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La funzione eurasiatica dell’Iran

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“Il paese dell’Iran è più prezioso di ogni altro
perché si trova al centro del Mondo”
(Sad-Dar, LXXXI, 4-5) *

La centralità come destino geopolitico

Con un’estensione territoriale pari a 1 645 258 kmq, relativamente vasta se confrontata con gli altri paesi della regione mediorientale, situato nell’intersezione dei due assi ortogonali Nord-Sud e Est-Ovest, rispettivamente costituiti dalle direttrici Russia-Oceano Indiano e Cina-India-Mar Mediterraneo, l’Iran, ieri importante segmento della Via della seta e delle spezie, oggi seconda riserva mondiale di gas e terzo esportatore di petrolio, rappresenta il centro di gravità di molteplici interessi geostrategici e geopolitici che si dispiegano su scala regionale, continentale e mondiale.

Regionale, in rapporto alle altre potenze che tendono ad egemonizzare attualmente l’area vicino e medio orientale: Israele, Turchia, Pakistan; continentale, in rapporto ai paesi caucasici, all’India, alla Cina, alla Russia ed infine, per il tramite del “ponte anatolico”, all’Unione Europea; mondiale, in rapporto alle pratiche espansioniste degli USA nella massa continentale eurasiatica e del suo principale alleato regionale, Israele.

Agli elementi sopra riportati, posizione e imponente forziere di risorse energetiche, veri e propri atout geopolitici, occorre aggiungere, ai fini dell’ analisi geopolitica dell’Iran, altri fattori di equivalente importanza, tra cui:

– una popolazione, numerosa di oltre 65 milioni, con un’età media di 25 anni e largamente alfabetizzata;

– un’aspettativa di vita medio-alta valutata oltre i 70 anni;

– una forte identità politica che, nonostante la varietà etnoculturale stratificatasi nel corso dei secoli, la memoria e la rappresentazione collettiva contemporanea fanno risalire almeno all’epoca achemenide (648 a.C. – 330 a. C.), se non a quella del regno dei Medi (758 a.C. – 550 a.C.);

– una peculiarità religiosa, la Shia, che da oltre 500 anni costituisce il sostrato culturale unificante del Paese;

– un originale regime politico–religioso che, attento ai principi della solidarietà sociale, lascia ampi margini di libertà alle minoranze etniche e religiose del Paese, contenendone, in tal modo, la loro potenziale azione disgregatrice per l’unità nazionale.

Sin dall’antichità, la centralità, esaltata in splendidi distici da Nezāmī di Ganjè (1141-1204) nel suo poema Le sette principesse (Haft Peikar): “Il mondo è il corpo e l’Iran ne è il cuore / di tal confronto l’Autore non prova vergogna” (1), sembra costituire la caratteristica geopolitica (2) più rilevante dello spazio presidiato, attualmente, dalla Repubblica islamica degli ayatollah.

L’altopiano iranico, contornato da grandi catene montagnose (Elburz, Zagros), per la sua particolare posizione geografica ha svolto, lungo i secoli, la funzione di crocevia privilegiato tra più insiemi etnopolitici dalla marcata identità, quali l’arabo, il mongolo, il turco, l’indiano, il cinese, il russo-europeo.

Cerniera e zona di transito, come l’altopiano anatolico e la penisola italiana, condivide con questi due spazi un’antica vocazione imperiale. Palcoscenico di uno dei più antichi ed organizzati imperi eurasiatici, quello achemenide, fondato da Ciro il Grande, ha costituito successivamente, e con regolarità, l’area pivot dell’Impero di Alessandro Magno, di quello dei Seleucidi, di quello partico degli Arsacidi e di quello sasanide, prima di cadere sotto le dominazioni araba, turca, mongola, mantenendo, tuttavia, anche in queste situazioni, una indiscussa e importante funzione geopolitica e culturale (3).

In seguito, nel corso del XVI secolo, quando la scoperta del Nuovo Mondo e la circumnavigazione del Capo di Buona Speranza iniziavano a produrre disastrosi effetti nella vita economica del Mediterraneo e del Vicino e Medio Oriente, tagliando fuori l’intermediazione veneziana, turca, araba e persiana dall’importante commercio delle spezie, l’area iranica diviene il fulcro di una nuova entità geopolitica: l’impero safavide. Il capostipite di questa dinastia, lo shah Ismail I, riesce, dal 1509 sino alla sua morte, avvenuta nel 1524, ad unificare, in un coeso spazio geopolitico, gli emirati e i khanati in cui era allora frammentato l’Iran.

