiono del tutto, le facciate ed i pilastri interni non esercitano alcuna resistenza.

Alle 8:54, il volo American Airlines 77 (Washington DC – Los Angeles) cambia il suo percorso senza autorizzazione, mentre il suo transponder smette di trasmettere. I radar civili perdono le sue tracce.

Alle 9.25, a conoscenza dell’evento importante, il centro di comando a Herndon, vietava a qualsiasi nuovo volo di linea sul territorio degli Stati Uniti e ordinava a tutti gli aeromobili civili in volo di atterrare. I voli transatlantici vennero dirottati in Canada. Da parte sua, l’autorità portuale di New York chiuse tutti i ponti ed i tunnel che collegano Manhattan.

Allo stesso tempo ebbe iniziato la videoconferenza di crisi presieduta dal consigliere per l’anti-terrorismo del presidente, Richard Clarke. Essa coinvolse la Casa Bianca, i Dipartimento di Stato, della Giustizia, della Difesa, vi parteciparono anche l’aviazione civile e la CIA.

La nota giornalista della Fox News, Barbara Olson, era a bordo del Volo 77. Parlò al telefono cellulare col marito, Theodore Olson, che era consigliere di George W. Bush presso la Corte Suprema e che poi divenne procuratore generale degli Stati Uniti. Lei gli dice che i dirottatori hanno appena sequestrato l’aereo e scambia le ultime parole d’amore con lui.

Alle ore 9.30, l’aviazione civile disse che il Volo 77 era disperso. Sarebbe caduto nella riserva naturale del West Virginia, senza mai essere raggiunto dai caccia dell’US Air Force.

Tuttavia, nello stesso tempo, un aereo non identificato, con le caratteristiche di velocità e manovrabilità di un aereo militare, viene osservato dal radar dell’aeroporto civile di Washington, Dulles. Il velivolo entra nello spazio aereo protetto del Pentagono. La batterie automatiche dei missili antiaerei che proteggono l’edificio, non reagiscono. Dopo aver compiuto una svolta ad angolo retto, e aggirato un cavalcavia autostradale, il velivolo s’infilò nel Pentagono, penetrò la corazza di sei muri ed esplose, uccidendo 125 persone. I testimoni descrivono un missile. Gli orologi del palazzo rimangono congelati, indicando le 9:31.

Quindici minuti più tardi, la parte danneggiata dell’edificio crollò. Presente sulla scena dell’attentato, il corrispondente della CNN mostra che non vi è traccia di aeromobili sul posto. Poi la CNN mostra il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld aiutare personalmente i soccorritori, evacuando una persona ferita su una barella. Poco dopo, dirà al suo staff che entrando nel palazzo in fiamme, di aver visto i rottami di un Boeing. Il missile sarà presentato come il Volo 77 disperso.

La Casa Bianca ricevette una telefonata anonima, utilizzando i codici per la trasmissione Ultra-Segreta della Presidenza degli Stati Uniti. Il corrispondente dice di parlare a nome degli aggressori. Indica che la Casa Bianca sarà il prossimo obiettivo.

Alle 9:35, Richard Clarke attiva il programma di continuità del governo. Il presidente Bush, che stava visitando una scuola elementare in Florida, interruppe il suo programma e raggiunse  l’aereo presidenziale Air Force One. Da parte sua, il Vice Presidente Cheney si recò nel bunker anti-nucleare della Casa Bianca. Tutti i deputati e i ministri furono contattati per essere messi al riparo nei rifugi designati.

Alle 9:42, ABC trasmise in diretta le immagini dell’incendio  che devastava due piani di cui dell’edificio annesso alla Casa Bianca, che ospitava gli uffici del personale del Presidente Bush e del Vice Presidente Cheney. Le autorità non fornirono mai alcuna spiegazione per questo incendio, che da allora è scomparso dalla memoria collettiva. Squadre armate di lanciarazzi furono dispiegate attorno all’edificio della Presidenza, per impedire qualsiasi sbarco di truppe aviotrasportate. Fu come se si temesse un colpo di stato militare.

Alle 9:24, l’aviazione civile ricevette un messaggio da parte dell’equipaggio del volo United Airlines 93 (Newark-San Francisco), informando dell’intrusione nella cabina di pilotaggio. La comunicazione fu rapidamente interrotta e il transponder arrestò le trasmissioni, il volo fu considerato dirottato. Alle 10:03, il Boeing scomparve  dagli schermi civili. Sarebbe esploso in volo o schiantato in Pennsylvania. Sul sito c’è un cratere grande, vuoto e i detriti sono sparsi per diverse miglia.

Dando una conferenza stampa, mentre marcia per le strade di Manhattan, il sindaco di New York, Rudy Giuliani, evocò un possibile crollo delle torri gemelle, e invitava ad evacuarle.

Alle 9:58 avvenne un’esplosione alla base della torre sud del WTC e rilasciò una enorme nuvola di polvere. Poi esplosioni più piccole si ebbero nell’edificio, da cima a fondo, emettendo dai fianchi piccole nuvole di polvere. In dieci secondi, l’edificio crollò su se stesso, immergendo tutta Manhattan nella polvere.

Gli edifici delle Nazioni Unite a New York e quelli dei servizi a Washington, furono evacuati. Si temette che potessero essere i prossimi obiettivi.

Alle 10:28, la torre nord del World Trade Center crollò nello stesso modo.

Lo Stato di Israele ordinò la chiusura di tutte le sue missioni diplomatiche in tutto il mondo (10:54).

Alle 11:00 circa, l’ordine di evacuazione dell’edificio WTC-7 fu dato. Questo grattacielo non è stato colpito dagli aerei e per molto tempo le autorità non poterono vincolare il crollo agli attacchi, che non sarà neppure menzionato nella relazione finale della Commissione presidenziale.

Alle 13:04, la televisione trasmise un breve messaggio registrato del presidente Bush. Garantendo ai suoi cittadini che la continuità di governo era assicurata e che il paese sarà difeso.

Alle 13:30, lo stato di emergenza è dichiarato a Washington DC, mentre il Pentagono mise due portaerei e le loro squadre in stato di massima allerta per prevenire un sbarco navale nemico al largo di Washington. Gli Stati Uniti si credettero in guerra.

Alle 16:00 la CNN confermò che le autorità statunitensi identificarono nel saudita Osama bin Ladin lo sponsor degli attentati. Non era quindi né un colpo di stato, né la terza guerra mondiale.

Alle 17:21, la Torre n. 7 del WTC crollò allo stesso modo delle torri gemelle, ma in 6 secondi e mezzo, perché più basso.

Alle 18:42, Donald Rumsfeld tenne una conferenza stampa al Pentagono, affiancato dai leader democratici e repubblicani della commissione Difesa del Senato. Insieme, essi ribadirono l’unità nazionale in quel momento tragico. Improvvisamente, Rumsfeld prese da parte il senatore Carl Levin e gli chiese se gli eventi del giorno fossero sufficienti per convincerlo ad aumentare la spesa militare.

La sera dell’11 settembre, il danno era molto difficile da valutare. Si parlava di 40000 morti. Alle ore 20:30, il Presidente Bush si rivolse alla nazione dalla Casa Bianca. Garantiva che la minaccia sarà respinta e che “l’America” affronterà i suoi nemici. I tamburi di guerra stavano cominciando a rullare.

La distruzione controllata del World Trade Center

Tutti questi avvenimenti crearono una forte angoscia e si mossero troppo in fretta perché si potesse discuterne a caldo la coerenza. Torneremo sui principali punti oscuri. Per cominciare: perché le Torri Gemelle e la Tower 7 del WTC collassarono?

Più che lo shock degli aerei contro le torri gemelle, fu la combustione del cherosene che avrebbe indebolito le colonne d’acciaio delle torri gemelle e ha causato il loro collasso, dicono gli esperti del NIST (National Institute of Standards and Technology). Ed è proprio il contagio del fuoco che potrebbe aver provocato il collasso della terza torre, la n. 7, hanno aggiunto.

Tuttavia, questa teoria fa sorridere i professionisti: le Torri Gemelle sono state progettate per resistere all’impatto di un aereo di linea, il fuoco del cherosene ha raggiunto una temperatura compresa tra i 700 e i 900° Celsius, mentre l’acciaio deve essere portato a 1538° per sciogliersi, molti grattacieli sono stati devastati da incendi, nel mondo, ma nessuno è mai crollato, le tre torri non sono caduti di fianco, ma esattamente in verticale, ultimo ma non meno, la velocità di collasso è quella di caduta libera, vale a dire che il piano superiore non ha incontrato alcuna resistenza cadendo sul pavimento, ogni piano deve esser venuto meno prima che su di esso si esercitasse pressione.

I vigili del fuoco di New York sono categorici: hanno udito e visto una serie di esplosioni che hanno distrutto le costruzioni da cima a fondo. Queste testimonianze vengono corroborate da video e nastri audio.

In ultima analisi, Niels Harris, professore di chimica e fisica presso l’Università di Copenhagen, ha pubblicato nella prestigiosa Open Chemical Physics uno studio ufficiale che mostra la presenza a Ground Zero di particelle di un esplosivo militare, la nanothermite.

Gli esplosivi sono stati collocati da professionisti in modo che prima tagliassero la base della colonna di metallo, e poi demolissero gli edifici piano per piano, da cima a fondo. Nelle foto scattate nei giorni successivi, troviamo che le colonne di acciaio sono state tagliate in modo molto pulito e senza deformazioni da calore.

A differenza delle procedure d’indagine giudiziaria, i pezzi delle colonne di metallo non sono stati conservati per le indagini. Essi sono stati rapidamente sgomberate dalle imprese per la rottamazione di Carmine Agnello, il padrino del clan della mafia dei Gambino, e poi rivenduti sul mercato cinese.

Sulla torre n. 7, l’inquilino proprietario del World Trade Center, Larry Silverstein, ha detto in una intervista televisiva che era stato informato del possibile crollo ed aveva autorizzato la demolizione. Mr. Silverstein ha ritrattato, ma il video della sua dichiarazione rimane.

La Tower No. 7 ospitava vari servizi amministrativi, tra cui l’unità di crisi del sindaco di New York e la base principale della Cia, al di fuori del quartier generale di Langley. Il database installato inizialmente per spiare le missioni estere delle Nazioni Unite, era stata specializzata, sotto la presidenza Clinton, nello spionaggio economico delle grandi aziende di Manhattan. Supponendo che l’operazione dell’11 settembre sia stata coordinata da questo sito, la sua distruzione avrebbe definitivamente eliminato ogni prova della cospirazione.

Sei settimane prima degli attacchi, Larry Silverstein, tesoriere della campagna di Benjamin Netanyahu, aveva commesso un pessimo affare affittando gli edifici del WTC, poiché coibentati con amianto, non corrispondevano più alle norme giuridiche. Ma ebbe un vantaggioso presentimento stipulando una polizza assicurativa originale, che prevedeva un premio in caso di attentato  terroristico, calcolato non in funzione della sola possibilità, ma di un attacco. Pertanto, ritenendo che non vi erano stati due attacchi con due aerei diversi chiese, e infine ebbe, un doppio risarcimento di 4,5 miliardi di dollari.

In ogni caso, l’installazione della nanothermite nelle torri gemelle e nella Tower 7 comportava calcoli complessi e la posa in alcuni giorni, quindi prima dell’11 settembre. Questo può essere stato effettuato all’insaputa della squadra di guardia al WTC.

La sicurezza del WTC era stata delegata dal Larry Silverstein alla società Securacom, guidata da Marvin Bush, fratello del presidente.

3000 vittime

La sera dell’11 settembre, il sindaco di New York parlò di un dato possibile di 40000 morti e ordinò  in base alla valutazione il materiale necessario alle camere mortuarie. Dopo molte revisioni, il saldo fortunatamente fu ridotto a meno di 2200 morti tra i civili e 400 vittime tra il personale di soccorso. Tra i morti, non vi era nessuno dei grandi padroni dei gruppi imprenditoriali che avevano le loro sedi nelle prestigiose torri ma, in ultima analisi, soprattutto personale della manutenzione e impiegati. Come è stato possibile questo miracolo?

Intorno alle 7, i dipendenti della ditta Odigo ricevettero un messaggio di testo avvertendoli che un attacco avrebbe avuto luogo quel giorno al WTC, e che non dovevano andare nei loro uffici che si trovavano di fronte al WTC. La Odigo è una piccola società israeliana, leader nelle e-mail, strettamente legata alla famiglia Netanyahu e all’Aman, il servizio di intelligence militare di Israele.

Alle 8, il finanziere Warren Buffet organizzò nella sua roccaforte del Nebraska la colazione annuale della carità. Per la prima volta, erano stati invitati tutti i grandi capi che avevano un ufficio nelle Torri Gemelle. E per la prima volta non aveva ricevuto i suoi ospiti in un grande albergo, ma nella base militare di Offutt, il comando generale della deterrenza nucleare dell’Aeronautica. I filantropi erano arrivati in aereo sul posto il giorno prima, e rimasero nella base. Erano stati informati durante la prima colazione che un aereo aveva accidentalmente colpito la torre nord del WTC, poi un secondo aereo aveva colpito la torre sud. Hanno capito allora che non si trattava di un incidente, ma di attacchi, soprattutto perché il comandante della base, il generale Gregory Power, se ne andò subito per recarsi nella sua unità di crisi. Lo spazio aereo degli Stati Uniti fu chiuso subito o, gli ospiti non potevano tornare a New York e rimasero nella base.

Dopo l’11 settembre, il finanziere Warren Buffet è diventato l’uomo d’affari più ricco del mondo, assieme al suo amico Bill Gates. Ha fatto la campagna per Barack Obama, ma s’è rifiutato di diventare il suo segretario al Tesoro.

Nel primo pomeriggio, l’Air Force One atterrò nella base aerea militare di Offutt. Il presidente Bush si recò nell’unità di crisi, dove partecipò alla videoconferenza con la Casa Bianca e le varie agenzie. Vi registrò anche la sua prima apparizione televisiva.

Nei minuti seguenti l’impatto iniziale, i servizi d’emergenza della FEMA (l’agenzia per la gestione delle catastrofi) si dispiegarono sul sito. Per una felice coincidenza, erano arrivati il giorno prima a New York e si preparavano a guidare, il giorno successivo, una simulazione di un attacco chimico o biologico al WTC. Tutti i servizi di emergenza erano stati poi immediatamente attivati, salvando molte vite. La FEMA era guidata da Joe Allbaugh, tesoriere della campagna di George W. Bush e futuro responsabile degli appalti pubblici nell’Iraq occupato.

Il missile del Pentagono

Le batterie automatiche dei missili antiaerei del Pentagono non hanno risposto all’allarme voce di un aereo nello spazio aereo protetto. Ciò può essere spiegato in due modi: o erano scollegate, lasciando l’edificio senza difesa, o erano stati inibiti da un codice amico. Vi è infatti un codice di riconoscimento che permette agli elicotteri e dello stato maggiore e del Ministro di entrare nella zona di sicurezza.

Per aggirare uno cavalcavia dell’autostrada, il velivolo ha effettuato una virata quasi ad angolo retto, per poi penetrare nell’ala del Pentagono più lontana dagli uffici del ministro. L’area colpita era destinata a due incarichi. Da una parte gli uffici in via di ristrutturazione per lo stato maggiore della Marina e dall’altra gli uffici assegnati al Controllore Generale. Soprattutto il personale civile che stava indagando sull’appropriazione indebita del secolo, nel bilancio della difesa. Questo spiega sia che non vi fosse nessun alto ufficiale tra le vittime e perché l’inchiesta per appropriazione indebita dei fondi sia stata annullata a causa della distruzione dei registri del procedimento.

Il missile ha penetrato le mura blindate periferiche e successivamente esplose con violenza straordinaria nell’edificio. Il calore fu così intenso che i vigili del fuoco hanno utilizzato delle tute d’amianto per poter avanzare nel fuoco. L’hanno combattuto con l’acqua, il fluido che assorbe il calore specifico più elevato. Non hanno utilizzato i ritardanti che sono utilizzati per spegnere gli incendi provocati dal cherosene, e hanno dichiarato di non vedere visto ciò che evoca un aereo o del kerosene. Inoltre, contrariamente alla sua testimonianza, una persona vestita con un abito semplice, come il Segretario Rumsfeld, non avrebbe potuto avvicinarsi al cuore dell’incendio.

Successivamente, le stesse autorità hanno distrutto e ricostruito tutta l’ala danneggiata. Le macerie sono state eliminato da una società specializzata che le ha vetrificate. Questa tecnica costosa viene utilizzata per stabilizzare i rifiuti che contengono particelle radioattive. Con ogni probabilità, il missile era rivestito da uranio impoverito per penetrare nel calcestruzzo e kevlar, e conteneva una carica cava per causare l’esplosione breve ma ad alta temperatura.

Come si può vedere perfettamente nelle fotografie scattate subito dopo l’impatto, il missile è entrato nell’edificio senza danneggiare la facciata. Volò rasoterra e attraversò una porta normalmente utilizzata dai furgoni. Non ha danneggiato gli infissi.

I dintorni del Pentagono sono particolarmente monitorati da telecamere. Il velivolo doveva aver attraversato la visuale di oltre 80 di esse. Le autorità hanno rifiutato di rendere pubblici i video, e si sono accontentate di alcune foto che mostrano l’esplosione, ma non l’aereo.

Il prato del Pentagono non è stato danneggiato. L’esplosione ha distrutto le auto parcheggiate e due elicotteri parcheggiati sulla piazzola. Hanno trovato molti rottami metallici, ma nessuno relativo al Boeing, nemmeno i reattori. Le autorità hanno fatto grande uso delle fotografie ufficiali, che mostrano un frammento di circa 90 cm di lunghezza che reca una striscia laterale di una vernice speciale, utilizzata nel trasporto aereo ed altre, dipinte di rosso, bianco e blu. Proprio in vista di questa decorazione, gli appassionati di puzzle hanno trovato che non era una parte di un Boeing dipinto con i colori della American Airlines. Eppure questo è davvero una frammento di un velivolo. Si tratta probabilmente di un frammento dei due elicotteri distrutti.

A credito della teoria del Volo 77, il medico capo del Dipartimento della Difesa ha autenticato i resti umani dei passeggeri del Boeing tra le macerie del Pentagono. Le urne funerarie sono state date alle famiglie delle vittime e quei resti sono stati identificati dalle impronte digitali o dall’analisi del DNA.

Tuttavia, in seguito, il Pentagono ha giustificato l’assenza di residui da Boeing, compresi i reattori, per il calore estremo che avrebbe vaporizzato il metallo.

Non è chiaro come in queste circostanze i resti umani siano stati conservati.

Aerei dirottati o pilota automatico?

La teoria degli aerei dirottati si basa sull’assimilazione degli aerei coinvolti in aerei di linea commerciali e alla divulgazione delle conversazioni telefoniche tra i passeggeri e il suolo.

Molta gente ha testimoniato di aver ricevuto chiamate dai loro parenti a bordo degli aerei. Abbiamo ricostruito il sequestro delle hostess coi taglierini e l’ammutinamento dei passeggeri a bordo del volo 93. Quest’ultimo ha dato luogo a due film di Hollywood.

Tuttavia, nel 2006, durante il processo di Zacarias Moussaoui, sospettato di volersi unire ai dirottatori, l’FBI ha testimoniato che le telefonate tra gli aerei ad alta quota e suolo erano impossibili con la tecnologia del 2001. I controlli effettuati hanno dimostrato che tutte queste storie sono false, o perché sono state inventate, o perché i testimoni chiamati sono stati ingannati.

L’FBI non ha fatto commenti sul caso di Theodore Olson, avvocato di George W. Bush durante le elezioni presidenziali, allora procuratore generale degli Stati Uniti, che ha testimoniato di aver ricevuto due chiamate da sua moglie, la giornalista televisiva della Fox Barbara Olson, che scomparve con il volo 77.

Una ipotesi esplicativa può essere avanzata attraverso la consultazione degli archivi declassificati di Robert McNamara. Nel 1962, il capo di stato maggiore degli Stati Uniti propose al Presidente Kennedy una messinscena per giustificare un attacco contro Cuba, l’Operazione Northwoods. Queste provocazioni includevano la distruzione di un aereo in linea degli Stati Uniti da parte di un falso MiG cubano.

Per compiere ciò, l’esercito aveva recuperato due MiG sovietici nel Terzo Mondo e li aveva dipinti coi colori di Cuba. Dei figuranti furono assunti. Hanno dovuto prendere un volo per Miami e dovevano girare dei film familiari in quella occasione, per un uso successivo nei telegiornali. Una volta in volo, l’aereo avrebbe spento il suo transponder commerciale per non essere identificato dai radar civili. Per essere poi sostituito da un aereo senza passeggeri. Dopo che l’equipaggio si fosse paracadutato, il velivolo avrebbe continuato a volare con il pilota automatico per essere abbattuto dai Mig falsi sulla baia di Miami, davanti a migliaia di testimoni. Per dare credibilità al caso, il personale aveva programmato di mettere in scena le conversazioni telefoniche tra le false spie cubane, e farle intercettare dall’FBI.

Applicato all’11 settembre, questo modello può spiegare i transponder spenti, le telefonate fasulle e la mancanza di finestre nell’aereo che ha colpito il WTC. La novità è che nel 2001 il Pentagono non ha più bisogno di un equipaggio di volo su un Boeing 757. Ha la capacità tecnica di farlo decollare con la modalità dei drone. L’operazione è più flessibile.

Nei voli nazionali degli Stati Uniti, che sono molto frequenti, le compagnie aeree vendono più biglietti di quanti ne prenotato. I passeggeri sono in attesa fino a quando non viene trovato un posto vuoto in un aereo. Eppure i quattro aerei dirottati sarebbero stati pieni solo fino a un terzo della loro capacità.

Gli elenchi dettagliati dei passeggeri riportati dal quotidiano iraniano Kheyan, mostra che tutti i morti sono di famiglie dei dipendenti del Dipartimento della Difesa, società appaltatrici del Pentagono o vicini alla Casa Bianca, come Barbara Olson.

L’ipotesi di un aereo di linea accidentalmente schiantatosi sul tetto del Pentagono (e non la sua suggestiva facciata) fu studiata negli anni ’90. Il Dipartimento della Difesa ha anche effettuato alcune simulazioni sotto la guida del comandante Charles Burlingame. Successivamente, l’ufficiale si ritirò dal servizio attivo ed diventò pilota di linea dell’American Airlines. Era ai comandi del Volo 77 che avrebbe colpito il Pentagono.

Senza aerei dirottati, niente dirottatori

Nei tre giorni che seguirono gli attacchi, il Dipartimento della Giustizia, basandosi sulle informazioni fornite dai passeggeri per telefono, stabilisce il modus operandi dei dirottatori, individuato e ricostruito le loro vite. Così, fu la telefonata di uno stewart del volo 11 che ha consentito di  sapere che i pirati erano cinque in tale aereo e che il loro leader era il passeggero  del sedile 8D, Mohammed Atta.

Ma sappiamo oggi che queste telefonate sono false e che gli aerei non sono stati dirottati, ma sostituiti. Peggio ancora, negli elenchi dei passeggeri forniti dalle compagnie aeree nelle ore successive agli attentati, hanno dimostrato che nessuno dei 19 sospetti dirottatori si era imbarcato.

Tuttavia, vi sono “prove” che Mohammed Atta era a bordo dell’aereo che si schiantò sulla torre nord. Pochi giorni dopo, mentre il WTC era un cumulo di macerie fumanti, un agente di polizia vi ha scoperto il passaporto intatto di dirottatore. Tutto era distrutto, salvo la prova provvidenziale.

Questa storia non sembrava plausibile, l’amministrazione Bush trasmise le immagini di una telecamera di sorveglianza dell’aeroporto che mostrava Atta e il suo compagno al-Omari, all’imbarco. Ahimè! Queste immagini sono state riprese l’11 Settembre 2001, ma all’aeroporto di Portland in cui i due uomini sono passati, ma non a Boston, da dove decollò il volo 11.

Mai a corto di idee, il Sunday Times di Rupert Murdoch, nel 2006, ha pubblicato un video fornito cortesemente dal Dipartimento della Difesa USA, datato 2000, che mostrava Atta in Afghanistan in un campo di Osama bin Ladin.

L’esame dell’elenco ufficiale dei dirottatori, degli attentatori suicidi, non stanca di sorprendere. Alcune persone si fecero avanti dopo gli attacchi. Per esempio, Walid al-Asher, che avrebbe fatto parte della squadra di Atta nel Volo 11, è un pilota di aerei della Royal Air Morocco. Vive a Casablanca, dove ha dato varie conferenze stampa fino a quando il palazzo reale gli ha chiesto di essere più discreto.

Tuttavia 13 dei 19 presunti dirottatori sono mercenari che hanno partecipato in precedenza a operazioni terroristiche condotte dal principe Bandar bin Sultan, per conto della CIA in Afghanistan, Bosnia-Erzegovina e/o la Russia. Sono Khalid Almihdhar, i fratelli  Nawaf e Salem Alhazmi, Ahmed Alhaznawi, Ahmed Hamza Alghamdi, Wail, Waleed e Mohand Alshehri, Alnami Ahmed, Ahmed Fayez Banihammad e Majed Moqed. Hanno combattuto per i talebani e per l’emirato islamico d’Ichkeria.

Il Principe Bandar fu nominato ambasciatore dell’Arabia Saudita a Washington dal re Fahd, quando salì al trono nel 1982 dopo l’assassinio del suo predecessore, per opera di un principe tossicodipendente armato dalla CIA. Ha mantenuto questa posizione fino a quando il re morì, nel 2005. Subito considerato da George Bush padre come un figlio adottivo, è conosciuto in tutto il mondo arabo con il soprannome di “Bandar Bush“. Con vari servizi, ha gestito per oltre venti anni una sorta di fondo nero della CIA, alimentato da tangenti, bustarelle del contratto di vendita di armi, noto come contratto Al-Yamamah, che coinvolge i più alti vertici del Regno Unito. Ha anche reclutato mercenari negli ambienti islamici per ogni tipo di operazioni segrete nel mondo musulmano, dal Marocco allo Xinjiang, in Cina.

Eludendo le domande sui presunti dirottatori, l’amministrazione Bush ha preferito concentrare il dibattito sulla personalità di Osama bin Ladin. Il famoso ragazzo d’oro dell’Arabia Saudita è stato il fratello di Salem bin Ladin, il partner di George W. Bush, nella compagnia petrolifera Harken Energy di Houston. Era stato assunto a Beirut dal Consigliere della Sicurezza Nazionale degli USA, Zbigniew Brzezinski, alla fine degli anni ’70. Ha poi aderito alla World Anti-Communist League e dispose il finanziamento dei mujahidin contro i sovietici in Afghanistan. La sua “Legione Araba” è stata poi utilizzata in altri teatri di operazione, in particolare in Bosnia-Erzegovina. Da una personalità del jet set, la CIA aveva ottenuto un fanatico religioso che fungesse da schermo per le azioni del principe “Bandar Bush“. In effetti, se nessun islamico potrebbe accettare di servire la monarchia corrotta e insulsa di Fahd, molti troverebbero interessante il fatto di seguire un personaggio dalla retorica fondamentalista e anti-occidentale di Osama bin Ladin. “Lo sceicco Osama” è stato comunque una pedina importante della CIA sullo scacchiere del Medio Oriente. Un capo di Stato arabo ha raccontato in dettaglio, a questo recensore, come egli avesse visitato, nell’estate del 2001, l’ospedale americano di Dubai, dove ha subito un trattamento estensivo ai suoi reni. Secondo il testimone privilegiato, bin Laden l’ha ricevuto nella sua stanza in presenza dei suoi colleghi della CIA

Nel 2001, Osama bin Laden era sconosciuto al grande pubblico degli Stati Uniti, ad eccezione dei fan di Chuck Norris che avevano visto il suo film “Ground Zero“. Per 8 anni, l’amministrazione Bush centellinò alla stampa una serie di cassette audio e video dello ‘sceicco’ Osama per far rivivere il feuilleton della guerra al terrorismo.

In uno dei nastri più famosi, egli afferma di aver calcolato come due Boeing potessero causare il crollo delle torri gemelle e ha anche commissionato l’aereo contro il Pentagono. Due exploit che oggi sappiamo immaginari.

Nel 2007, l’Istituto svizzero per l’Intelligenza Artificiale ‘Dalle Molle’, contattò i migliori esperti nel mondo in video e riconoscimento vocale, studiarono tutte le cassette di Osama bin Ladin a disposizione. Ha concluso con certezza che tutti le registrazioni dal mese di settembre 2001, sono false. Inclusi i nastri delle confessioni.

C’era un esercito negli Stati Uniti?

Questo insieme di prove invalidano la teoria ufficiale dell’amministrazione Bush non si può nascondere la più incongrua: durante quel terribile giorno, ‘l’esercito più forte al mondo’ sembrava impotente o assente.

Mentre la procedura di intercettazione sono necessarie affinché i caccia si  mettessero in contatto visivo con gli aerei dirottati in pochi minuti, non uno di essi è riuscito ad avvicinarsi a uno degli aerei dirottati. Chiestogli di spiegare questo disinteresse e le responsabilità, il generale Richard Myers, capo di stato maggiore che ha servito come vice permanente, durante il viaggio in Europa del suo supervisore, ha cominciato a balbettare di fronte ai parlamentari. Non riusciva a ricordare il suo programma personale, ed è stato in contraddizione con se stesso.

Tuttavia, l’esercito era in allerta quel giorno. Aveva previsto la sua più grande esercitazione annuale: ‘Global Vigilance’. Era un wargame che simulava un attacco da parte di bombardieri nucleari russi attraverso il Canada. L’esercizio mobilitò l’intera forza aerea e i mezzi di sorveglianza via satellite degli Stati Uniti. Fu guidato dalla base di Offutt, dove c’erano Warren Buffet e dei suoi amici proprietari del WTC, e dove il presidente Bush si recò nel pomeriggio.

Quel giorno, più di ogni altro, aerei da guerra statunitensi erano in volo, i loro satelliti erano stati posizionati e il loro personale controllava il traffico aereo civile, al fine di evitare incidenti.

I militari Usa non erano solo sul piede di guerra. Il capo di stato maggiore della grande potenza erano anche in stato di allerta, osservava e valutava la dimostrazione di potenza degli Stati Uniti. Quando il disastro accadde negli Stati Uniti, ognuno ha cercato di capirne l’origine e seguirne le vicissitudini.

In Russia, il presidente Vladimir Putin ha cercato di raggiungere l’omologo nell’emergenza degli Stati Uniti, per assicurargli che Mosca non era in alcun modo coinvolta in questi crimini, e quindi evitare una risposta ingiustificata. Ma il presidente Bush si è rifiutato di prendere la chiamata, come a conferma che essa apparisse superflua. Il capo di stato maggiore russo, il generale Leonid Ivashov, commissionò degli studi su ogni punto critico, a mano a mano che veniva identificato. Fu il rapido crollo verticale delle torri gemelle che i suoi esperti si convinsero che lo scenario ufficiale era una finzione che nasconde un grande messinscena. Tre giorni dopo gli attentati, aveva ricostruito la maggior parte del dramma e poté dire che si trattava dello scontro interno tra i leader degli Stati Uniti. Ha detto che l’operazione era stata sponsorizzata da una fazione del complesso militare-industriale americano e condotta da una società privata militare.

La rivolta dello spirito

Sottoposta a una propaganda pesante, compreso il lutto nazionale in alcuni paesi e il minuto di silenzio obbligatorio nell’Unione europea, l’opinione pubblica occidentale era ancora stordita, incapace di riflettere sugli eventi. Già il suono degli stivali echeggiava in Afghanistan.

Eppure l’autore di queste righe cominciò a pubblicare una serie di articoli su Internet, a mettere in discussione la versione ufficiale. Pubblicati la prima volta in lingua francese, furono presto tradotte in molte lingue ed ha fatto discutere. Un libro di sintesi, The Big Lie, pubblicato sei mesi dopo e tradotto in 28 lingue ha avviato un movimento di protesta. In Germania l’ex ministro Andreas von Bülow, in Portogallo, l’ex direttore regionale della Cia Oswald Winter, il politologo britannico Nafeez Mosaddeq Ahmed, lo storico americano Webster Tarpley hano pubblicato nuove intuizioni. Da ciò la sfida si è evoluta in due direzioni contemporaneamente.

L’autore di queste righe ha avviato una campagna mondiale, incontrando le più alte cariche politiche, diplomatiche e militari e mobilitando le istituzioni internazionali. Questa azione ha contribuito a spiegare il piano neoconservatore dello “scontro di civiltà” e di limitarne gli effetti letali.

D’altra parte, negli Stati Uniti, le famiglie delle vittime, dopo aver maledetto la contestazione, ha cominciato a fare domande e a chiedere un’indagine. L’amministrazione Bush ha minacciato i disturbatori, come il miliardario Jimmy Walter costretto all’esilio, e bloccato qualsiasi azione da parte del Congresso e formato una commissione presidenziale. Ha emesso una relazione che conclude, senza una sorpresa, per l’innocenza dell’amministrazione e per la colpevolezza di Al Qaeda, ma non divulgò le tanto attese prove “evidenti e indiscutibili“. Dei videoamatori realizzarono dei video che mostrano le incongruenze della versione ufficiale e gli hanno diffuso via Internet, come il famoso Loose Change. Si costituivano associazioni professionali per la verità sull’11 settembre, con architetti e ingegneri, vigili del fuoco, avvocati, medici, religiosi studiosi, artisti, politici. Sono ormai decine di migliaia di membri e hanno convinto la maggioranza dei loro concittadini che Washington ha mentito. Hanno trovato un leader, il professore di logica e di teologia David Ray Griffin.

La propaganda ufficiale Anglo-Sassone finora è riuscita a limitare gli effetti di questa sfida. In primo luogo, ha fatto in modo che il pubblico occidentale non sapesse nulla dei dibattiti in tutto il mondo. Nessuna delle dichiarazioni dei capi di Stato e di governo stranieri, che hanno espresso dubbi, è stata ripresa dalla stampa occidentale, isolandosi dal resto del mondo, con una nuova cortina di ferro. In secondo luogo, i manifestanti occidentali sono stati descritti come sia illuminato, ossia assimilati a ciò che fa più paura, alla estrema destra antisemita.

L’elezione del presidente Obama non ha cambiato il dibattito. Il sito web della Casa Bianca, che ha invitato i cittadini americani a esprimere le loro preoccupazioni, è stato assalito da e-mail che chiedono l’apertura di una inchiesta giudiziaria sull’11 settembre. Risponde laconicamente: la nuova amministrazione vuole guardare al futuro e non suscitare il dolore del passato.

Durante la sua campagna, Barack Obama ha fato leggere in anticipo tutti i suoi discorsi a Benjamin Rhodes, un giovane scrittore che è stato redattore della relazione della Commissione Presidenziale Kean-Hamilton. Ha fatto sì che non ci fosse nessun riferimento all’11 settembre, o ai suoi protagonisti, in grado di aprire il vaso di Pandora. Rhodes è ora la Casa Bianca e fa parte del Consiglio di Sicurezza Nazionale. A tutti i membri dell’amministrazione Obama è stato chiesto di ritrattare le dichiarazioni che avevano fatto, in passato, che esprimessero dubbi sulla versione ufficiale. Un consulente senior, Van Jones, che ha rifiutato di ritrattare, è stato costretto a dimettersi.