Una leva importante per la costruzione dell’edificio imperiale fu certamente l’imposizione della Shia quale religione di stato. Ma è con Abbas il Grande (1587-1629) che l’antico impero sasanide, anch’esso peraltro imperniato su una religione di stato, lo zoroastrismo, sembra per un momento riemergere dal lontano passato. Abbas, abile stratega e accorto uomo di stato, dopo aver fermato, a occidente, le ondate espansive degli Ottomani e respinto, ad oriente, gli Uzbeki, riesce a recuperare gli antichi possedimenti persiani, l’Iraq e la Mesopotamia. Inoltre, grazie all’appoggio della marina inglese (4), allontana i portoghesi.

La politica di rafforzamento regionale, perseguita da Abbas a discapito degli Ottomani, si avvalse, sul piano internazionale, di alcuni accordi stipulati tra lo Shah e le Compagnie britannica ed olandese delle Indie orientali. Tali accordi svolsero il ruolo di dispositivi geopolitici che, successivamente, favorirono l’esiziale penetrazione occidentale nell’intera area mediorientale.

Per tutta la durata dei secoli XVIII e XIX, l’Iran si trova a dover contenere contemporaneamente due spinte che mirano alla sua frammentazione: quella ottomana e quella russa. Infatti, nonostante l’accordo con Istanbul sui confini occidentali, la pressione turca non diminuisce, anzi si fa più incalzante; in particolare quando l’esercito dello zar Pietro il Grande penetra nel Nordovest del Paese, nel 1722. Da questo duplice e continuo confronto lo stato persiano ne esce indebolito. Le dinastie che si succedono in questo lasso di tempo (dinastia safavide, afsharide, zand, cagiara) non riescono infatti a mettere in campo opportuni dispositivi geopolitici tali da contrastare con successo il “desiderio di territorio” dei vicini. Nel corso del XIX secolo, oltre le mire espansioniste della Russia e della Turchia ottomana, le dinastie persiane sono costrette a confrontarsi anche con l’aggressivo imperialismo britannico, che dall’India e dall’Oceano Indiano preme sull’altopiano iranico. Ormai la spinta propulsiva dell’antica vocazione imperiale si è esaurita. La posizione centrale dell’Iran si rivela, nel nuovo contesto internazionale, di lì a poco sempre più egemonizzato dalla potenza extraregionale britannica, un’appetitosa posta geopolitica.

In questo periodo inizia per l’Iran l’epoca delle amputazioni territoriali. Nelle due guerre condotte contro i Russi (1804-1812 e 1826-1828), infatti, perderà i territori del Caucaso (5), mentre in quelle combattute contro gli Inglesi (1837 e 1857), perderà la regione dell’Herat (Afghanistan) (6).

Agli inizi del XX secolo, l’Iran non è più padrone del proprio destino geopolitico. Diventa infatti oggetto della rivalità tra la Russia imperiale, impegnata nella sua avanzata verso il Golfo Persico e l’Oceano Indiano e la potenza colonialista britannica, la quale, ormai all’apice della sua espansione tende a rafforzare il controllo sul Golfo e, internamente, sulle rotte strategiche afgane.

Al centro della rivalità anglo russa

La rivalità anglo-russa è scandita da una serie di eventi orchestrati da San Pietroburgo e Londra che tendono a minare progressivamente la già traballante autorità della casa regnante persiana e, soprattutto, a frammentare il territorio iranico, a balcanizzarlo, si direbbe oggi. I Britannici condizionano la dinastia cagiara tramite prestiti in cambio di concessioni (7), inoltre sollecitano Muzzaffareddin Shah ad aderire alle richieste di democratizzazione (occidentalizzazione) (8) della vita pubblica iraniana, sollecitate, tra gli altri, sorprendentemente, dagli ulema (9). Il 30 dicembre del 1906 viene promulgata la Costituzione, ispirata a quella belga del 1831, ed istituito il Majlès, l’assemblea elettiva. La svolta costituzionale, invece di riformare lo Stato, produce l’effetto di accelerarne la disintegrazione, a tutto vantaggio della Russia e della Gran Bretagna che, il 31 agosto del 1907, si accordano a San Pietroburgo sulla spartizione dell’altopiano iranico. Il “minaccioso accordo” anglo-russo stabilì che “il Nord lungo la linea da Qasr-è Shirin a Yadz sarebbe stato di competenza russa, mentre il Sud dal confine afghano a Bandar ‘Abbas (sarebbe spettato) agli inglesi, che già spadroneggiavano nel Golfo Persico. In seguito a questo accordo, formalmente in vigore fino alla fine della prima guerra mondiale, alle autorità iraniane restava solo la zona centrale del paese” (10). Contro il Trattato del 1907, il principe–poeta Iraj Mirza scriverà “La pace del gatto e del sorcio significa il saccheggio della dispensa”.