Tuttavia, degli eventi di estrema importanza rendono oggi possibile fare una precisazione sugli attacchi. Re Fahd è morto nel mese di agosto 2005. Re Abdullah è l’ha sostituito ed ha cercato di allentare gradualmente i legami soffocanti del regno saudita con gli Stati Uniti. Inizialmente, il principe Bandar divenne consigliere per la sicurezza nazionale, ma i suoi rapporti con il re si sono deteriorati. Infine, all’inizio dell’estate 2009, Bandar ha imprudentemente cercato di liquidare il monarca e cercato di mettere sul trono il padre Sultan. Poiché non ci sono notizie di “Bandar Bush“, e di circa 200 membri del suo clan, alcuni sarebbero stati esiliati con lui in Marocco, gli altri sarebbero stati imprigionati. Le lingue potrebbe ora essere sciolte.

Questo articolo è stato scritto per il settimanale Odnako che l’ha pubblicato sul suo numero 1 del 15 settembre 2009.

Lanciato con significative risorse finanziarie, Odnako mira ad affermarsi come la prima rivista di notizie in Russia. La sua redazione è guidata da un veterano della stampa, Mikhail Leontief. Noto giornalista, ha pubblicato indagini di base sul movimento fascista al potere negli Stati baltici e la corruzione in Ucraina, cosa che gli è valsa la dichiarazione di persona non grata in vari Stati. La sua colonna politica, diffusa dalla prima stazione televisiva, ha raggiunto una popolarità molto elevata grazie al suo stile chiaro e semplice. L’ha chiamata Odnako (Dannazione!) e da lo stesso titolo alla rivista.

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Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Rusia en el siglo XXI

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Rusia está de regreso y su veloz reafirmación en el tablero mundial se debe a las iniciativas puestas en juego por Vladimir Putin y hoy por el presidente Medvédev. En el frente interno, reconducir bajo el control del Estado las industrias estratégicas del país, erradicar la criminalidad organizada, contener con firmeza el secesionismo en el Cáucaso e infundir confianza a la población. En el frente externo alianzas que ayudan a pequeños países a resistir con éxito a la hegemonía imperial. Presentamos el análisis del politólogo italiano Tiberio Graziani.


En el curso de los últimos dos decenios en Rusia se han manifestado dos hechos geopolíticos tan importantes que condicionan muy profundamente tanto la política internacional planetaria, como –teniendo en cuenta un planteo teórico especulativo– los habituales paradigmas interpretativos utilizados por los analistas de cuestiones geopolíticas y geoestratégicas.

Nos referimos, claro está, a la caída de la Unión Soviética y a la reconfiguración geopolítica del área rusa como elemento que constituye el nuevo asentamiento mundial luego de una condición unipolar.

Es necesario señalar de inmediato que la reconfiguración-reconstrucción del espacio geopolítico ruso, iniciado por Putin y ahora continuado por Medvedev, tiene la peculiaridad de iniciarse en un lapso breve –no habían trascurrido diez años de la disolución oficial de la potencia soviética–, si se tienen en cuenta los largos arcos temporales típicos de los ciclos geopolíticos y del contexto económico, político y social, además el psicológico, dentro de cuyo periodo la reconstrucción se ha manifestado.

Todos podemos recordar el profundo estado de postración que sumergió a Moscú a los inicios de los noventas y su consecuencia a nivel mundial por el temor extremo que provocó en los observadores, en los políticos y en los exponentes del mundo de las financias, del comercio y las industrias el vacío producido por la caída vertical del sistema soviético.

El desplome de la URSS, como es notorio, permitió la expansión de la potencia americana en el espacio centro europeo, y centroasiático a lo largo de los años noventas.

Entre las etapas más significativas de la marcha de EEUU hacía oriente podemos recordar: la primera guerra de Golfo (1990-1991), la agresión a Serbia (1999) en el cuadro del la programada desintegración de la confederación yugoslava, la ocupación de Afganistán (2002) la devastación de Iraq (2003).

En paralelo a las acciones bélicas, Wáshington intensificado su esfera de influencias sobre el Viejo Continente por medio de la inclusión en la OTAN de los Países de Europa central, miembros del ex Pacto de Varsovia. La ampliación de la OTAN da inicio, como es sabido, a la inclusión de la Alemania del Este el dia 3 de octubre de 1990; luego de la reunificación de las dos entidades alemanas sigue, el 12 de marzo de 1999, con Polonia, Hungría, la Republica Checa y, el 29 de marzo de 2004, con la inclusión de Eslovaquia, de Rumania, Bulgaria y Eslovenia.

Al ex enemigo soviético no se le ahorra tampoco, aún fuere simbólico, pero geoestratégico y relevante golpe: el 29 de marzo de 2004 hacen parte de la OTAN tres ex Republicas Soviéticas,Estonia, Letonia y Lituania. Recién, el 1º de abril de 2009 entraron Croacia y Albania.

Por primera vez en su historia Europa es rehén por completo de una alianza hegemónica extracontinental. La vuelta al Comando integrado de la OTAN (abril de 2009) de la Francia de Sarkozy constituye, en el orden temporal, el último acto de subordinación europeo a los intereses de Wáshington.

La erosión continua en lo que se comprende como el “exterior cercano” ex soviético por parte de los EEUU, que a continuación, a partir del 2000, inicia la conquista de lo que se entiende como “sociedades civiles” de los países que lo componen. A tal fin, asistimos a la puesta en escena de la estrategia de las “revoluciones coloradas”, cuya finalidad es ubicar un gobierno filo occidental en Serbia (5 de octubre 2000), en Georgia (“Revolución de las Rosas”, 2003-2004), en Ucrania (“Revolución Color Naranja”, 2004), en Kirguizistán (“Revolución de los Tulipanes”, 2005).

La conquista de las sociedades civiles de algunos países, como Georgia y Ucrania, teorizadas por “think tanks” como el Albert Einstein Institute, sobre la base de las indicaciones propuestas por su fundador, el estadounidense Gene Sharp –que parecer financio por el conocidofilántropo y especulador Georges Soros, consejero del actual presidente Obama.

Por un largo decenio parece que el dictado de las reglas de la política y la economía mundial ha sido guiado por los EEUU el sólo sistema occidental. En el trascurso de los años noventas, de hecho, los Estados Unidos, (la hyperpuissance, como los definió con motivada preocupación, un canciller francés, Hubert Vèdrine,, o la “nación necesaria” según una renombraba expresión, mesiánica y arrogante de la secretaria de Estado Madeleine Albright y de su presidente Clinton), impusieron el su criterio unilateral en casi todas las iniciativas políticas, económicas y militares del planeta.

Pero tras la llegada de Putin a la presidencia de la Federación Rusa el cuadro internacional comienza a cambiar.

El primer episodio que se puede valuar como el inicio de la reafirmación de la nueva Rusia en el certamen internacional es tal vez el conectado a las tensiones que emergen en el seno del sistema occidental, por marginarse de la agresiva intervención militar en el Iraq de Saddam Hussein.

En el 2003 París y Berlín se oponen a la voluntad de Wáshington: Moscú se opone y, por momentos, el eje París-Berlín-Moscú parece una alternativa realista al juego unipolar estadounidense. Rusia obtiene un primer gran éxito a causa de la tensión provocada en el campo occidental por la política exterior implementada por el ex agente del KGB.

Rusia, luego del embate soportado en Serbia, comienza a reaccionar. Y en menos de un decenio, reconfirma su rol de Estado “pivot” del espacio euroasiático. Eso fue posible, por cierto, gracias a dos relevantes factores geo- económicos: los concomitantes crecimientos económicos de China y de India.

Los peculiares desarrollos socio-económicos de estos países asiáticos se han integrado coherentemente en las estrategias de sus respetivos gobiernos, deseosos de expandir la esfera de influencia sino-india en Eurasia. Beijing y Nueva Dehli, concientes de poder contribuir a la concreción de un futuro sistema multipolar, y de contar en lo sucesivo con una Rusia fuerte como pilar fundamental de todo entendimiento euroasiático, prudentes, jamás la humillaron, ni siquiera en el periodo más oscuro de su historia.

La plena y veloz reafirmación de Rusia en el tablero mundial, se debe, sin embargo, a las muchas iniciativas puestas en juego por Vladimir Putin. El ex primer ministro del Kremlin consigue en el curso de dos mandatos presidenciales, en el frente interno, reconducir bajo el control del Estado las industrias estratégicas del país, erradicar la criminalidad organizada, contener con firmaza el secesionismo chechenio y daguestano e infundir confianza a la población.

Mientras, en el frente externo, inicia el tejido de una red de relaciones con las repúblicas centroasiáticas, decididas a seguir la sirena estadounidense, y, como prioridad, se ocupa de reanudar sus lazos con China popular. Moscú no descuida tampoco las muchas identidades culturales y religiosas de las poblaciones de las naciones euroasiáticas.

De hecho, en el ámbito de una lógica euroasiática, sensible al encuentro entre las varias civilizaciones del continente en franca oposición a la estrategia Islam-fóbica de los anglos estadounidenses, Putin presenta en la conferencia islámica de Kuala Lumpur en 2003 a Rusia como “defensor histórico del Islam”.

Tal significativa declaración, por cierto, tiene en cuenta que el Islam es la segunda religión de la Federación Rusa (también es la única en expansión en el área rusa) y es el primer paso oficial que llevará a la Rusia a ser miembro observador de la Organización de la Conferencia Islámica (OIC). La tentativa estadounidense de provocar tensiones a partir de identidades locales como “arcos de crisis” a lo largo de las fronteras étnico-religiosas, se controlan con esta mirada a la vez longeva y preventiva de Moscú.

Sobre el plano geoestratégico el Kremlin, conciente de la mira estadounidense en el Asia Central, refuerza la Organización de la Cooperación de Shangai (SCO) de la cual es parte también China popular. La finalidad es volver estable un área considerada insegura por los estrategas de Wáshington, que la definen como la “barriga floja” de Eurasia.

La dirigencia rusa además contribuye, en 2002, a la creación de la Organización del Tratado de Seguridad Colectiva de los países de la Confederación de los Estados independientes (CSTO).

Las dos organizaciones demuestran al mundo – y principalmente a Estados Unidos– que los problemas en materia de seguridad y de defensa de toda el área están bien instalados y que, por eso, no se precisan supervisores o ayudas provenientes de occidente, y, mucho menos, provenientes de la OTAN.

Gracias al despertar del “Oso” ruso, la marcha de los EEUU en Asia Central, parece, por ahora acabada.

Un nuevo ciclo geopolítico se perfila en el horizonte.

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I verbali di Hitler. Rapporti stenografici di guerra (1942-1945)

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I VERBALI DI HITLER
Rapporti stenografici di guerra 1942-1945
Volume primo: 1942-1943

a cura di Helmut Heiber

Collana: “LEGuerre”, n° 59
Brossura, pagine: 690
Prima edizione “LEGuerre”, settembre 2009
ISBN: 978-88-6102-042-9
prezzo: Euro 38,00 i.i.

Traduzione di Flavia Paoli

Introduzione del Generale FABIO MINI.

Con 15 cartine nel testo.

Disponibile nelle librerie dal 20 settembre

http://www.leg.it/ordini.htm

Fu la grave crisi di fiducia nei confronti dei suoi generali – in particolare Halder e Jodl -, sorta a motivo dell’arbitraria esecuzione delle sue direttive durante l’avanzata tedesca nel Caucaso nell’estate del 1942, a indurre Hitler a istituire il “Servizio Stenografico al quartier generale del Führer” (Stenographischer Dienst im Führerhauptquartier). A suo vedere, la registrazione stenografica delle riunioni con i collaboratori militari avrebbe evitato che i comandanti potessero in futuro addurre, a propria giustificazione, l’aver ricevuto ordini diversi da quelli effettivamente da lui trasmessi. Già nei primi due anni di guerra Hitler richiedeva due volte al giorno un rapporto sulla situazione bellica, senza però che i capi militari supremi venissero convocati, a meno che la situazione lo richiedesse. Con l’inizio della campagna orientale, le riunioni informative – che si tenevano nella cosiddetta “Wolfsschanze”, presso Rastenburg, nella Prussia Orientale – diventarono più regolari: quotidianamente si tenevano la riunione di mezzogiorno e la riunione serale. Successivamente, Hitler iniziò a far stenografare sinteticamente le sue “conversazioni a tavola” (verbali che abbracciano il periodo tra il 5 luglio 1941 e il 7 settembre 1942). Dopo lo scontro con Jodl (avvenuto proprio la notte del 7 settembre), Hitler ordinò la registrazione stenografica anche delle riunioni informative, affidata a personale qualificato.
Quando, a metà aprile 1945, l’attività degli stenografi presso il quartier generale del Führer si concluse, erano stati accumulati 103.000 fogli, redatti su una sola facciata. A fine mese, con il tracollo tedesco e in previsione dell’imminente occupazione americana, si dovette decidere il destino dei verbali; i primi di maggio del 1945, all’Hintersee, non distante da Berchtesgaden, i documenti furono bruciati (in tale decisione, fu determinate l’influenza dello storico militare Scherff, mentre l’ordine partì sostanzialmente da Bormann), ma un migliaio di pagine – quelle che costituiscono pressoché integralmente il materiale di questo libro, trascrizione fedele delle parole di Hitler nei suoi incontri con i vertici militari del Reich dal dicembre del ’42 alla primavera del ’45 – si salvarono, grazie al lavoro svolto dal Military Intelligence Service americano nei giorni immediatamente successivi all’occupazione.

Di inestimabile valore storico, I verbali di Hitler travalicano le valenze legate alle risoluzioni strategiche che, ormai nelle mani del Führer, gradualmente segnarono la disfatta militare tedesca e trascinarono la Germania nell’abisso; dall’opera traspaiono i rapporti quantomeno conflittuali tra Hitler e i suoi generali, quei generali che, negli anni dell’autogiustificazione, ebbero gioco relativamente facile nell’imputare il naufragio di idee sempre giuste e promettenti degli stati maggiori al dilettantismo del loro “caporale comandante”. Nella resa dei conti postbellica tra i generali e Hitler, questo è l’unico caso in cui la parola non viene data solo agli accusatori, ma anche all’accusato, anche se di norma possiamo vedere il condottiero Hitler solo attraverso gli occhi dei primi. Le scelte di “guerra totale” e “guerra fino a cinque minuti dopo la mezzanotte” non furono decisioni militari, ma politiche; queste e molte altre scelte vanno addebitate all’uomo politico Hitler, non al comandante militare.

· il curatore ·  Lo storico Helmut Heiber (Lipsia, 1924-Monaco di Baviera, 2003), già sottotenente dell’artiglieria contraerea durante la Seconda guerra mondiale, fu segnato dai difficili anni di prigionia in Jugoslavia. Dopo il conflitto, si dedica agli studi che negli anni ne faranno una figura di riferimento per la ricerca di storia contemporanea in Germania. Egli ha legato il suo nome ai monumentali interventi di riordino e catalogazione negli archivi della Seconda guerra mondiale, con un approccio che ha di fatto reso disponibile una grande quantità di documenti, come nel caso delle carte relative al Processo di Norimberga. A Heiber si devono biografie di Adolf Hitler e Joseph Goebbels, lavori dedicati all’università sotto il nazismo, opere fondamentali sulla Repubblica di Weimar presto diventate dei “classici” per la formazione di generazioni di studenti. Il suo lavoro sui Verbali di Hitler ha permesso di interpretare e contestualizzare con efficacia una mole di documenti archivistici altrimenti di ostico approccio.

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Presentazione del libro “I verbali di Hitler. Rapporti stenografici di guerra 1942-1945”

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Libreria Editrice Goriziana
15 settembre 2009 – 15 September 2009
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Presentazione del libro “I verbali di Hitler. Rapporti stenografici di guerra 1942-1945“. Volume primo 1942-1943
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Gorizia, 15 settembre 2009


Gentili Signori,
La LEG – Libreria Editrice Goriziana annuncia l’uscita del libro “I verbali di Hitler. Rapporti stenografici di guerra 1942-1945. Volume primo 1942-1943”, a cura di Helmut Heiber, con l’introduzione del generale Fabio Mini, nella collana LEGuerre con la traduzione di Flavia Paoli. “I verbali di Hitler” (690 pagine, 38 euro, ISBN:  978-88-6102-042-9) sono un documento di inestimabile valore storico: raccolgono le registrazioni stenografiche delle riunioni quotidiane convocate da Adolf Hitler nella Wolfsschanze, la Tana del Lupo nei pressi di Rastenburg, dal dicembre del 1942 alla primavera del 1945. Sono le pagine che si salvarono dalla distruzione degli oltre centomila fogli stenografati su un’unica facciata, bruciati i primi di maggio del 1945 contestualmente al tracollo tedesco e in previsione dell’occupazione americana.
Il volume verrà presentato, nell’ambito della manifestazione pordenonelegge.it, domenica 20 settembre 2009 alle 15.30 nella sala convegni del Palazzo della Camera di Commercio di Pordenone, nell’incontro-conversazione dal titolo “Hitler e la guerra segreta” che vedrà protagonisti il politologo Giorgio Galli e l’analista politico-militare Fabio Mini con il coordinamento del giornalista Wlodek Goldkorn. “I verbali di Hitler” sarà disponibile nelle librerie dalla stessa data.
Maggiori dettagli sul volume all’indirizzo web

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Convegno “Confronto tra mondo etrusco e mondo tracio: storia, arte, archeologia”

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“Confronto tra mondo etrusco e mondo tracio: storia, arte, archeologia”

Tarquinia, 10 ottobre 2009

Civiltà fiorite all’incrocio di antichi cammini mediterranei, mondi affascinanti ancora da scoprire in tutte le loro sfaccettature, Etruschi e Traci con i rispettivi tesori archeologici evocano le fasi di un’intensa e produttiva circolazione di arti e tecniche, e quindi di persone, in un’area compresa tra le sponde dell’Asia Minore e quelle del Danubio e del mar Tirreno. Da tale osmosi germogliarono le prime civiltà europee con i loro tratti distintivi, ma anche con le loro affinità.

Le tombe dei re traci, i cui sontuosi arredi sono stati ammirati alla mostra di Palazzo Ducale a Venezia nel 1989 e alla mostra del 2006 al Quirinale e le tombe dei re etruschi, i cui ori  e il cui  vasellame sono esposti da tempo nei musei di tutto il mondo, sono lì a interrogarci sulle tante vicende che caratterizzarono gli indubbi contatti di popoli e culture di varia identità e origine.

Il Convegno di Tarquinia si domanda per la prima volta se Traci ed Etruschi ebbero scambi più durevoli, incisivi e permeanti che occasionali, discontinui e superficiali. Nel dibattito, che seguirà  l’esposizione dei risultati delle ricerche ‘sul campo’ di archeologi italiani e bulgari, i massimi esperti della materia dialogheranno tra l’altro con studiosi di materie collegate.

Due mondi geograficamente lontani che le scienze storiche e umanistiche potrebbero affratellare. Per cui si spalancherebbero scenari fin qui  trascurati per un allargamento delle conoscenze e per un autentico, vitale rafforzamento della coscienza europea che si riconosca generata da umori appartenenti a un’unica matrice.

PROGRAMMA

Venerdì 9 ottobre: accoglienza dei relatori e visita guidata alla città di Tarquinia.

Sabato 10 ottobre, presso il Comune di Tarquinia:

Ore 9: Saluto delle Autorità;

Ore 9,30: Prof. Stephan Steingraeber (Università di Roma 3): “Necropoli, tombe monumentali, pittura funeraria, corredi e riti funebri nel mondo etrusco e in quello tracio

Ore 10: Prof. Tokto Stojanov (Università di Sofia): “Banquet sets in the tomb painting and inventory in Etruria and Thrace: an attempt at comparative analysis

Ore 10,30: Prof. Mario Torelli (Università di Perugia):“Ancora sulle pitture della tomba di Kazanlak

Ore 11: Pausa caffè;

Ore 11,30: Prof.ssa Julia Valeva (Istituto per gli Studi d’Arte dell’ Accademia delle Scienze bulgara): “The typology of the Thracian tombs

Ore 12: Prof. Claudio Mutti (Liceo Classico Romagnosi, Parma): “Traci ed Etruschi nell’epica antica

Ore 12,30: Pausa pranzo.

Ore 15: Dott.ssa Daniela Stojanova (Università di Sofia):“Tomb Architechture in Thrace and preroman Italy. Some new observations

Ore 15,30: Prof. Alessandro Mandolesi (Università di Torino) : “I tumuli della Doganaccia a Tarquinia: nuovi scavi e scoperte

Ore 16: Dott.ssa Consuelo Manetta (Università di Roma Tor Vergata): “Il tumulo Tjulbe e la tomba di Kazanlak  nel contesto della cultura decorativa e figurativa del primo ellenismo: riesame e nuove considerazioni”

Ore 16,30: Dott. Augusto Goletti (Archivio di Stato): “Gli Etruschi! Un popolo ancora sconosciuto?

Ore 17: Dibattito conclusivo diretto dal Prof. M. Torelli.

A coordinare,  la Dott.ssa Anna Maria Turi

Ore 20: Cena conviviale.

Domenica 11 ottobre: visita guidata alla necropoli di Tarquinia, pranzo e commiato

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Corso di lingua turca

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Si comunica a tutti gli interessati che GIOVEDI 24 SETTEMBRE alle ore 17 presso la Biblioteca Amilcar Cabral(via San Mamolo 24, tel. 051581464) si terrà una riunione di presentazione del corso di turco 2009/2010 a cura dell’Associazione culturale Italia-Turchia.

Cordiali saluti

Centro Amilcar Cabral

Via San Mamolo 24, 40136 Bologna

tel. 051 581464 fax 051 346448034

www.centrocabral.com

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60° anniversario della fondazione della Nuova Cina

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Cina. Festa nazionale: le parate sono un’opera congiunta

Il comandante generale delle parate per festeggiare il 60° anniversario della fondazione della nuova Cina Fang Fenghui ha affermato che con il principio del risparmio, le parate favoriscono a verificare e a elevare la capacità esecutiva congiunta dei vari corpi militari. Nel frattempo 52 tipi di apparecchiature esposte sono tutte di produzione cinese.
Secondo quanto illustrato da Fang Fenghui, il concentramento dei vari corpi militari, delle diverse strutture organizzative e delle varie parti del paese, sotto un unico comando, istruzione, esercitazione e fornitura, favorisce la costituzione professionale delle truppe.
Con l’avvicinarsi del 1° ottobre, 60° anniversario della fondazione della Nuova Cina, sono iniziate le attività culturali di benvenuto alla festa.
Di recente nei cinema di tutto il paese sono stati proiettati film sulla fondazione e sviluppo della Cina, mentre le TV locali presentano serial TV sulla storia della fondazione della Nuova Cina.
Inoltre, cento musei e sedi di esposizione, incluso il museo della Città Proibita, terranno vari tipi di attività di presentazione degli straordinari cambiamenti del paese nei 60 anni dalla fondazione della Nuova Cina.
http://italian.cri.cn/index.htm

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Il “compagno Tremonti” e la “sinistra finanziaria”

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Le nuove tendenze sociali e economiche insorte dopo la svolta dei primi anni Novanta – privatizzazioni, lavoro precario, pensioni, effetti dell’euro – e la “finanziarizzazione” dell’economia (rapporto 10 a 1 col capitale produttivo alla svolta del secolo) con tutte le sue conseguenze sul mondo della produzione, lavoratori dipendenti compresi: sono questi i due momenti chiave su cui misurare la politica del centrosinistra, per cercare di capire cosa ancora nell’odierna opposizione sopravvive del suo essere “di sinistra”.

Iniziamo con la seconda questione, non solo perché probabilmente è la radice ultima della prima, ma anche per essere stata riportata alla luce dagli ultimi due interventi di Tremonti. Il primo è quello alla festa di Comunione e Liberazione di Rimini di fine agosto. Un discorso eccezionale e coraggioso, quello del ministro dell’economia, interprete di una diffusa tradizione della “destra sociale”: sia per quel riferimento alla compartecipazione dei lavoratori agli utili aziendali – che comunque simboleggia il nodo strategico della possibile alleanza fra ceti produttivi: per inciso, tema-slogan già caro, sia pure con altre configurazioni, al vecchio PCI di Togliatti – sia per il giudizio netto sulla differenza fra la politica di Roosevelt post-29 – un debito pubblico, ha detto Tremonti, per dar soldi e lavoro al popolo [1]– e quella dei loro falsi imitatori odierni:  un debito pubblico per sanare e ingrassare le banche, le principali responsabili della crisi planetaria odierna. Una verità, ha aggiunto il ministro, che ”non ve la raccontano i banchieri, quelli che frequentano il sinedrio” .

Solo belle parole? Non si direbbe: non solo perché altre parole di Tremonti, quelle al G8 de L’Aquila sul “colpo di manovella”, hanno avuto un seguito concreto, cioè a dire la violazione di una parte almeno dei “segreti bancari” dei paradisi fiscali Svizzera compresa, ma anche perché anche nelle sue ultime esternazioni al G20 del 6 settembre – dunque non in un incontro culturale, ma in una sede intergovernativa dotata di potenziale decisionalità politica – il ministro dell’economia del centrodestra è tornato ad attaccare le banche, accusate sia di fare poco per la fuoriuscita dalla crisi nonostante i grandi benefici di cui hanno goduto, sia di pretendere di comandare sui Governi e sulla Politica.  Parole forti, tanto da suscitare critiche nel’area governativa, almeno a giudicare dagli articoli di Forte e Pomicino su il Giornale del 7 e 8 settembre: perché il centrosinistra le ignora, perché non rilancia la sfida invocandone il passaggio ai fatti e incalzando così il governo? Parlate dell’esempio Roosevelt? E allora perché non operate di conseguenza? Perché l’opposizione non incalza costruttivamente il governo su questo terreno cruciale per la giustizia sociale e il benessere dei cittadini a reddito fisso?

La risposta à per me abbastanza semplice: non solo perché in questi tempi di scontro frontale eterodiretto la leadership del centro sinistra non vuole dare spazio ad critiche costruttive, ma anche perché  il capitale finanziario e tutto quel che ruota attorno ad esso è tradizionalmente al di fuori delle competenze intellettive e dei programmi della sinistra: resta una zona d’ombra, un tema “di destra”, un argomento tabù, tale o per convenienza “tattica” – in Italia ad esempio i legami col carro mediatico di De Benedetti, la tessera numero 1 del PD – o, e questo vale soprattutto per i “rivoluzionari”, per una radicata tradizione marxista che si pretende ortodossa e per la quale il capitale finanziario sarebbe (udite udite!) un capitale assolutamente marginale e subalterno rispetto a quello “vero”, che è quello industriale, perché solo nel “processo produttivo” l “astratto” e “inesistente” [2] capitale-gruzzolo si “invera” e diventa tale sfruttando il pluslavoro operaio. Come si legge ne Il Capitale: “il capitale esiste come capitale, nel movimento reale, non nel processo di circolazione ma soltanto nel processo di produzione, nel processo di sfruttamento della forza-lavoro”. Come dire, George Soros, i grandi finanzieri come lui e le grandi banche non sono veri capitalisti, nei quali individuare una contraddizione se non “principale” comunque forte con la classe dei salariati: la vera e unica controparte del “proletariato” – cioè a dire delle forze produttive  che, entrando in conflitto con i rapporti di produzione, aprono la strada alla “rivoluzione” – sono i capitalisti industriali.

Il Marx astratto de Il Capitale

E’ così? Oso dire, facendo sponda difensiva su Franz Mehring per il quale “il Capitale non è una  Bibbia contenente verità immutabili”, che da una parte questa tesi pecca di astrattezza, e dall’altra che in Marx si ritrovano altre sensibilità e altri approcci alla “sfera della circolazione”, fondate non su quel “metodo logico-deduttivo” che secondo Bohm-Bawerk  lo avrebbe guidato nella stesura de Il Capitale – opera forse non a caso non conclusa da Marx ma da Fredrich Engels, e solo nel 1894 – ma su una lettura “empirica”, tipica di un approccio sociologico-giornalistico. Meno coerente dal punto filosofico-astratto ma più aderente alla realtà. Cioè più scientifica.

Cominciamo dal primo punto. La breve citazione di Marx prima riportata ha delle conseguenze paradossali per quel che riguarda la capacità di incidenza e la funzione storica effettive dei capitalisti mercantili, bancari e finanziari: infatti, poiché dogma vuole che il capitale “vero” sia solo quello produttivo, che cioè il plusvalore abbia una origine solo nella sfera della produzione, ecco che il commerciante – anche il grande commerciante – è una sorta di salariato del capitalista industriale,  un suo “commesso” (sic [3]) incaricato semplicemente di completare e riavviare il cerchio del ciclo produttivo con la vendita della merce e il suo pagamento al produttore [4].

Ed ecco che anche banchieri e  finanzieri – “il capitale per il commercio di denaro” – assumono una funzione solo “tecnica”, completamente subalterna a quella del capitale industriale sia dal punto di vista economico sia da quello storico. Nella quarta sezione del III Libro de Il Capitale, Marx descrive il “capitale per il commercio di denaro” come mera “parte del capitale industriale” che da questo “si stacca” per eseguire “operazioni monetarie per tutta la classe dei capitalisti industriali”: il capitale finanziario è cioè solo “capitale industriale … che esce dal processo di produzione”: esso perciò “rappresenta un costo di circolazione, ma non crea valore” ed è manovrato da una “categoria speciale di agenti o di capitalisti” che agisce “per tutta la classe di capitalisti”.  Nessuna autonomia vera, dunque, nell’imposizione dei tassi bancari e usurari, perché essi sono “incapaci” di profitto autodeterminato e solo partecipano in modo subalterno a quello estorto dai capitalisti industriali ai lavoratori. Il capitale finanziario non è un possibile concorrente e avversario di quello produttivo industriale come alcune volte appare nella realtà storica (vedi la dialettica forte oggi fra imprese e banche), ma una sua articolazione interna, tanto che i suoi protagonisti vengono ridotti ne Il Capitale se non proprio a commessi (come nel caso del capitale mercantile), comunque a suoi “agenti”. Il passaggio cruciale sta nel citato “costo di circolazione” (una banca in effetti ha i suoi costi) ma esso meriterebbe una definizione più precisa: quale “costo”? Quale interesse sul denaro? Chi lo determina? Perché se banchieri e finanzieri sono “agenti” del capitalista industriale questi è talvolta se non spesso in conflitto con essi, quando chiede prestiti per salvare o migliorare la sua azienda?

Il Marx giovane e sociologo-giornalista  de Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850

Si dirà: ma forse l’epoca di Marx era diversa, la rivoluzione industriale avviata già alla fine del XVIII secolo aveva mutato radicalmente i rapporti fra il vecchio capitale mercantile e appunto quello, in crescita esponenziale, dell’industria. E’ proprio così? La marginalizzazione del capitale bancario e finanziario era assolutamente tale ed evidente nell’Ottocento, almeno fino alla morte dell’autore de il Capitale, nel 1883?

Eccoci dunque al secondo corno del problema: in verità, contro il Marx dogmatico de Il Capitale (fino all’incompiutezza dell’opera, “rattoppata” qui e là dal buon Engels) emerge dalla sua vastissima produzione un Marx diverso, giovane, lettore acuto e “immediato” (senza pretese cioè da filosofo della storia) della realtà che lo circondava. Come quello che descrive, una ventina di anni prima della stesura del primo libro della principale opera marxiana (1867), “Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1950”:

“Dopo la rivoluzione di luglio il banchiere liberale Laffitte, accompagnando il suo compare, il duca di Orléans, in trionfo all’Hôtel de Ville, lasciava cadere queste parole: “D’ora innanzi regneranno i banchieri”. Laffitte aveva tradito il segreto della rivoluzione.

Sotto Luigi Filippo non era la borghesia francese che regnava, ma una frazione di essa: banchieri, re della Borsa, re delle ferrovie, proprietari di foreste, e una parte della proprietà fondiaria rappattumata con essi; insomma la cosiddetta aristocrazia della finanza. Era essa che sedeva sul trono, che dettava leggi nelle Camere, che dispensava i posti governativi, dal ministero fino allo spaccio di tabacchi. La borghesia veramente industrial formava una oparte dell’opposizione ufficiale …

….Mentre l’aristocrazia finanziaria dettava le leggi, guidava l’amministrazione dello Stato, disponeva di tutti i pubblici poteri organizzati, dominava la pubblica opinione coi fatti e con la stampa, andava ripetendosi in ogni sfera, dalla Corte al Café-Borgne, l’identica prostituzione, l’identica frode svergognata, l’identica libidine di arricchire non mediante la produzione, ma mediante la rapina dell’altrui ricchezza già creata …

La borghesia industriale vide in pericolo i propri interessi; la piccola borghesia trovavasi urtata nella sua morale, la fantasia popolare si rivoltava. Parigi era inondata di libelli – La Dynastie Rothschild … Les juifs, rois de l’èpoque – nei quali il dominio dell’aristocrazia finanziaria, veniva, con maggiore o minor spirito, denunciato e stigmatizzato[5]

Andiamo dritti alle questioni che suscita questo scritto di Marx, antologia di articoli per la Neue Rheinische Zeitung:

Prima questione, il paradigma marxiano è qui rovesciato rispetto a quello de Il Capitale: ne Il Capitale la contraddizione principale è fra classe operaia e capitalisti industriali, e anzi Marx, come più tardi Hilferding – diversamente da un altro classico della saggistica sull’Imperialismo, Hobson – teorizza in qualche pagina della sua principale opera, una funzione addirittura anticapitalista del capitale finanziario, potenziale artefice della “soppressione del modo di produzione capitalistico nell’ambito dello stesso modo di produzione capitalistico una contraddizione che si distrugge da se stessa, che prima facie si presenta come un semplice momento di transizione  verso una  nuova forma di produzione[6].  Dunque l’ “aristocrazia finanziaria” poteva diventare compagna di strada del progetto rivoluzionario, così come oggi il popperiano George Soros sarebbe il levatore mondiale della rivoluzione: invero non più rossa e proletaria, ma piuttosto globalcapitalista  e arancione o verde. “Rivoluzioni” che non a caso attraggono molto i tragici residui “marxisti” del postbipolarismo in Italia e in Occidente.

Al contrario, nelle Lotte di classe … emerge un Marx giovane,  che non gioca ancora in Borsa come più tardi a Londra: un intellettuale ribelle alla sua tribus di appartenenza (si ricordi la Questione ebraica del 1843), e che – sia pure nella fugace brevità di una cronaca della rivoluzione – vede un’alleanza di fatto fra classi produttrici, operai e industriali, contro la rapace e sanguisuga aristocrazia della finanza franco-cosmopolita con il suo regime autoritario e la sua stampa falsamente “libera” e ingannevole. Questa era la lettura della rivoluzione del 1848 di Marx. Un Marx che faceva del capitale finanziario il protagonista della Politica e della Storia della Francia di Filippo II, e che per questa sua lettura ricorda quel che avrebbe scritto nel 1902 John Atkinson Hobson in uno scritto – Imperialism: a Study – che, nonostante la matrice culturale diversa del suo autore, fa parte anch’esso della tradizione di pensiero marxista:

Questi grandi interessi finanziari … formano il nucleo centrale del capitalismo internazionale. Uniti dai più forti legami organizzativi, sempre nel più stretto contatto l’uno con l’altro e pronti a ogni rapida consultazione, situati nel cuore della capitale economica di ogni Stato, controllati, per quel che riguarda l’Europa, principalmente da uomini di una razza particolare, uomini che hanno dietro di se molti secoli di esperienza finanziaria … Ogni grande atto politico che implica un nuovo flusso di capitali, o una grande fluttuazione nei valori degli investimenti esistenti deve ricevere il benestare e l’aiuto concreto di questo piccolo gruppo di re della finanza … Creare nuovi debiti pubblici, lanciare nuove società, provocare costantemente notevoli fluttuazioni del valore dei titoli sono tre condizioni necessarie per svolgere la loro profittevole attività.