Con la scoperta del petrolio (1908) a Masjid-e Soleiman, nel Khuzistan, una provincia della “zona tampone”, formalmente a sovranità iraniana, l’Iran diventa ancora più appetibile per i due contendenti; in particolare per la Gran Bretagna. La Marina britannica, infatti, in seguito ai risultati ottenuti da un’apposita commissione, istituita in seno all’Ammiragliato da Lord Fisher, aveva deciso, nel 1912, la sostituzione del carbone con il più efficiente petrolio, quale combustibile propulsore per l’intera flotta navale (11).

Il difficile neutralismo di Reza Khan (1921-1941)

Con lo scoppio della prima guerra mondiale, l’altopiano iranico assume una nuova importanza strategica: da lì, infatti, Russi e Britannici possono muovere verso l’Impero ottomano. Ancora una volta la posizione geografica determina il destino dell’Iran. La neutralità dichiarata da Teheran il 1 settembre del 1914 sarà meramente virtuale: per tutto il corso della guerra, l’intero Paese subirà le manovre e gli intrighi degli eserciti e delle cancellerie di Mosca, Londra, Berlino, Istanbul.

L’Iran otterrà una relativa stabilità soltanto dopo il colpo di stato del 1921, realizzato (12) da Reza Khan e dal filoinglese Seyed Ziaeddin Tabatabai, figlio dell’ulema costituzionalista Seyed Muhammad Tabatabai (vedi n. 9). Reza Khan, nonostante l’influenza del governo inglese e, soprattutto, dell’Anglo-Persian Oil Company, perseguirà, alternando successi e insuccessi, una politica di equidistanza tra Mosca e Londra. Assicuratosi, tramite il Trattato con i Sovietici (26 febbraio 1921), l’amicizia di Mosca, e consolidato il proprio potere, Reza avvia un’importante riforma dell’esercito, riconoscendo in esso lo strumento essenziale per la difesa dei confini nazionali. Seguendo lo schema del suo omologo turco, Kemal Atatürk, promuove, inoltre, con particolare incisività, risolutezza ed asprezza, una occidentalizzazione forzata del paese, umiliando le antiche tradizioni popolari. Dopo la sua nomina a shah, avvenuta nel 1925, intraprende la progettazione e la realizzazione di una serie di grandi opere pubbliche, volte a dotare l’antico paese degli Ari di moderne infrastrutture e istituzioni. Un particolare interesse sarà rivolto alla modernizzazione delle infrastrutture viarie, tra cui la rete ferroviaria (1927 e 1938) che, pur costruita secondo logiche di sicurezza nazionale, permise la comunicazione diretta tra i porti del mar Caspio e del Golfo Persico. Tra le istituzioni di rilevante importanza si ricordano la Bank-e Melli-e Iran (Banca nazionale iraniana, 1928) e l’Università di Teheran (1934). Nel 1935, in concomitanza con la fondazione dell’Accademia della lingua persiana, la Persia assume ufficialmente la denominazione di Iran. Nel corso degli anni trenta, Reza Shah Pahlavi, al fine di allentare la pressione dei Sovietici e degli Inglesi, intensifica le relazioni internazionali con alcuni paesi europei, in particolare con la Germania, che nel frattempo è diventato il partner commerciale più importante per l’intera economia nazionale. La politica estera del nuovo shah e, soprattutto, le sue azioni volte a limitare l’influenza degli stranieri nelle questioni interne del paese, non scalfirono minimamente, tuttavia, le prerogative dell’Anglo-Iranian Oil Company, la quale, anzi, in un nuovo accordo (1933), estorto con la minaccia di un blocco navale ad opera della Marina britannica e della confisca del patrimonio imperiale depositato sui conti londinesi, ottiene l’estensione della concessione petrolifera per altri sessant’anni. Nel 1937 Teheran, nel quadro della politica di distensione regionale, stipula il trattato di amicizia con l’Iraq, la Turchia e l’Afghanistan, mentre l’anno successivo rafforza, attraverso il matrimonio del figlio Muhammad Reza con Fawza d’Egitto, i rapporti con il Cairo.