Ciascuna di queste condizioni li spinge verso la politica, e li getta dalla parte dell’imperialismo … Non c’è guerra, rivoluzione, assassinio anarchico, o qualsiasi altro fatto che impressiona l’opinione pubblica, che non sia utile per questi uomini; sono arpie che succhiano i loro guadagni da ogni nuova spesa forzosa e da ogni improvviso disturbo del credito pubblico[7]

Di queste riflessioni però, nell’area “marxista” postbipolare rimane pressoché nulla. I “marxisti” di oggi pensano solo ad aiutare Repubblica a rovesciare con un colpo di stato mediatico-giudiziario Berlusconi, una sorta di Tengentopoli bis in soccorso dei “compagni” banchieri e finanzieri. Non è fenomeno di oggi: quando fu fondata Liberazione caporedattore fu nominato Francesco Fargione il quale sul neo-quotidiano del PRC, un giorno sì e l’altro pure, sparava a zero contro Andreotti e inneggiava a Di Pietro, a sua volta lanciato da Repubblica come il salvatore della patria. Riflettere e far riflettere perciò su Tangentopoli – su Craxi in Tunisia e Andreotti sotto processo per motivi essenzialmente politici: Sigonella – era impossibile: ci sarebbero voluti dirigenti capaci di sganciarsi dal ricatto dei rubli dell’URSS al PCI, per cercare di fare delle pur solo accennate riflessioni di Libertini su Tangentopoli, appunto, la linea del Partito: un fatto, i rubli al principale partito comunista dell’Occidente, di una banalità e normalità sconvolgente, come i dollari della CIA alla DC ammessi  da Cossiga.

Ma torniamo alla questione del capitale finanziario: nel 1996 scrissi un intervento su L’Ernesto uno dei cui paragrafi, dedicato appunto a questo problema (avevo un paio di anni prima partecipato a un convegno all’Università di Teramo, in occasione del centenario del III Libro: 1994, con una relazione su “Il III Libro alla verifica empirica della storia” [8]) proponeva la questione oggi cruciale degli statarelli e dei paradisi fiscali: “Chi mai oserà violare le “indipendenze” delle Bahamas e del Liechtenstein, per difendere il potere d’acquisto dei redditi fissi di operai e impiegati?[9]. Ora la risposta ce l’ho: non certo i rifondaroli e la loro variegata diaspora post 1998 ma semmai – se la ricognizione dei “paradisi fiscali” dovesse diventare una costante, e se tutte le parole dette si trasformeranno in fatti – Tremonti e … il G8-G20, che hanno posto il problema di regole da imporre alla globalizzazione finanziaria, e del necessario primato dei Governi – cioè della Politica – sulle Banche e sul capitale finanziario transnazionale. Senza il quale i fondamenti della democrazia, cioè del governo del popolo, sono minacciati in tutto il mondo.

E’ vero, dietro tutto questo potrebbero esserci solo esigenze di imbellettamento dei “potenti” della Terra di fronte agli effetti della crisi economica mondiale. Ma potrebbe esserci anche dell’altro: ad esempio l’esperienza diffusa di una Politica che ha perso ogni autonomia a fronte del ricatto dei sempre più potenti mass media, i quali eccezioni a parte, e in particolare nella loro versione “progressista”, sono un articolazione fondamentale del potere del capitale finanziario; e ci potrebbe essere, in tempi recentissimi, la colossale truffa di Madoff ai danni del mondo intero correligionari compresi. Dove è finito il malloppo? Chi utilizzerà quella enorme montagna di denaro, e per quali scopi, per quali fini politici? James Petras ha ipotizzato una interpretazione iperbuonista per la megatruffa, uno retroscenario “antifalchi” israeliani, se non direttamente filo palestinese [10]. Ipotesi contro ipotesi, in attesa di eventuali ma probabilmente impossibili risultati dell’inchiesta, possiamo avanzarne un’ altra: un evento di tale portata non potrebbe comunque allarmare tutto il ceto politico planetaria, tutti gli Stati sovrani, al potere dei quali già agli inizi degli anni Novanta veniva equiparato, dal sottosegretario americano Strobe Talbott, il finanziere George Soros [11]? Un ceto

La risposta a questo interrogativo ci porta dritti alla seconda questione che suscita il testo marxistically uncorrect su Le lotte di classe in Francia.

Se si applicasse la “lente di Marx” (del 1848) alla fase postbipolare in Italia e nel mondo …

Seconda questione, dunque: il valore euristico del paradigma de Le lotte di classe in Francia per la comprensione della storia, la storia attuale. Lasciamo infatti perdere l’Ottocento nel corso del quale comunque, anche prima della svolta di fine secolo tratteggiata da Engels nella prefazione al III Libro de Il Capitale da lui “corretto” e pubblicato nel 1894, “pare” che il capitale finanziario e bancario abbia avuto un ruolo determinante in eventi e fenomeni cruciali dell’epoca: la sconfitta di Napoleone, la conquista dell’Algeria del 1830, la costruzione del Canale di Suez con la sua funzione geopolitica  centrale per tutta l’ “età dell’imperialismo”; l’acquisto delle azioni del Canale, grazie a un prestito dei Rothchilds alla Corona inglese, mediatore Disraeli, al khedivé d’Egitto; il meccanismo dell’indebitamento finanziario come chiave principale di intervento del colonialismo europeo anche nel resto del Nordafrica; lo scramble for Africa; e per finire la conquista della Libia con l’intervento del Banco di Roma.

Lasciamo perdere tutto questo: proviamo invece ad applicare il Marx del 1848 a fatti, problemi, fenomeni degli ultimi vent’anni. La prima domanda è: chi determina oggi gli eventi cruciali del pianeta?  Quale capitale pretende di fare e in buona parte fa la Storia all’alba del nuovo secolo? Quale capitale è protagonista delle terribili guerre che hanno assassinato la Jugoslavia e l‘Iraq? La risposta dei maghi zurlì dell’ economia “marxista” è che capitale finanziario, bancario e industriale sono fusi in un unicum inscindibile, alibi per disinteressarsi (e restare al servizio sia pure indiretto) del capitale finanziario  e bancario: e se i fatti (il conflitto in Confindustria, lo scontro Berlusconi- De Benedetti [12], la dialettica banche piccola e media industria, il controllo finanziario di molti paesi ex socialisti) dimostrano il contrario, gli stessi fatti vengono trasformati con un colpo di bacchetta magica in “parole”, o in contraddizione secondaria del “blocco borghese”, o  in semplice “vetrina”, come da battuta militante bernocchiano alla manifestazione contro il G8 aquilano: “er Gi-otto è ‘na vetrina, volemo vedé le case”.

Però i fatti restano i fatti. La constatazione è duplice: primo, è proprio il capitale-gruzzolo, il capitale che nasce e si sviluppa nel cielo della speculazione, che è cioè massa di denaro liquido enorme e libera proprio perché non costretta a essere impiegata nei macchinari e nel salari della “sfera della produzione”: è proprio questo capitale marginalizzato da Marx nel III Libro, ad avere la possibilità di determinare gli eventi cruciali della storia del mondo. Un esempio fra i tanti: Gore Vidal ha raccontato quel che gli aveva detto una volta Kennedy, e cioè che il suo predecessore Truman, si convinse a riconoscere il neonato Stato di Israele quando, “candidato alle elezioni presidenziali” e “praticamente abbandonato da tutti”, un “sionista americano” si era presentato da lui con una valigetta contenente due milioni di dollari in contanti. Non si può dire che quella valigetta – come quelle dispensate a re e principi in età moderna [13]– non abbia determinato un’evento chiave per la storia non solo del popolo ebraico, ma dell’intera regione mediterranea e mediorientale [14]. Quanti capitalisti industriali disponevano all’epoca, in modo totalmente libero da gravami produttivi, un capitale così ingente?

Secondo, è questo specifico capitale che oggi – in un’epoca storica in cui si è enormemente accresciuto – sta costruendo una rete di dominio mondiale dagli effetti preoccupanti: esso può fomentare e finanziare guerre e destabilizzazioni degli Stati sovrani sotto forma di sostegno alle rivoluzioni verdi e arancioni (Soros), o alle guerriglie di manovalanza islamica ma di progetto altro in Kosovo (Soros), Cecenia (Berezowsky), Bosnia (ancora Soros). E’ capace di finanziare persino la “giustizia internazionale”, come nel caso del Tribunale per il Ruanda la cui Procura (l’accusa cioè) gode di contributi sostanziosi della Fondazione Rockfeller e (di nuovo) di George Soros. Può anche lanciarsi in imprese rischiose e spesso in perdita dal punto di vista puramente economico, ma che hanno un ritorno utile in termini di dominio ideologico e geopolitico: vedi le grandi catene multimediali che all’occorrenza possono scatenare campagne contro la Russia di Putin, l’Iran di Ahmedimnejad, la Libia di Gheddafi e persino – nonostante la radicale, plateale, differenza del quarto esempio – contro l’Italia di Berlusconi. Giornali e reti televisive che inventano genocidi in Jugoslavia, Iraq e Sudan e “crimini contro l’umanità” a Lampedusa. Mass media che diffondono il “pensiero unico” sulle guerre che insanguinano il pianeta, con i movimenti di liberazione nazionali territorializzati e nati per contrastare una occupazione straniera, ridotti a “terrorismo”; e con il terrorismo transnazionale del finanziere Bin Laden equiparato alle guerriglie irachena, libanese, palestinese. Produzioni cinematografiche con film-patacca ma di effetto sicuro, assai più di cento libri dotti e mille editoriali: come quelli anticristiani con le Madonne escort, o col Codice da Vinci che fa della chiesa e non della classica sinagoga il luogo principe del “complotto”; quelli antislamici e antiarabi  tipo Indiana Jones, quelli anti italiani, con i nostri connazionali tutti mafiosi scemi e delinquenti. O quel prodotto mirato contro l’Argentina – un paese annientato anni fa da una crisi finanziaria “manovrata” – che è Evita: dove la donna ammirata e amata dai descamisados di Baires è stata ridotta dal diffamatore di turno a una prostituta, tanto per affossare nella vergogna un grande leader nazionalista e populista come Peron.

C’è poi, forse, il fenomeno emergente del’interesse per il calcio: potrà il finanziere cattolico romano Perez, che ha acquistato per il Real Madrid i supergrandi del calcio mondiale pagandoli con cifre iperboliche, mentre molte altre società vivono gli effetti della crisi economica mondiale, utilizzare la squadra spagnola per eccellenza a fini non solo di incassi ma anche “politici”? Un passato politico lo ha, e le centinaia di milioni di euro che utilizza sembrano non essere di provenienza solo personale. Dunque quale progetto?

E passando ad altra squadra, quale significato attribuire agli assalti periodici di Soros alla Roma? E’ solo uno “sfizio” personale dello straricco magnate, di guidare una ottima squadra di calcio, o anche il desiderio di acquistare quella squadra, nel cuore della Roma cristiana? L’interrogativo probabilmente è eccessivo: è certo comunque che il filantropo Soros fa sempre investimenti “politico-ideologici”, così come è certo che oggi il calcio è diventato, nel bene e nel male, il vettore ideologico di alcune grandi e cruciali tematiche dei nostri tempi: razzismo e antirazzismo ad esempio, con i loro impropri e continui scivolamenti in campi altri, in cui l’antirazzismo è alibi per parlare di tutt’altro e per diffamare religioni, ideologie e politiche diverse dalla propria.

Le attività “ludiche”  “culturali” non sono secondarie rispetto al discorso sull’imperialismo e sulla capacità di “determinare” la storia:  per spianare la strada alle guerre neocoloniali – come nell’Ottocento col jingoismo – occorrono “opinioni pubbliche” ben educate: è stata la campagna della grande stampa americana (la stessa che oggi “complotta” contro Ahmedinejad e Berlusconi) contro la debolezza dell’ “imbelle” Bush jr, a trascinare quest’ultimo – inizialmente, dopo l’11 settembre, molto titubante – nelle guerre in Afghanistan e in Iraq con la scusa di combattere “Bin Laden”. Già Hobson ricordava il ruolo determinante della stampa nel  provocare le guerre della sua epoca, la classica età dell’imperialismo secondo titolo di un libro di Fieldhouse. Ma agli inizi del ‘900 i quotidiani erano fogli per piccole élités: oggi ci sono tutte le tecnologie della multimedialità, grande strumento di liberazione e comunicazione ma anche di propaganda e di omologazione al “pensiero unico” sull’Islam e sulla “democrazia”.

Le riforme economiche e sociali del centrosinistra  post-tangentopoli: ma che sinistra è?

La “sinistra finanziaria”, a costo del suo snaturamento [15], non “vede” o non vuole vedere questa dimensione del conflitto economico in Italia e nel mondo, l’importanza cioè del problema banche e finanza negli equilibri sociali e di reddito anche per i lavoratori salariati e stipendiati: i moderati perché subalterni nei fatti alla catena mediatica di Repubblica. Fu il centrosinistra a privatizzare definitivamente il 17 maggio 1999 la Banca d’Italia, il cui capitale è – udite udite! – all’84 per cento in mano a privati.

Quanto ai “marxisti” essi non ne parlano in parte per lo stesso motivo, in parte anche per presunta ortodossia (vedi quanto detto in precedenza), e per paura di confondersi con la destra. Non è la destra, o una parte della destra, che protesta – dalle posizioni moderate a quelle radicali del mio ex collega a Teramo Giacinto Auriti – contro l’assurdità di una moneta nazionale che viene emessa da una Banca “nazionale” in mano ai privati e che costituirebbe di per sé un “signoraggio”, vale a dire un prelievo abusivo di ricchezza dai cittadini attraverso l’emissione di cartamoneta?

Tanto non vedono i marxisti la sfera autonoma della finanza nella dialettica intracapitalistica, che quando parlano dell’alleanza Putin-Berlusconi o diventano emuli di Bernard Henry Levy – uno del solito giro che odia oltre a Berlusconi anche Putin, Ahmedinejad, Hamas, Hezbollah: fra un po’ anche Obama … – oppure la spiegano in modo ridicolo, l’alleanza, in termini di pacche sulle spalle fra due amiconi che si stanno simpatici. Veramente disastrosi questi presunti “materialisti dialettici”: prima cancellano con la bacchetta magica della loro superficialità la realtà del conflitto in Russia fra Putin e la  famiglia finanziaria di Eltsin – quella che infiammava i cuori dei Bernard Henry Levi di tutto il mondo e che si è infranta contro la dignitosa e legittima reazione di Putin (tutti arrestati o esuli, i ricchi finanzieri, e i loro imperi rubati al popolo ricondotti sotto il sostanziale controllo dello Stato) – poi nascondono anche quella del vero conflitto in Italia fra Berlusconi e i suoi nemici falsi progressisti; poi ancora evitano di analizzare la convergenza geopolitica (vedi il viaggio improvviso di Berlusconi ad Ankara, a parlare dell’oleodotto South Stream) dei due leaders: infine concludono con la pietosa barzelletta della pacche sulle spalle. A quale miseria si è ridotto certo marxleninismo del Terzo millennio! [16]

Ma di questo si à già abbondantemente detto. Resta la seconda considerazione iniziale per cercare di capire dove sta la destra e la sinistra oggi in Italia, e cioè le riforme economiche e sociali dagli anni Novanta ad oggi. Ci vorrebbe ancora molto spazio per una analisi  completa: ma si può dire telegraficamente, credo, che non c’è stata controriforma a danno del mondo del lavoro, dell’occupazione e della lotta al precariato, della sicurezza nei luoghi di lavoro, delle privatizzazioni che non porti l’imprimatur del centrosinistra post-bipolare e post-comunista. Lo jus primae noctis della mattanza della classe operaia italiana e del mondo del lavoro dipendente è stato esercitato, di tappa in tappa, dai vari don Rodrigo del centrosinistra. Il centrodestra è venuto dopo, o solo per razionalizzare svarioni e dimenticanze dell’avversario (vedi la trasformazione dell’ANAS in Spa, o la legge Biagi del 2003), o per capitalizzarne i “vantaggi”, oppure, invece, per fare una politica paradossalmente più avanzata di quella dell’odierna opposizione: come da articolo di Tremonti citato poco fa in nota.

Fa in effetti sorridere vedere Franceschini in mezzo ai precari della scuola, quando si pensa che nel 1993 era stato il governo Amato a privatizzare l’impiego pubblico e nel 1997 il governo Prodi e il suo ministro Treu  a codificare il “lavoro interinale”. Rende perplessi l’ “indignazione” “eroica” di certi tromboni a senso unico della cultura “progressista” contro Berlusconi, quando si pensa che non hanno fatto nulla  quando nel 1997-1998 il governo Prodi prima e quello D’Alema poi privatizzarono a raffica non solo la Biennale di Venezia e il Centro Sperimentale di Cinematografia, ma decine e decine di istituti storici, culturali, linguistici. Solo Berlusconi è l’ostacolo per la cultura chic dell’Italia “progressista”? Nel 1997 è mancato loro il là di un appello redatto dal loro giornale-partito? Non sanno pensare da soli?