Paradossalmente, le intese diplomatiche con l’Egitto e l’Iraq, invece di emancipare Teheran dall’ingerenza inglese, la legano ancora di più alla politica vicinorientale di Londra. Infatti, l’Egitto, divenuto formalmente indipendente nel 1922, subisce ancora, negli anni trenta, l’occupazione britannica, mentre la sovranità della casa regnante irachena, nonostante l’indipendenza concessa nel 1932, è pesantemente limitata per gli aspetti economici e militari proprio dalla ex potenza mandataria, l’Inghilterra.

Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, l’Iran ripercorre sostanzialmente la stessa sfortunata vicenda del primo conflitto. Si dichiarerà, come allora, neutrale, ma anche questa volta il neutralismo non pagherà; non terrà infatti Teheran lontano dai venti di guerra e, soprattutto, dalle necessità strategiche di Mosca e Londra che, a causa della posizione geografica (di nuovo!), identificano nell’altopiano iranico il corridoio privilegiato per il passaggio dei rifornimenti. Nel 1941 l’Iran viene occupato dai Sovietici a Nord e dall’esercito inglese a Sud, mentre lo shah Reza è costretto all’esilio e ad abdicare a favore del figlio Muhammad (13). Il 29 gennaio del 1942 le autorità sovietiche ed inglesi “legalizzano” l’occupazione con l’accordo tripartito tra Londra, Mosca e Teheran. Chi si occuperà della gestione del tratto ferroviario tra il mar Caspio e il Golfo saranno gli Stati Uniti, il nuovo attore globale.

Potenza regionale in un mondo bipolare: l’Iran gendarme del Golfo (1953-1979)

Gli Usa identificano, fin dagli ultimi anni del secondo conflitto mondiale, l’importanza strategica dello spazio iranico e ne faranno successivamente, nell’ambito della dottrina del containement, il loro pilastro. Dopo la risoluzione della crisi dell’Azerbaijan del 1946, l’Iran entra definitivamente nel “sistema occidentale”.

Chi, per un breve momento, metterà in crisi la strategia statunitense, sarà Mossadeq. Il nuovo primo ministro iraniano, infatti, nel 1951, nazionalizza il petrolio ed istituisce la Società nazionale del petrolio iraniano. Alla notizia ufficiale della “presa in carico”, da parte della nuova società nazionale delle istallazioni petrolifere britanniche, gli Iraniani si riversano nelle strade al grido “naft melli shod”, “il petrolio è diventato nazionale”. Gli Usa, temendo che Teheran possa cadere nell’orbita moscovita, organizzano, in accordo con i servizi segreti britannici, un piano, denominato TP Ajax (14), per defenestrare lo scomodo premier. Il colpo di stato viene eseguito il 19 agosto del 1953: i sogni di indipendenza degli Iraniani svaniscono nel nulla.

Dal 1953 al 1979, l’Iran, utilizzato dagli Usa in funzione antisovietica, svolgerà un ruolo di potenza regionale ed entrerà nei dispositivi geopolitici organizzati da Washington e Londra. Nel 1955 aderirà, con Gran Bretagna, Iraq, Turchia, e Pakistan al Patto di Baghdad e, nel 1959, dopo l’uscita dell’Iraq dall’alleanza, alla sua riedizione, al Patto Cento (Central Treaty Organisation).

La Repubblica Islamica dell’Iran e il “neutralismo pragmatico” (1979-1991)

Dalla 1979 al 1991, cioè dalla rivoluzione degli ayatollah al crollo dell’Unione Sovietica, il posizionamento geopolitico dell’Iran subisce una radicale svolta. Teheran esce dal sistema occidentale senza, tuttavia, inserirsi in quello sovietico.

La perdita dell’alleato iraniano spinge Washington a ridefinire il quadro delle alleanze strategiche nello spazio vicino e mediorientale. Rafforza infatti i legami con il Pakistan, la Turchia e, soprattutto, con Israele e Iraq. Inoltre, interferendo nelle questioni interne dell’Afghanistan – divenuta da poco Repubblica democratica popolare, in seguito alla “Rivoluzione di aprile” (1978) – Washington provoca l’URSS, che il 24 dicembre 1979 invade il Paese dei papaveri.

L’obiettivo di Washington è chiaro: alimentare guerre civili e conflitti armati fra gli attori regionali (Afghanistan, URSS, Iran e Iraq); destabilizzare l’intera area ed infine assumerne il pieno controllo militare. Sono a tal riguardo illuminanti le parole del presidente Carter: “il tentativo di una forza esterna di controllare la regione del golfo Persico sarà considerata come un assalto agli interessi vitali degli Stati Uniti d’America, e tale assalto sarà respinto con tutti i mezzi necessari, inclusa la forza militare”.

In occasione della Prima Guerra del Golfo (14 agosto 1990), l’Iran, ripiegato su se stesso dopo la lunga ed estenuante guerra con l’Iraq (22 settembre 1980 – 20 luglio 1988), assume una posizione neutralista, che tradisce, tuttavia, l’ambizione a mantenere, in competizione con Baghdad, il ruolo di potenza regionale. Dichiarandosi neutrale, Teheran denuncia, infatti, sia l’invasione del Kuwait sia la presenza delle forze armate statunitensi nel Golfo. Il pragmatismo iraniano non tiene conto, evidentemente, del reale rapporto di forze che si è determinato, a favore degli USA, tra gli alleati dell’ampia coalizione antirachena. Il neutralismo di Teheran faciliterà oggettivamente le operazioni militari statunitensi.

Il ruolo di potenza regionale, una costante geopolitica dell’Iran moderno, sembra dunque continuare, nonostante il crollo dell’URSS. Teheran, per uscire dall’isolamento cui l’ ha ricacciata l’ostracismo degli USA e di molti Paesi occidentali, si rivolge verso il Caucaso e l’Asia. Intesse infatti una serie di importanti relazioni diplomatiche ed economiche con le nuove repubbliche del Caucaso e dell’Asia centrale. In particolare con il Tagikistan, il Turkmenistan e il Kazhakistan.

Potenza regionale in un mondo multipolare o funzione eurasiatica?

A partire dalla prima presidenza Putin (2000), che imprime un cambiamento di direzione alla politica estera russa, il quadro geopolitico mondiale, nell’arco di pochi anni, muta profondamente. Il sistema unipolare perseguito dagli USA entra in crisi, nonostante il presidio militare che Washington, “esportatore di democrazia”, esercita in vaste aree del continente eurasiatico (in particolare, Afghanistan e Iraq). Oltre al successo conseguito da Putin nel riposizionare la Russia al centro delle questioni internazionali, si assiste, infatti, anche al crescente peso delle nuove e potenti economie di Nuova Delhi e di Pechino. Il baricentro della geopolitica mondiale si sposta decisamente nel continente eurasiatico (15).

Sembra iniziare, per gli attori globali, una nuova stagione multipolare. Il consolidamento della nuova Russia sul piano internazionale, quello della Cina e dell’India, su quello dell’economia mondiale, obbligano queste Nazioni a nuove intese strategiche, tese a rafforzare il ruolo della parte centrorientale del continente eurasiatico. Occorre inoltre considerare che tali nuove alleanze consentono, per effetto di polarizzazione, d’altra parte del globo, una maggiore libertà d’azione per alcuni importanti Paesi dell’America latina. Alcuni governi, come ad esempio quello del Venezuela, della Bolivia e, per taluni, versi dell’Ecuador, dell’Argentina e del Brasile, da sempre sottoposti alle direttive statunitensi, intraprendono infatti iniziative autonome, sovente in aperto contrasto con i desiderata di Washington.

Il nuovo contesto internazionale dà respiro anche all’Iran, nonostante le molte criticità e la pressione cui è continuamente sottoposto dall’iperpotenza statunitense e dalla cosiddetta Comunità internazionale. Malgrado tutto, grazie anche, molto probabilmente, al nuovo corso impresso dal presidente Ahmadinejad alla politica estera iraniana, sembrano aumentare, per l’antico paese degli Arii, i gradi di libertà per avviare, finalmente, una ben definita strategia geopolitica.

A livello continentale, Teheran diviene, infatti, osservatore (fin dal 2005) e membro candidato della sempre più importante Organizzazione della Conferenza di Shangai (OCS), mentre, sul piano globale, assume un ruolo politico molto influente nell’Organizzazione dei Paesi produttori di petrolio (OPEC). Avvia, inoltre, una politica di amicizia con alcuni Paesi dell’America latina, contribuendo a favorire un quadro geopolitico mondiale sempre più orientato al multipolarismo.