La cronologia secca delle leggi, decreti legge e decreti legislativi mostra con ogni evidenza che è stata la sinistra finanziaria a distruggere in pochi anni il patrimonio costruito in decenni di lotte parlamentari e di piazza della sinistra, nel quale peraltro (vedi il caso dell’Agip e della Banca d’Italia) erano stati opportunamente conservate alcune misure e istituti di epoca fascista: 2 giugno 1992, è nato da poco il governo Amato, incontro sul panfilo reale Britannia fra finanzieri, banchieri e managers italiani inglesi e di altri paesi europei, per delineare la strategia delle privatizzazioni delle economie europee; 18 luglio (ancora governo Amato) un DPR codifica definitivamente l’autonomia del Governatore della Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro, che non può intervenire per co-definire il tasso di sconto; 31 luglio, il golpe notturno delle privatizzazioni degli Enti pubblici, dopo la campagna della Repubblica contro i “boiardi”, dove assieme all’acqua sporca degli enti parassitari si svendono anche gioielli dell’industria: ENEL e ENI, IRI. 8 agosto, è la volta delle Ferrovie, anch’esse trasformate in società per azioni.

Febbraio 1993, tocca ai Monopoli di Stato. Sempre nel 1993, il nuovo governo Ciampi dispone la separazione di Agip e Snam dall’ENI spa e la dismissione delle partecipazioni del Tesoro dall’Agip, Ina, Enel, e dalle banche IMI, Commerciale e Credito italiano. 1997, le già ricordate privatizzazioni di enti culturali da parte di Prodi, e il pacchetto Treu sul lavoro interinale con la legge 196 del 24 giugno.

1999, prima l’accordo sull’euro ad un tasso di cambio che si rivelerà disastroso per i redditi fissi, a causa del dimezzamento di fatto di stipendi e salari. Poi un secondo provvedimento cruciale: poi, il 17 maggio il governo D’Alema permette anche alle fondazioni bancarie di diventare azioniste della Banca d’Italia, che si trasforma così completamente in un ente di fatto privatistico, i cui azionisti saranno occultati all’opinione pubblica fino a che una inchiesta di Famiglia cristiana del 2004, non svela gli altarini: più dell’84 per cento del capitale della Banca “di stato” è in mano a privati! La filosofia che sta dietro questo smantellamento della peraltro moderata strutturazione del sistema bancario italiano, oggetto di campagne durissime da parte della stampa della sinistra finanziaria – vedi l’assalto del Corriere di Mieli al cattolico Fazio nel 2005, mentre stava per andare in porto una legge destinata a riportare in mano pubblica il capitale della BdI – è la solita solfa dell’ “autonomia”. E’ lo stesso leitmotiv utilizzato per la riforma Berlinguer dell’Università (altra perla del centrosinistra, a cui Moratti e Gelmini hanno portato qualche miglioramento in positivo): anche l’ “autonomia” degli Atenei è solo presunta, ed è un modo per “liberare” l’autorità e il bilancio centrale dello Stato dal costituzionale obbligo del finanziamento dell’Istruzione pubblica, abbandonando le Università o al degrado e al declino, o alla sottomissione al capitale privato e a gruppi di potere più o meno massonici. Il tutto  mentre la vera autonomia degli Atenei – intesa come autonomia del corpo docente e dei propri organi di rappresentanza collegiale – rischia di venire cancellata progressivamente.

Dimentico probabilmente qualche capitolo, ma credo che questi siano già sufficienti. Rispetto alla deriva liberista e antioperaia di tutti i governi del centrosinistra dagli anni Novanta ad oggi, Berlusconi e il centrodestra o hanno ereditato i “frutti” per loro più comoda gestione magari evitando di prendere  necessari provvedimenti (come il blocco-controllo dei prezzi dopo il disastroso cambio dell’euro ad opera di Prodi) oppure hanno cercato di porre qualche piccolo o meno piccolo rimedio a vantaggio del mondo del lavoro e dei cittadini. Si sarebbe potuto, e si potrebbe distinguere di volta in volta fra problema o problema, opponendosi o sostenendo questa o quella  proposta: ma asservita alla potente catena mediatica “progressista”, la “sinistra finanziaria” è incapace di tutto questo. Cerca solo lo scontro frontale, nato sul nulla, cioè sulla vicenda delle escort, in un momento in cui il governo stava mostrando le sue effettive capacità di risolvere alcuni problemi chiave del paese, dall’immondizia a Napoli al terremoto d’Abruzzo.

Anche le frange più radicali della sinistra finanziaria hanno imboccato questa strada: anzi soprattutto le frange più radicali, che sublimano nel mito assurdo di un nuovo luglio 60 la riscossa mancata di chissà quale “proletariato”.

Tranquilli, compagni: posto che fosse prossimo qualcosa che possa assomigliare al luglio 60 (cosa assai improbabile) esso non avrebbe alle spalle il PCI di Togliatti e il PSI di Nenni, né avrebbe come sbocco le nazionalizzazioni del centrosinistra DC-PSI di mezzo secolo fa. Alle spalle della vostra “rivoluzione” ci sarebbe il capitalista De Benedetti: con le sue profezie recenti sulle “spese proletarie” nei supermarket, con i suoi passati licenziamenti all’Olivetti, 2-3000 operai in un sol colpo, e con la vicenda SME emblema della svendita del patrimonio pubblico al capitale privato. Alle spalle questo, e in prospettiva nessuna, nessunissima rivoluzione ma l’esatto opposto: il secondo colpo di stato nella storia della Repubblica dopo quello di Tangentopoli, e dopo quelli falliti, dello stesso sostanziale segno quanto a politica sociale e economica, degli anni Sessanta e Settanta. La prima Tangentopoli è stata esaltata dalla sinistra estrema (tranne piccole, marginali, inutili eccezioni) poi è arrivata la riflessione e il quasi pentimento vista la macchina delle privatizzazioni e del maggioritario messe in moto dalla “rivoluzione” dipietrista. Adesso si ricomincia, tutti appresso alle dieci domande. Perché non fermarsi un attimo, riflettere, cambiare rotta?

www.claudiomoffa.it


[1] Crisi: Tremonti, diverso se debito cresce per salvare gente o banche (ASCA) – Rimini, 28 agosto 2009

[2] Articolo de il manifesto

[3] Per Marx  il “capitale commerciale” ha la funzione di “semplice commesso del produttore” (Libro III, I, p. 329)

[4] “… nel processo di circolazione non viene creato alcun valore, quindi alcun plusvalore … Se in conseguenza della vendita della merce prodotta viene realizzato un plusvalore, ciò avviene perché tale plusvalore si trovava già fin da prima in essa contenuto” (Ivi, p. 339).

[5] Su internet si trova il testo completo de Le lotte di classe… sul sito http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1850/lottecf

[6] Carlo Marx, Il Capitale, III, 2, 27, p. 125, Editori Riuniti, Roma.

[7] J. A. Hobson, L’imperialismo, Newton Compton, Roma.

[8] Leggi il testo della relazione nel link sul sito

[9] Claudio Moffa, Quale identità comunista?, L’Ernesto, pp. 15-16 (vedi il link sul sito), IV, n. 8,  ottobre 1996.

[10] James Petras

[11] La Casa Bianca su Soros: “conta come uno Stato”, il Corriere della Sera 19 gennaio 1995: “Lavorare con Soros è come lavorare con un’entità amica, alleata indipendente, se non con uno Stato – dice Strobe Talbotto, sottosegretario di Stato americano, il numero due della politica estera di Clinton – Noi cerchiamo di sincronizzare il nostro approccio ai Paesi ex comunisti con la Germania, la Francia, la Gran Bretagna. E con George Soros

[12] Uno scontro del quale un trafiletto di una quindicina d’anni fa su La Stampa, p. 2, da un significato simbolico per due concezioni (radicalmente?) diverse del capitalismo e del connesso “rischio imprenditoriali”. Nella battuta Berlusconi criticava il far profitti passando i soldi “da una cassaforte a un’altra”.

[13] Non solo Werner Sombart ma anche Fernand Braudel ha ricordato il ruolo cruciale delle comunità mercantili e bancarie in epoca preindustriale

[14] Israel Shaak, Storia Ebraica e Giudaismo: il peso di tre millenni, Prefazione di Gore Vidal, Sodalitium, Torino (prefazione)

[15] Giulio Tremonti, L’ imposta progressiva? un mito ” reazionario”. Ora i tributi ” indiretti ” sono diventati di sinistra e i ” diretti ” di destra. necessario il passaggio dalle tasse sulle persone a quelle sulle cose, Corriere della Sera, 26 aprile 1994

[16] Dopo aver scritto queste righe polemiche sul “marxleninismo” attiale, leggo un articolo di Leonardo Mazzei del Campo antimperialista sulla competizione economica e geopolitica fra gli oleodotti South Stream e Nabucco, che si conclude con il riconoscimento della serietà della contraddizione e delle scelte (obbligate?) del governo Berlusconi ad Ankara, e dunque con la sconfessione di quella che lui stesso definisce interpretazione gossipara della vicenda: vale a dire, udite udite, uno scambio fra “bionde” russe e South Stream, con Putin che incassa l’opzione pro-Gazprom e il Berlusca che fa il pieno di escort per le sue ville. E’ veramente pazzesco! Lo spazio che Mazzei dedica a questa ipotesi “interpretativa” potrebbe indicare un mio eccessivo pessimismo sullo stato di salute della sinistra marxisteggiante in Italia, e invece ne è la conferma: un’area fino in fondo succube del giornale-serva del progressismo italiano. Perché, se Mazzei deve dedicare tanto spazio a questa ridicola bufala (come se, peraltro, nei paesi attraversati dal Nabucco non ci fossero escort da esportazione altrettanto attraenti delle “bionde russe”) per convincere il suo pubblico, vuol dire proprio che questo è completamente rimbambito,  diseducato al raziocinio e alla serietà politica da quindici anni di qualunquismo antiberlusconiano. (L. Mazzei, I tubi di Putin, letto su Arianna editrice – fonte Campo antiimperialista).

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Attentato Kabul: generale Mini, “Strategia Nato fallimentare”

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ROMA – Il generale Fabio Mini ha commentato la situazione attuale in Afghanistan e ha affermato che: “In Afghanistan non e’ necessaria tanto una exit strategy, quanto una new strategy, perche’ la strategia della Nato e’ oscura e comunque si e’ rivelata fallimentare”.

La situazione nel Paese, secondo Mini, ”e’ peggiorata in modo esponenziale a partire dal 2005 quando la Nato ha voluto assumere la responsabilità della sicurezza di tutto il paese con le stesse forze che aveva prima, quando doveva badare solo alla sicurezza di Kabul. Il successivo errore – continua il generale – è stato quello di sovrapporre le proprie azioni a quelle americane di enduring freedom, puramente di guerra. Una strategia che si e’ rivelata francamente fallimentare”. (RCD)

17 Settembre 2009 17:16

http://www.corriere.it/

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Elezioni iraniane: la tesi dei brogli al vaglio

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Alcuni candidati sconfitti alle elezioni presidenziali iraniane hanno denunciato brogli sistematici che avrebbero rovesciato i reali risultati; questa tesi è stata accettata in maniera largamente acritica da gran parte dei media occidentali. In realtà, gli argomenti che la sostengono non sono solidi. Il vantaggio del candidato vincitore sul secondo classificato è enorme e non risultano prove di brogli massicci nei seggi. L’ipotesi che i risultati siano stati riscritti a tavolino in sede di conteggio centrale pare smentita dal riconteggio parziale dei voti. I risultati ufficiali sono verosimili e dunque credibili: essi sono in linea con quelli delle precedenti elezioni e con quanto previsto dai sondaggi. I sospetti avanzati si fondano per lo più su metodologie dubbie o errate e su pregiudizi svincolati dalla realtà fattuale.

Titolo: Elezioni iraniane: la tesi dei brogli al vaglio
Autore: Daniele Scalea
Numero rapporto: 1
Data di pubblicazione: 19 settembre 2009
Leggi il Rapportopdf (2 MB)

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I 60 anni della Repubblica Popolare Cinese

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La Cina si dichiara ‘pronta a lavorare’ con il nuovo Governo del Giappone, guidato dal Partito Democratico di Yukio Hatoyama. “Siamo pronti a lavorare con il Giappone per rafforzare la nostra cooperazione bilaterale e mantenere il ritmo ad alto livello degli scambi… contribuendo congiuntamente alla pace e allo sviluppo nell’Asia“, ha detto ai giornalisti la portavoce del ministero degli Esteri, Jiang Yu.

In un articolo pubblicato sul New York Times, è stata messa in evidenza la veloce ascesa della Cina come potenza economica e ci si è chiesto se ciò porterà alla creazione di una comunità asiatica con una moneta comune, sul modello dell’Unione europea. I due paesi hanno lavorato sodo per ridurre le tensioni derivanti in gran parte dalla brutale occupazione Giapponese della Cina durante la II guerra mondiale.  Definendo il Giappone e la Cina “vicini importanti” e “grandi paesi” dell’Asia, il portavoce del ministero degli Esteri cinese ha notato: “Crediamo che il Giappone dovrebbe trattare le questioni storiche in maniera responsabile, è nel suo interesse e favorirà a migliorare le relazioni con gli altri paesi asiatici“.

Cina e Canada affrontano il problema della sicurezza energetica petrolifera, con la PetroChina che investe 1,9 miliardi dollari nelle sabbie petrolifere dell’Alberta, in Canada. Secondo l’accordo annunciato dalla Athabasca Oil Sands Corp. la PetroChina acquisirà una quota del 60 per cento nel suo progetto per le sabbie bituminose dei fiumi MacKay e Dover. E’ la più grande operazione della Cina per le sabbie bituminose canadesi, fino ad oggi. I progetti riguardano circa 5 miliardi di barili di bitume ancora da sviluppare, parte dei quasi 10 miliardi di barili di riserve di bitume dell’Athabasca, che a sua volta continuerà a gestire entrambi i progetti, dal costo di 15/20 miliardi di dollari. Il flusso di petrolio potrebbe essere, dal 2014, inizialmente di 35.000 barili al giorno e successivamente di 150.000 barili al giorno.

L’accordo PetroChina-Athabasca, dovrebbe essere chiuso il 31 ottobre, rafforzando gli investimenti nell’Alberta, che ha subito il taglio di 100 miliardi di dollari nei progetti minerari della sabbia petrolifera, rispetto allo scorso anno.

Le Sabbie bituminose canadesi rappresentano la seconda riserva di petrolio più grande del mondo. “Data la vastità delle sabbie petrolifere del canadesi, la zona non può essere ignorata dalla Cina“, ha detto gli analisti Lanny Pendill e Edward Jones del Calgary Herald. Ma Carolyn Bartholomew, presidente della US-China Economic and Security Review Commission, ammonisce sulla crescente presenza cinese nel “cortile” dell’America. Ha detto che la PetroChina di proprietà statale è un elemento del governo comunista di Pechino e respinge l’idea che possa operare come una qualsiasi altra società petrolifera commerciale. “Penso che un acquisto come questo, dovrebbe sollevare la questione della sicurezza nazionale, sia per il governo del Canada che per il governo degli Stati Uniti“, chiedendo una profonda revisione da parte di Ottawa.

Tuttavia, l’ex ambasciatore degli Stati Uniti in Canada, Gordon Giffin, ha detto che non si aspetta che l’amministrazione Obama si opponga agli investimenti della PetroChina nelle sabbie bituminose.

Il presidente venezuelano Hugo Chavez ha annunciato un accordo di 16 miliardi di dollari con la Cina per le trivellazioni petrolifere nel bacino dell’Orinoco. “Un accordo è stato firmato a Pechino per il bacino dell’Orinoco. Definisce l’investimento cinese di 16 miliardi di dollari nei prossimi tre anni“, ha detto Chavez durante una manifestazione pubblica. Ha dato pochi dettagli dell’accordo e non ha indicato le società cinesi coinvolte, ma ha detto che formeranno una joint venture con la statale Petroleos de Venezuela (PDVSA) per la produzione di 450.000 barili al giorno di greggio extra pesante.

Il Venezuela, ha anche annunciato di aver firmato un accordo simile con un consorzio russo di cinque aziende, che investirà più di 20 miliardi di dollari nell’arco di tre anni, una joint venture che si prevede produrrà 450.000 barili al giorno entro il 2012.

Il ministro della Difesa cinese Liang Guanglie ha concluso una visita di due giorni in Serbia, e le due parti si sono ripromesse di rafforzare la loro cooperazione militare. Il presidente serbo Boris Tadic ha dichiarato dopo l’incontro con Liang a Belgrado, che “sostiene l’intensificazione della cooperazione militare e di polizia tra i due paesi“. Il primo ministro Mirko Cvetkovic ha anche elogiato “il livello elevato di cooperazione” tra i due paesi, dicendo che “la cooperazione militare-economica sarà ulteriormente intensificata nei prossimi mesi: attraverso uno scambio di esperienze nelle missioni di pace, la cooperazione tra le industrie della difesa e dell’istruzione del personale militare.”  La visita, la prima di un ministro della difesa cinese in 25 anni, è avvenuta su invito del ministro della Difesa serbo Dragan Sutanovac, che ha detto che “la cooperazione militare rafforzerà ulteriormente i legami bilaterali” tra Pechino e Belgrado.

Sutanovac ha visitato Pechino lo scorso anno e ha firmato un accordo di cooperazione in materia di difesa. Ha poi insistito sul fatto che “vi sono grandi prospettive per l’espansione della cooperazione militare tra i due paesi“. La cooperazione dovrebbe prevedere “la medicina militare, l’addestramento militare, l’economia militare, la scienza militare, così come le operazioni di mantenimento della pace“. I due ministri hanno inoltre discusso delle “sfide ad livello mondiale militare, come il terrorismo, la criminalità organizzata ed altre attività criminali”. “Abbiamo espresso il nostro desiderio comune di cooperare nella lotta contro queste minacce e nello scambio di informazioni“.