A fronte del mutato quadro geopolitico, oggi, per l’Iran si prospettano due opzioni principali: perseguire, come nel passato, una politica volta a esercitare un ruolo regionale, oppure assumere una chiara funzione nell’ambito dell’integrazione eurasiatica, facendo perno proprio su alcuni importanti dispositivi come l’Organizzazione della Conferenza di Shangai (SCO) e l’associata Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (CSTO) (16).

Negli ultimi anni, Teheran ha praticato, alternandole, ambedue le opzioni, in riferimento alla maggiore o minore pressione internazionale cui è sottoposta, con una certa intensificazione a partire dall’11 settembre 2001.

Il ruolo di potenza regionale è una vecchia aspirazione iraniana, prediletta da Teheran fin dai tempi dello Shah Reza. Esso consiste, sinteticamente, nello sfruttare, con una notevole dose di pragmatismo, la propria valenza geopolitica (centralità geografica e riserva di risorse energetiche) in rapporto ai mutevoli equilibri che si istaurano nel tempo tra la Russia, gli USA ed il sistema regionale di alleanze capeggiato da questi ultimi. Alcuni atteggiamenti assunti da Teheran, in relazione a presunte distensioni con Washington e con Bruxelles, sono comprensibili proprio se interpretati alla luce di tale postura geopolitica, oltre che per accidentali questioni di mera convenienza economica.

Perseguendo tale strategia, tuttavia, Teheran giocherebbe le proprie carte sempre subendo le iniziative della Russia e degli USA, ma, soprattutto, entrerebbe in competizione diretta con gli altri Paesi della regione, principalmente col Pakistan, la Turchia, l’Arabia Saudita e Israele.

La rivalità con questi paesi verrebbe, ovviamente, sfruttata dagli USA nel quadro della dottrina del Nuovo Grande Medio Oriente.

Questo progetto, come noto, prevede, nel medio e lungo periodo, una ridefinizione degli attuali confini della quasi totalità dei Paesi del Vicino e Medio Oriente, e la creazione, su base etnica, di nuove nazioni (17). L’opzione regionalista si rivelerebbe, a lungo andare, letale per gli interessi nazionali di Teheran e, soprattutto, devastatrice per l’integrazione eurasiatica che pare essere perseguita, tra alti e bassi, da Mosca, Pechino e Nuova Delhi.

La seconda soluzione, che definiamo continentalistica o eurasiatica, invece, sarebbe di gran vantaggio per l’Iran, giacché ne valorizzerebbe la posizione strategica e gli assicurerebbe un ruolo di protagonista nella costruzione del Grossraum eurasiatico. Inoltre, con tale scelta l’Iran imprimerebbe un’accelerazione all’attuale tendenza multipolare.

L’Iran, insieme al Pakistan, infatti fungerebbe da “porta oceanica” per i Paesi del Caucaso e per la Russia. Inoltre, contribuirebbe a stabilizzare l’intera area caucasica, i Balcani dell’Eurasia, secondo la “programmatica” definizione di Brzezinski. In prospettiva, insieme alla Russia, concorrerebbe, infine, a invalidare il ruolo e la presenza degli USA nell’intera regione.

L’altra importante funzione cui l’Iran sarebbe chiamato a svolgere è quella di raccordo, attraverso il Pakistan, tra la penisola europea e lo spazio sino-indiano. In tal caso, oltre a contenere le sempre potenziali aspirazioni panturaniche di Ankara verso oriente, diventerebbe, con la Turchia associata all’UE o suo membro effettivo, l’interfaccia diretta tra l’Europa e l’Asia, rinverdendo così la sua antica funzione eurasiatica (18).

Le due funzioni sopra considerate sembrano concretizzarsi nei rapporti che sempre più si consolidano tra Teheran, Mosca, Nuova Delhi (19) e Pechino.

Tiberio Graziani

Note

* E. W. West, Sacred Books of the East, volume 24, Clarendon Press, 1885, cap. 81, 4-5.

1. La traduzione dei versi è stata eseguita sulla versione francese del poema, Le Papillon des sept princesses, Gallimard, Paris, 2000. La versione italiana, Nezāmī di Ganjè, Le sette principesse, Rizzoli, Milano, 2006, non riporta il distico che, tuttavia, viene citato nella presentazione del traduttore e curatore, Alessandro Bausani.

2. In riferimento ai rapporti tra letteratura e geopolitica dell’Iran, Mohammed-Reza Djalili, nel suo Gèopolitique de l’Iran, Editions Complexe, Bruxelles, 2005, p. 5, ha proposto l’interessante tema della “geopoetica”.

3. Dopo le “invasioni devastatrici” si apre per la Persia un periodo che lo storico francese Jean-Paul Roux definisce “il rinascimento timuride”. Vedi Jean-Paul Roux, L’Histoire de l’Iran et des Iraniens. Des origines à nos jours, Fayard, Paris, 2006, pp. 374-383.

4. Gli Inglesi sono presenti nel Golfo Persico fin dal 1622.

5. In base ai Trattati di Gulistan (1813) e di Turkmanchai (1828), la Persia perde la Georgia, la Mingrelia, il Dagestan, l’Imeretia, l’Abkhazia, l’Armenia e parte dell’Azerbaijan.

6. Il Trattato di Parigi (1857) tra Inglesi e Persiani mise fine ad ogni pretesa di sovranità persiana sull’Afghanistan.

7. Di importanza storica la concessione rilasciata da Muzaffareddin Shah al britannico William Knox d’Arcy, nel 1901, per “l’estrazione, la raffinazione e la vendita del petrolio per sessant’anni, in cambio di una somma iniziale e di una percentuale sui profitti”, Farian Sabahi, Storia dell’Iran, Bruno Mondadori, Milano, 2006, p. 15. Si deve a William Knox d’Arcy la scoperta del primo importante giacimento di petrolio a Masjid-e Soleiman, nel Khuzistan (26 maggio 1908). Sui retroscena del rilascio della concessione petrolifera a d’Arcy, si veda anche Anton Zischka, La guerra per il petrolio, Bompiani, Milano, 1942, pp. 237-250.

8. Farian Sabahi, op. cit. p. 41.

9. In particolare gli ulema Seyed Muhammad Tabatabai e Seyed ‘Abd-Allah Behbahani. Sugli attori della “rivoluzione costituzionale” vedi Farian Sabahi, op. cit., p.36. Sull’occidentalizzazione dell’Iran e sul parallelo tra la rivoluzione costituzionale e il movimento dei Giovani Turchi, vedi nello stesso testo, pp. 50-54.

10. Farian Sabahi, op. cit. p. 41.

11. Nel 1904 l’Ammiraglio britannico Lord Fisher, assertore sin dal 1882 di una modernizzazione della flotta, aveva istituito una commissione per la “valutare e suggerire i mezzi al fine di assicurare alla marina gli approvvigionamenti di petrolio”, William Engdahl, Pétrole. Une guerre d’un siècle, Jean-Cyrille Godefroy, Nièvre, 2007, p. 32. Proprio nel 1912 l’Ammiragliato acquisì il controllo dell’Anglo-Persian Oil Company, acquistandone il 5% delle azioni.

12. Il colpo di stato del 1921 fu possibile grazie al finanziamento dei funzionari britannici di stanza a Teheran, il generale Ironside e il ministro Herbert Norman.

13. Scrive Vincent Monteil, “Povero Iran, eternamente alle prese con i vicini del Nord e con le bramosie anglosassoni! Se questi e quelli se la intendono o si scontrano, la cosa ricade sempre sulle spalle di Hasan e Hosen. Uno degli “strumenti” diplomatici più idonei, nell’una e nell’altra ipotesi, è il famoso Trattato irano-sovietico del 1921. Le due Alte Parti Contraenti si impegnano, ognuna sul rispettivo territorio, o su quello degli Alleati, ad impedire la formazione o la presenza di qualsiasi organizzazione, gruppo, truppa o esercito che intenda aprire le ostilità contro la Persia, la Russia o gli alleati della Russia. Le parti si impegnano inoltre ad impedire a terzi l’importazione o il transito del materiale utilizzabile contro una di esse (art. 5). L’articolo 6 è quello che permise all’Esercito Rosso di invadere il Nord dell’Iran nel 1941: “ Se un terzo intendesse servirsi del territorio persiano quale base di operazione contro la Russia, o ne minacciasse le frontiere, e se il Governo persiano non fosse in grado, su richiesta russa, di porre un termine a tale minaccia, la Russia avrebbe il diritto di trasferire le sue truppe all’interno della Persia per compiervi le operazioni militari necessarie alla propria difesa. La Russia s’impegna a ritirare le truppe non appena la minaccia sarà stata sventata”. In uno scambio di lettere, l’ambasciatore sovietico precisava che gli articoli 5 e 6 andavano applicati solo nel caso in cui “tali preparativi venissero attuati in vista di un attacco considerevole contro la Russia o contro le Repubbliche Sovietiche sue alleate, dai partigiani del vecchio regime o dalle Potenze straniere che lo sostenessero”. Si trattava perciò di premunirsi di fronte ad ogni reazione armata ‘controrivoluzionaria’. Era questo il caso della Germania nazista? E quali potrebbero essere in futuro le interpretazioni del Trattato del 1921? In ogni modo l’Iran non può permettersi di inasprire un paese dieci volte più popoloso e del quale lo dividono 2.500 chilometri di frontiere.”, Vincent Monteil, Iran, Mondadori, Milano, 1960, pp. 44-45.