La visita di Liang è avvenuta dopo i colloqui di Tadic in Cina, ad agosto, quando i due paesi hanno annunciato la creazione di un partenariato strategico.

Le due nazioni hanno forti legami da quando la Cina ha rifiutato di riconoscere l’indipendenza del Kosovo e Pechino ha offerto sostegno a Belgrado, nella sua battaglia diplomatica contro la mossa occidentale.

Bastano queste poche notizie per far comprendere quanto ampio e molteplice sia l’attività economico-diplomatica della Repubblica Popolare Cinese. Un attività  che si estende sui cinque continenti, come abbiamo visto. La Cina popolare è assurta a grande potenza mondiale nel 1949, quando il 1° ottobre Mao Zedong suggellava la fine della ultratrentennale guerra civile cinese e la centenaria condizione di semi-colonia dell’imperialismo occidentale, iniziata con le guerre dell’oppio del 1839.

Lunga è stata la marcia della Cina nel quadro internazionale, non meno complesse e difficile della Lunga Marcia con cui Mao recuperò le forze popolari e patriottiche, uscite sconfitte dalla repressione della Comune di Shanghai edal fallimento della politica del Partito Comunista Cinese dettata dal Komintern di Zinov’ev e Borodin.

L’URSS e la Cina popolare costituiscono, negli anni ’50, un vero e proprio blocco eurasiatico, un dominio che si estende da Pankow a Pyongyang. Un alleanza tra Mosca e Beijing, tra Stalin e Mao che subisce la sua prima prova nel 1950, quando la Repubblica Popolare Democratica di Korea viene invasa e aggredita dalle truppe e dalle milizie sudcoreane di Syngman Ree, il proconsole statunitense a Seoul. Mao deve inviare 100.000 soldati a sostenere la Korea Popolare. E con l’appoggio dei mezzi sovietici riesce a respingere le truppe ONU, guidate dagli USA tramite il generale McArthur, che aveva espresso l’intenzione non solo di cancellare il governo democratico-popolare di Pyongyang, ma anche l’intenzione di entrare in Manciuria e d’impiegare l’arma atomica. Una occasione mancata rimpianta, perfino oggi, dall’ex segretaria di stato USA, Condoleezza Rice. Ma gli equilibri mondiali erano mutati, e l’URSS, esattamente sessant’anni fa, acquisiva la parità strategica nucleare. Cosa che consentiva a Beijing, e al blocco sovietico, di respingere il tentativo revanscista di Washington.

Con Chrushjov e il gruppo Molotov-Bulganin si avvia un fruttuoso periodo di collaborazione tra Cina popolare e URSS. Vengono avviati gli ampi piani quinquennali per porre le basi della potenza industriale ed economica della Cina attuale. Grazie all’assistenza sovietica, nascono per la prima volta in Cina, i settori industriali elettronico, petrolifero, energetico, aeronautico, meccanico, missilistico e nucleare. Ma le intemperanze di Mao, i quel periodo messo in ombra nel partito, dall’ala tecnocratica di Liu Shaoshi, Deng Xiaoping e del Maresciallo Peng Dehuai, portano al tentativo fallimentare del cosiddetto ‘Grande Balzo in Avanti’, che doveva fare della Cina popolare una potenza pari al Regno Unito. I risultati invece furono disastrosi; la frazione di Liu dovette intervenire direttamente a porre rimedio, me nel frattempo si verifica la rottura ideologia, prima, geopolitica dopo, tra Mosca e Beijing. Grazie, questa volta, alle intemperanze di Chrushjov, che in risposta alle polemiche ideologiche con Mao e Enver Hoxha, decise di ritirare le migliaia di tecnici e consiglieri che stavano aiutando i cinesi a crearsi una economica moderna e una solida base industriale. La mossa moscovita non sarà perdonata dai cinesi fino alla fine degli anni ’90.

Nonostante tutto Beijing porta avanti la sua linea politica, i programmi economici intrapresi. Tanto che il 16 ottobre 1964, Beijing riesce a fare detonare il suo primo ordigno atomico. Ma le tensioni interne, esistenti tra le due frazioni maggioritarie del PCC ed esterne con Mosca (Indonesia) e Washington (Vietnam e Taiwan), portano alla Grande Rivoluzione Culturale Proletaria del 1966-1969, ispirata da Mao e dal gruppo di Jiang Jin, la seconda moglie del ‘Grande Timoniere’.

La rivoluzione sociale (così almeno speravano Mao e il suo nuovo alleato, il Maresciallo Lin Biao), invece di far compiere alla Cina un altro, grandissimo, balzo in avanti, verso il comunismo, la trascinano verso la dissoluzione geografica. Con intere regioni fuori controllo e una guerra civile sempre più palese. Alla fine sarà l’esercito popolare di Lin Biao a soffocare la rivolta delle Guardie Rosse e a reimporre l’autorità del Partito. Ciò non gli impedirà di essere liquidato, con la sua frazione, nel 1971, dal quadro politico cinese, una volta avviata la nuova politica estera di Mao e Zhou Enlai. L’avvicinamento strategico verso gli USA di Nixon, la teoria dei ‘Tre Mondi’ ideata per opporsi alla Dottrina Brezhnev, porta Beijing ad iniziare quel processo di apertura economica, che poi sotto la guida di Deng Xiaoping, subì una forte e netta accelerazione, una volta espulsa la frazione neomaoista nota come ‘Banda dei Quattro’.

I legami con il mondo occidentale si rafforzano e si approfondiscono. Mentre con l’URSS le divergenze e i contrasti si ampliano. Cambogia, Vietnam e Afghanistan, sono i nuovi terreni di contrasto che danneggiano le possibilità di una nuova alleanza geopolitica eurasiatica. L’orbita di Washington attrae sempre più Beijing. E mentre questa attrazione travolge e distrugge l’esperimento gorbacioviano, mette in serio pericolo l’unità cinese. A Beijing, nella primavera del 1989, si attua su larga scala la prima di quelle che saranno note come ‘rivoluzioni colorate’. La piazza Tianmen, la più grande del mondo, che negli anni ’60 si vide invadere da un milione di guardie rosse che osannavano Mao, ora veniva attraversata da folle di studenti e nascente piccola borghesia locale, che inneggiavano alla Statua della Libertà. L’ampia apertura di credito all’occidente stava dando i suoi frutti.

Una volta repressa la rivolta filo-occidentale, il programma di espansione economico-commerciale e di modernizzazione industriale e tecnologica della Cina Popolare, subisce un rallentamento; ma è solo un passo fatto indietro per meglio saltare. Questa volta, a metà degli anni ’90, la Cina di Li Peng e Wen Jiabao inizia a compiere sul serio quel ‘Grande Balzo in Avanti’, tanto agognato da Mao.

La Repubblica Popolare di Cina ha acquisito un innegabile peso strategico mondiale. Ha salvato più di una volta gli USA dal collasso economico-finanziario. Ma contemporaneamente non ha smesso di tessere e rafforzare rapporti con i suoi amici di sempre, i più importanti tra cui sono il Pakistan e l’Iran. Legami che non casualmente le ultime tre amministrazioni statunitensi hanno preso a bersagliare continuamente. Verso Beijing si vuole applicare la vecchia tattica del cordone sanitario già impiegata contro l’URSS. Ma questa volta, la Cina ha dalla sua anche l’arma strategica del parziale controllo dei flussi finanziari e una poderose economia che sta gestendo egregiamente  l’attuale gravissima crisi economica. Beijing sta volgendo verso l’interno l‘indirizzo della sua politica economica. Maggiori investimenti verso i mercati interni, permetteranno alla Cina popolare di sfruttare al meglio il suo surplus finanziario-economico.

E oggi, Beijing ha ritrovato nella Mosca di Putin e Medvedev, l’antico alleato che l’aveva aiutata a fronteggiare l’aggressione nipponica nel 1937 e che negli anni ’50, prima dell’avventata rottura chruscioviana, l’aveva avviata al XX° secolo. Con la nascita del Shanghai Cooperation Organization, costituito il 14 giugno 2001 (e forse profonda ragione scatenante degli eventi dell’11 settembre 2001), si rivitalizzava quell’intesa geopolitica strategica eurasiatica che tanto preoccupava, ieri, il gruppo revanscista di Bush/Cheney, e che oggi allarma il gruppo neowilsoniano riunitosi attorno all’amministrazione statunitense di Barack Obama.

L’alleanza tra Mosca, Beijing, potenze asiatiche centrali, suggellate anche quest’anno dalle imponenti manovre militari estive, è il nucleo centripeto cui convergono decisamente potenze come l’Iran, il Pakistan, la Mongolia, l’Indonesia e l’Asean del Vietnam e della Malaysia forgiata dal dott. Mohammed Mahathir. Solo l’India sembra titubante riguardo questo processo, senza dubbio pesano gli antichi contrasti transfrontalieri con la Cina, riguardo il Kashmir e il Nepal-Tibet. Washington interessatamente alimenta, inoltre, i sospetti e la sfiducia tra New Delhi e Islamabad. Senza tralasciare gli interventi sobillatori filo-atlantisti che si dipanano dal Kosovo al Kurdistan all’Afghanistan, la filiera occidentale dell’eroina che si ricollegherebbe a quella orientale, che dalle regioni del Myanmar, fuori dal controllo del legittimo governo di Yangoon,

si dispiega fino al mercato californiano e messicano. Messico sempre più vittima della narco-guerra civile, possibile epicentro di una futura destabilizzazione dell’America Latina. Un motivo in più per Washington per mantenere un piede in quella staffa.

Ma se è vero che tramite il BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) va formandosi il futuro polo economico mondiale. Allora anche l’Unione Indiana si riavvicinerà al progetto Cino-Russo del Patto di Shanghai. Tanto più che gli USA, dopo aver concesso il supporto tecnologico per l’industria del nucleare civile indiano, hanno già gettato la maschera domandando, delicatamente vista la mole di New Delhi, se potevano accedere anche al complesso delle centrali nucleari interessate al programma strategico indiano. La risposta negativa del Premier  indiano, Manmohan Singh, fa sperare bene per una futura intesa con Beijing, Mosca e con l’amica Tehran, e che di certo deve aver irritato il gruppo neowilsoniano al potere a Washington.

Il processo di costruzione di un mondo finalmente multipolare prosegue, e di certo, la parata del 1 Ottobre prossimo, oltre a festeggiare il sessantennio della Repubblica Popolare di Cina, celebrerà anche un probabile futuro plurale del mondo, che oggi va delineandosi.

Riferimenti

AFP 1 settembre 2009

UPI 2 settembre 2009
AFP 8 settembre 2009
AFP 16 settembre 2009
Alessandro Lattanzio, Catania 19/09/2009

http://www.aurora03.da.ru
http://www.bollettinoaurora.da.ru
http://sitoaurora.narod.ru
http://sitoaurora.altervista.org
http://eurasia.splinder.com

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“Si vis pacem, para bellum”

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L’antica frase romana: si vis pacem, para bellum: chi vuol la pace, guerra apparecchi. È una frase di Flavius Renatus Vegetius, scrittore dell’epoca dell’imperatore Valentiniano II, fine del IV secolo, la quale proviene dal libro De Rei Militaris (Delle cose delle Milizie). Non è una frase aggressiva o un’idea espansionista o imperialista ma, tutto l’opposto, vale a dire, affinché una guerra possa essere evitata o un paese aggredito da un altro, la cosa migliore è stare ben armato per difendersi e non per lottare con le altre nazioni. Poiché si è dell’opinione che chi ha una buona difesa sarà rispettato dalle altre nazioni e non potrà essere aggredito.

Questa espressione si adegua molto bene alla situazione attuale e, specialmente, a quella del dopo 7 settembre 2009 (Giorno dell’Indipendenza del Brasile), quando questo paese ha firmato con il governo della Francia (presidenti: Lula da Silva e Sarkozy) un accordo strategico per mezzo del quale il Brasile riceverà armi e tecnologia d’avanguardia per costruire un nuovo sistema difensivo che sarà composto di 36 aerei Rafael, 51 elicotteri e 5 sottomarini, di cui 1 nucleare, che nel continente sudamericano lo porrà all’avanguardia per quanto concerne il sistema di difesa, la cui componentistica si fabbricherà in Brasile con trasferimento tecnologico verso quest’ultimo da parte della Francia.

Sin dal momento della firma dell’accordo, tutta un’ondata di critiche proveniente dai mezzi di comunicazione di massa, le cui sedi principali si trovano negli Stati Uniti, si sta portando avanti con argomentazioni del tipo: “corsa agli armamenti nell’America del Sud”, “spesa militare eccessiva in un’America con grandi problemi sociali”, o con ragionamenti fasulli di un pacifismo ipocrita che recita che questa corsa agli armamenti impedirà la nostra integrazione regionale (?).

Sono gli stessi mezzi di comunicazione che nulla comunicarono riguardo: a quale scopo, nel 2008, gli Stati Uniti ha riattivato la IV flotta che naviga dalle calde acque dei caraibi al gelido mare nostro australe? o sul perché volere incrementare a dismisura la loro presenza nel nostro continente mediante l’insediamento di nuove basi in Colombia e che, di là dell’alternarsi delle amministrazioni di Bush e di Obama, non sono in grado di dare una spiegazione credibile sul fatto che non sono stati coinvolti nel “golpe” di Honduras, ad esempio. Quali sono le ipotesi di conflitto che conduce gli Stati Uniti nell’America meridionale?.

Il maresciallo tedesco Von Clausewitz, insisteva che la guerra moderna è “la continuazione della politica con altri mezzi”, dopo la caduta del muro di Berlino è stata la forma che ha adottato la politica estera degli USA per controllare il mondo e cercare d’imporre un indiscutibile unipolarismo dove tutto ruoterebbe secondo i loro interessi strategici (per questa ragione si è formato il cordone di basi militari tanto nei caraibi quanto nell’America del Sud, così come in tutto il mondo), l’insediamento delle stesse si è realizzato sotto il pretesto di lottare contro il narcotraffico e il terrorismo internazionale.

Ma non dobbiamo essere molto diffidenti per comprendere gli obiettivi e i destinatari delle suddette manovre militari con questa manovra strategica intimidatoria, verso un continente che aspira a non essere più il loro cortile posteriore e che Washington vuole sottomettere a qualsiasi prezzo e, inoltre, controllare le importanti risorse di cui disponiamo.

L’America del Sud non ha scelto le sue ipotesi di conflitto, le sono state imposte dal Paese del Nord, poiché in un mondo globalizzato non possiamo fuggire al duro sforzo che si sta svolgendo tra le potenze emergenti e gli Stati Uniti per l’instaurazione di un nuovo ordine mondiale multilaterale e che quest’ultimo non vuole accettare. Anzi, molti analisti americani autorevoli considerano che l’America del Nord abbia iniziato la sua fase di decadenza. E forse, ciò che rende evidente questa decadenza non è tanto la palude bellica dell’Iraq e dell’Afganistan, bensì la crisi finanziaria che, precisamente, oggi compie un anno, era iniziata con il crollo della banca Lehman Brothers, scatenando una crisi che avrebbe in seguito trascinato tutta l’economia mondiale e che ancora non si sa come si potrà risolvere.

Di fronte a questo scenario, il Brasile in quanto potenza emergente integrante del BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), ha raggiunto una soglia di potere (*) che fino a pochi anni fa non possedeva e per conquistarsela ha sviluppato una politica estera guidata da una: (“pazienza strategica”, per il Brasile la capacità di condotta sovrana in un’economia globalizzata si rafforza nel contesto di un blocco regionale. Il paese è a conoscenza che, per promuovere i propri valori e obiettivi, i migliori alleati sono i suoi vicini. Partendo da quelle idee, Brasile ha elaborato una chiara scelta per stimolare un ambizioso programma d’integrazione regionale sud e latinoamericano”.) (1) Per questa ragione ha stimolato l’UNASUR e il Consiglio di Difesa Sudamericano che come abbiamo potuto osservare nel recente Summit di Bariloche, monitorerà l’adempimento degli accordi tra Colombia e Stati Uniti riguardo alle basi militari in quel paese. Ecuador e Venezuela, nello stesso tempo, si sono messi a disposizione di quest’organismo sudamericano affinché siano esaminate anche le loro politiche di difesa.

Alcuni giorni fa affermavamo che l’obiettivo del Comando Sud era il Brasile, per quanto concerne la nostra America meridionale e tuttora lo ribadiamo (2), di là da levarsi dai piedi i leader “discoli”. Dal momento che il Brasile non solo è un gigante economico e demografico nella nostra regione, ma ha anche raggiunto il livello (di potere soft) con il quale integrare i suoi vicini e soci; così come si sta impegnando a formar parte integrante del G8 e membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, il che lo fa apparire un serio concorrente nei confronti delle pretese egemoniche degli Stati Uniti nell’America meridionale.

Quello che è in gioco (nello scacchiere instabile in cui si trova il mondo di oggi), è la possibilità che il nostro continente raggiunga i livelli di potere e di sovranità necessari per incorporarsi al nuovo ordine mondiale, nelle condizioni di resistenza ad una globalizzazione che ci è stata imposta e che non ci consente la piena autodeterminazione interna. Sotto questa cornice dobbiamo comprendere l’accordo strategico firmato dal Brasile e dalla Francia e alla luce di quello che ci hanno insegnato i classici: si vis pacem, para bellum.

Dottor Carlos Pereyra Mele Analista Politico Specialista in Geopolitica Sudamericana.

http://licpereyramele.blogspot.com

14.09.2009

(*) Soglia del potere: è una categoria utilizzata dal Dott. Marcelo Gullo nel suo libro “La insubordinación fundante”, la cui lettura è fondamentale per ogni argentino e sudamericano che si sente responsabile verso il destino della Patria.

(1) Marcel Fortuna Biato, Consulente speciale di affari internazionali nella presidenza del Brasile.

(2) El objetivo es… ¡Brasil! http://licpereyramele.blogspot.com/2009/08/el-porque-de-las-bases-militares-en.html

(trad. dallo spagnolo di V. Paglione)

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Afghanistan, 17 settembre 2009

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La trappola afghana

Il dolore per i nostri caduti rimane. Ma bisogna smetterla con l’elaborazione del lutto: anche per evitare  che la politica strumentalizzi la tragedia. Facciamo dunque chiarezza, tanto per cominciare.

Troppi italiani ignorano o dimenticano i fatti, per disinformazione o per scarsa memoria;   e altri, in malafede, ci marciano. Ecco qua, allora.

L’invasione dell’Afghanistan fu voluta nell’ottobre del 2001 dal governo Bush come risposta alla tragedia dell’11 settembre, gli effettivi responsabili della quale non sono stati individuati con sicurezza né allora, né dopo. Si disse però ch’era necessario catturare il mandante, lo sceicco Usama bin Laden (le tracce del quale sono praticamente perdute), e smantellare i “santuari” terroristici dei talibani e di al-Qaeda.

Si tacque però il fatto che il controllo del territorio afghano era necessario perché da lì dovevano obbligatoriamente passare gli oleodotti che avrebbero dovuto convogliare il greggio dei grandi giacimenti centroasiatici di recente scoperti verso i porti pakistani sull’Oceano Atlantico: un colossale business nel quale, tramite la compagnia californiana Unocal, erano coinvolti molti membri dell’establishment statunitense. Affari e geopolitica, in corsa con Russia e Cina: una riedizione dell’ottocentesco   Great Game.

Il movimento talibano, alimentato e sostenuto dai fondamentalisti wahhabiti arabo-yemeniti (un Islam fino ad allora estraneo alle tradizioni afghane) si era radicato in Afghanistan durante il jihad contro i sovietici, ed  era sostenuto dagli Stati Uniti. L’alleanza non aveva però retto, anche perché i talibani rimproveravano agli americani di aver occupato il sacro suolo arabo, la terra del Profeta e del pellegrinaggio, con l’alibi della prima guerra del Golfo. Secondo i consiglieri neoconservatori di Bush, ormai la diplomazia non bastava più: bisognava passare alla modificazione anche violenta degli equilibri geopolitici in tutto il Vicino e il Medio Oriente.

Questa la ragione effettiva dell’invasione dell’Afghanistan, che le Nazioni Unite bollarono come illegittima. Il governo Bush agì allora al di fuori dell’autorizzazione ONU, prima con una piccola coalizione di stati e di staterelli fedelissimi e quindi chiamando in campo la NATO, cioè un organo concepito per il controllo dell’Atlantico e quindi del tutto estranea al teatro territoriale afghano. Era intanto cominciata anche l’avventura irakena, e alla fine l’ONU fu costretta a legittimare la duplice aggressione, illudendo che per tale via si giungesse in qualche modo a ristabilire un qualche equilibrio politico.

I risultati, otto anni dopo l’invasione dell’Afghanistan e sei dopo quella dell’Iraq, sono sotto gli occhi di tutti. Due paesi distrutti, insicuri, martoriati (le vittime si contano ormai a decine di migliaia), dove si stenta a far decollare  una qualche forma di “democrazia” del tutto formale, cartacea e forzosa; recrudescenza delle lotte etniche e di quelle religiose; avanzata del caos e  del fondamentalismo, che stanno sommergendo lo stesso vicino Pakistan un tempo sicuro baluardo filoccidentale. Il piano strategico di Bush è fallito e il suo successore Obama lo sta smontando pezzo per pezzo. Dietro il fallimento in Vietnam gli americani si lasciarono un regime comunista; qui lasceranno il caos e il potere nelle mani dei signori della guerra e della droga. Il dilemma, oggi, è comunque fallimentare: o prolungare una guerra feroce e senza uscita, o andarsene ammettendo il pieno fallimento.

Da questa trappola, bisogna uscire; è inutile giocarsi altre vite umane. Berlusconi, il quale fino a ieri sosteneva che bisognava tener duro, ha fiutato l’impopolarità di questa guerra inutile e incomprensibile ai più e ora si nasconde dietro il legalismo internazionale: ci ritireremo, dice, ma solo con il pieno accordo degli “alleati”. Fuor di metafora, dopo averci trascinato in due guerre per far piacere a Bush, ora sta mendicando da Obama l’autorizzazione a uscirne senza troppo irritarlo. Politica da pollaio. L’importante è che faccia presto.

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Trattato di Lisbona. Il secondo referendum irlandese in prospettiva

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Dalla fine del ventesimo secolo, l’Europa, in luogo di dedicarsi alle questioni più geopolitiche, si ingegna a migliorare le sue istituzioni fondamentali.

Ciò occorreva farlo per far posto ai nuovi paesi che entravano a far parte dell’Unione. È stato l’obbiettivo del vertice di Nizza (dicembre 2000) e di quello successivo (febbraio 2001). Giacché non si potrà mai distribuire oltre il 100% dei diritti di voto, il trattato di Nizza organizza una nuova divisione dei poteri.

Nel Consiglio dei Ministri della UE, la soglia della maggioranza qualificata è aumentata ed il numero di voti di ciascun paese riesaminato. Dal 1 ° gennaio 2007, Germania, Italia, Francia e Regno Unito abbandonano più di un quarto del loro peso politico relativo, passando dal 11,49% nella UE-15 dei voti al 8,41% nella UE -27, dal 1 ° gennaio 2007. Ad eccezione della Spagna, le perdite degli altri membri più anziani sono ancora più elevate. I paesi più popolosi [1], perdono anche il loro secondo commissario alla Commissione europea. La Commissione, eletta per cinque anni, a partire dal primo novembre 2004, ha la caratteristica di contare un solo commissario per ogni Stato membro, quale che sia la sua popolazione. I seggi dei deputati sono parimenti ridistribuiti.

Il trattato di Nizza appena siglato, il bisogno di istituzioni più adatte per una Unione allargata si impone immediatamente. Tutti ricordano che il progetto del Tratta che stabiliva una Costituzione per l’Europa è stato bloccato a maggio e a giugno  del 2005, quando la Francia e i Paesi bassi la rifiutarono con un referendum. Appena eletto alla presidenza della Repubblica francese, Nicolas Sarkozy spalleggia il cancelliere tedesco Angela Merkel, per trovare una soluzione, nell’ambito del Trattato di Lisbona (Consiglio d’Europa informale del 18 e 19 ottobre 2007). Anche questo viene bloccato a sua volta da un referendum negativo, dal referendum irlandese del giugno 2008.

Il prossimo 2 ottobre, gli Irlandesi si pronunceranno una seconda volta, dopo aver ottenuto alcune concessioni e garanzie.

La Commissione europea ha fatto quindi il punto dei compromessi raggiunti.   « Molti cittadini irlandesi temono che il trattato possa influire sulle politiche fiscali del loro paese, sulla sua neutralità militare e su questioni etiche come l’aborto. Il Consiglio ha offerto garanzie giuridiche all’Irlanda che il trattato non violerà la sovranità del paese in questi settori. L’elettorato irlandese aveva inoltre obiettato al piano di riduzione del numero dei commissari europei, che aboliva il diritto degli Stati membri (Irlanda inclusa) a disporre automaticamente di un proprio commissario. Il Consiglio ha accettato di adottare le misure legali necessarie per garantire tale diritto a tutti e 27 i paesi dell’UE al momento dell’entrata in vigore del trattato. » [2].

Qualunque sia l’esito del secondo referendum irlandese, si spera che l’UE possa dedicare il secondo decennio del 21 ° secolo per fronteggiare  altre sfide. Senza essere esaustivi, pensiamo allo stato di avanzamento del progresso di un’analisi geopolitica dell’Unione europea, allo sviluppo della difesa europea, all’invecchiamento della sua popolazione, alla sua eterogeneità economica, al deficit del bilancio commerciale extra-comunitario, ai deboli sforzi nella Ricerca e Sviluppo, alla diminuzione dei partecipanti alle elezioni per il Parlamento europeo, alla lotta contro la corruzione, al progresso della interconnessione tra i paesi membri, all’integrazione dei futuri membri, all’attuazione di partenariati con altri paesi ed alla ridefinizione dei rapporti con le Potenze di oggi e di domani …

1. I quattro precedenti più la Spagna.

2. Commissione europea, 12 – 12 2008 : http://ec.europa.eu/news/economy/081212_1_fr.htm

L’autore di questo articolo, Pierre Verluise, ricercatore presso l’IRIS, dirige il sito www.diploweb.com ; autore di  20 ans après la chute du Mur. L’Europe recomposée (Choiseul, 2009) ha recentemente pubblicato  Géopolitique de l’Europe (Sedes, 2009).

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Il Museo Virtuale dell’Iraq

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Grande successo di pubblico internazionale nel Museo Virtuale dell’Iraq. Frutto di un’intesa tra Ministero degli Affari Esteri e Consiglio Nazionale delle Ricerche, il Museo virtuale  è tra le più importanti iniziative di carattere culturale e diplomatico volte alla valorizzazione del patrimonio storico-archeologico di quel Paese. L’allestimento non si sovrappone a quello reale, ma si presenta come la sua proiezione comunicativa attraverso una selezione delle opere più significative dell’antica civiltà mesopotamica, incluse quelle custodite nei principali musei del mondo. Realizzato in italiano, inglese e arabo, consente l’accesso ad un ampio pubblico.

I dati del successo internazionale del Virtual Museum of Iraq saranno commentati nell’ambito del convegno: “Il Museo Virtuale dell’Iraq. Il Cnr e le nuove tecnologie per la cultura e la comunicazione”, che si terrà a Roma, domani 22 settembre alle ore 9.30, presso la sede dell’Ente (piazzale Aldo Moro 7).

Quello che colpisce è soprattutto la dimensione internazionale del successo. “Sono state oltre 400.000 le pagine cliccate e oltre 120 mila i visitatori. Le pagine in inglese sono più visitate di quelle in italiano, con un rapporto di circa 2/3, 1/3”, spiega Roberto de Mattei, vice Presidente del Cnr. “Nella classifica dei ‘navigatori’ gli Stati Uniti si piazzano primi con oltre 35 mila accessi, battendo l’Italia con 24 mila circa, seguono Brasile, Canada, Regno Unito, Porto Rico”.

Spiccano al settimo posto, gli Emirati Arabi che precedono quanto a visite, la Turchia, la Germania e la Svezia”.

Delle otto sale di cui si compone il Museo – ognuna dedicata ad una fase storica- le più frequentate sono la Preistorica, la Sumerica e la Babilonese.

Collegandosi al sito internet www.virtualmuseumiraq.cnr.it i visitatori hanno potuto passare in rassegna opere di capitale importanza, come una statuetta femminile in alabastro da Tell Es Sawwan (6200-5700 a.C.), l’Elmo in lamina d’oro di Meskalamdug (2450 a.C.), re della città di Ur, il Pannello invetriato di Nimrud (IX secolo a.C.), la Lastra raffigurante i sudditi assiri (VIII sec. a. C).

Un bagaglio di competenze (archeologi, architetti, informatici, storici dell’arte) che il Cnr ha portato in Giappone in occasione della mostra “L’eredità dell’Impero Romano” inaugurata dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al Museo Nazionale d’Arte Occidentale di Tokyo (fino al 13 dicembre 2009), dove è allestito un video 3D Life and Power in Imperial Rome”, realizzato dal Dipartimento Patrimonio Culturale ( Istituti Ibam, Isti e Itabc) e con il sostegno dell’Ufficio Pubblicazioni ed Informazioni Scientifiche del Cnr.

Il filmato creato come contributo all’evento “Italia in Giappone 2009” racconta la Roma imperiale come una sequenza di momenti ufficiali di vita pubblica, fatta di esteriorità, simboli, grandiosità (in particolare, la ritrattistica pubblica e l’Ara Pacis prescelti come simboli del potere e della politica romana nel periodo Augusteo), e di vita privata della stessa famiglia imperiale, scandita dall’otium, dalle abitudini quotidiane e dagli affetti privati. “Il lavoro”, spiega Roberto Scopigno dell’Istituto di scienza e tecnologie dell’informazione (Isti) del Cnr, “è stato eseguito con tecnologie di scansione laser tridimensionale ad alta risoluzione, tecnologie per la ricostruzione di modelli digitali tridimensionali da foto ed infine  con sofisticate tecniche di computer animation”.

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Intervista a Enrico Galoppini su “L’Eco di Bergamo”

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«Il Mediterraneo deve tornare ad essere un luogo di incontro fra i continenti»
■ L’eurasia è un’idea che ha attraversato culture, tradizioni e pensatori di diversa formazione.
Torna oggi alla ribalta grazie a un nucleo di intellettuali che hanno deciso di riprenderne i tratti essenziali. Ne parliamo con Enrico Galoppini, saggista e traduttore dall’arabo. Ha insegnato per anni Storia dei Paesi islamici presso le Università di Torino e di Enna. È redattore della rivista di studi geopolitici «Eurasia» (www.eurasia-rivista.org). Collabora e ha collaborato a riviste e quotidiani tra cui Limes, Imperi, Eurasia, Levante, La Porta d’Oriente, Kervàn, Africana. Ha pubblicato «Il Fascismo e l’Islàm» (Edizioni «All’Insegna del Veltro», Parma
2001) e «Islamofobia. Attori, tattiche, finalità» (Idem, 2008).

Che cosa si deve intendere per Eurasia e quali sono i vostri principali autori di riferimento?
«Con Eurasia non s’intende un ipernazionalismo, né un ambito territoriale di cui andrebbero definiti i confini. Eurasia non è la somma di Europa ed Asia. Eurasia è un’idea- forza evocante la sostanziale unità delle
civiltà del cosiddetto “Vecchio mondo”. Privilegiando ciò che unisce anziché ciò che divide, tale concetto è antitetico a quello dello scontro di civiltà: Eurasia è in un certo senso sinonimo di dialogo di civiltà. Quanto agli autori di riferimento, non abbiamo dei guru da seguire deterministicamente. Il nostro approccio è infatti geopolitico, quindi improntato a realismo e pragmatismo, non ideologico, dunque utopico-emozionale.
Ma se vogliamo indicare alcuni autori per noi importanti, posso citare Lev N. Gumilëv e Franz Altheim (etnogenesi di vari popoli europei ed asiatici), Mircea Eliade (comparazione delle religioni e dei miti), Georges Dumézil ed Emile Benveniste (studi indoeuropei), Nicolaj S. Trubeckoj (eurasiatismo russo), Giuseppe Tucci e vari “tradizionalisti” come Guénon, Cooramswamy, Burckhardt e Nasr».

Quali scenari prevede nei rapporti tra il mondo islamico vicino e mediorientale e quello cristiano-occidentale?
«È essenziale il recupero del ruolo del Mediterraneo quale “mare interno” con una naturale vocazione all’incontro tra culture e al consolidamento di duraturi rapporti economici e politici tra i popoli che ne abitano le sponde e non solo, poiché il Mediterraneo mette in comunicazione l’Europa propriamente detta sia con l’Asia che con l’Africa, per cui si configura come un crocevia del “Vecchio mondo”. Questo spazio, però, per svolgere questa funzione, deve essere libero dai condizionamenti di potenze esterne che con la dottrina (operativa) dello scontro di civiltà evidenziano l’interesse a fomentare discordie per privilegiare i loro disegni. Ma se gli europei continueranno a concepire se stessi come “occidentali”, considerando la maggioranza dei popoli dell’Eurasia come “orientali”, non vi sono motivi d’ottimismo. Una puntuale conoscenza della civiltà islamica è un buon antidoto contro derive occidentaliste, così come il superamento di un’idea di un’entità
politico-amministrativa (ma non geopolitica) circoscritta alla “penisola” estremo-occidentale dell’Eurasia con caratteri esclusivi rispetto ai suoi immediati vicini (Turchia e Russia sono fondamentali per una pax eurasiatica)».

Secondo lei le guerre che si stanno combattendo in Afghanistan e Iraq sono anche guerre di religione?
«Queste guerre sono state scatenate dagli occidentali per motivi strategici e di dominio. Ma a livello di opinioni pubbliche viene data l’impressione che la posta in gioco sia identitaria. L’Iraq è stato invaso nel
2003 (dopo 12 anni d’embargo) solo grazie alla debolezza della Federazione russa negli anni 90. Esso doveva essere annientato perché il suo governo non era disposto a compromessi sulla “questione palestinese”, nient’affatto limitata al campo palestinese, interessando, grazie alla sua portata strategica e simbolica, l’intera Eurasia. Per quanto riguarda l’Afghanistan, trovandosi al crocevia tra Russia, Cina, India e Iran, la sua occupazione – al di là degli interessi energetici – rappresenta per gli occidentali una mossa per procrastinare un’integrazione eurasiatica per essi esiziale».

«Eurasia» è anche una rivista di geopolitica. Quali scopi persegue?
«Eurasia è una rivista di studi geopolitici che differisce da altre riviste di geopolitica italiane per il suo taglio accademico e non semplicemente divulgativo e giornalistico. Non è tuttavia espressione di una particolare
scuola o metodologia interpretativa. Certo, esiste un orientamento redazionale che si risolve nell’analisi del presente e nella descrizione di ipotesi di scenari realistici e alternativi alla tendenza unipolare. Eurasia,
uno strumento per l’analisi e lo studio del presente attraverso un approccio geopolitico, nasce dalla constatazione del fatto che le analisi economiche e politiche, condizionate da ideologie e visioni del mondo, non offrono una rappresentazione globale e realistica dei nostri tempi; in particolare, non riescono a fornire riposte ai problemi del XXI secolo».

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