14. Donald N. Wilber, CIA Clandestine Service History, “Overthrow of Premier Mossadeq of Iran, November 1952-August 1953″, March 1954.

Il documento è reperibile presso il sito www.gwu.edu.

15. G. John Ikenberry, The Rise of China and the Future of the West, Foreign Affairs, January/February 2008, Vol. 87, No 1, pp. 23-37.

16. La CSTO (Collective Security Treaty Organization) è un’organizzazione, costituita il 15 maggio 1992 tra i Paesi della Confederazione degli Stati Indipendenti; è finalizzata alla cooperazione militare tra Russia, Armenia, Bielorussia, Uzbekistan, Kazhakistan, Kirghizistan, Tagikistan. Nel maggio del 2007 il Segretario generale della CSTO, Nikolaj Bordyuzha, ha invitato l’Iran a diventarne membro effettivo, rilasciando la seguente, diplomatica, dichiarazione: “La CSTO è un’organizzazione aperta. Se l’Iran presentasse la sua candidatura in accordo col nostro statuto, noi la prenderemmo in esame”.

17. Mahdi D. Nazemroaya. Plans for Redrawing the Middle East: The Project for a “New Middle East”, nesso

18. Franz Altheim, Dall’antichità al Medio Evo. Il volto della sera e del mattino, Sansoni, Firenze, 1961, p. 31-35.

19. The “Strategic Partnership” Between India and Iran, Asia Program Special Report, No. 120, Woodrow Wilson International Center for Scholars, Washington , DC, april 2004.


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Editoriale
La funzione eurasiatica dell’Iran (Tiberio Graziani)

Eurasiatismo
Iran, regno ariano e impero universale (Come Carpentier de Gourdon)
L’Iran in Europa (Claudio Mutti)
Sol Invictus (Yves Branca)

Dossario: Geopolitica dell’Iran
L’Iran tra Reza Shah e Mosaddegh: modernizzazione, nazionalismo e colpo di stato (Pejman Abdolmohammadi)
Il conflitto economico americano con l’Iran. La grande occasione russa (Roberto Albicini)
Iran. Sport ai massimi livelli e riscatto per le donne musulmane (Giovanni Armillotta)
La Repubblica Islamica: dati e situazione (Aldo Braccio)
Spigolature fra Teheran e Ankara (Aldo Braccio)
La profezia che si autoavvera? Nuclearizzazione del conflitto tra Iran e USA (Michele Gaietta)
Iran: geopolitica e strategia di sviluppo (Vladimir Jurtaev)
Lo scudo sciita (Alessandro Lattanzio)
La borsa del petrolio (Filippo Romeo)
Geopolitica del petrolio e del gas in Iran (Filippo Romeo)
Gli Ayatollah e il Dragone d’Oriente (Vincenzo Maddaloni)

Geopolitica e diritto internazionale
La riforma del Consiglio di Sicurezza (Paolo Bargiacchi)
Carl Schmitt e gli USA (Francesco Boco)
Le Malvine e il dominio dell’Antartide (Leon Cristalli)
Carl Schmitt, il katechon e l’Eurasia (Massimo Maraviglia)
Il caso Calipari (Gianluca Serra)
La globalizzazione e la risoluzione dei conflitti (Stefano Vernole)

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Claudio Mutti, L’unità dell’Eurasia

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Claudio Mutti
L’unità dell’Eurasia
con una prefazione di Tiberio Graziani
Effepi, Genova 2008
pp. 192, € 20,00

Presentazione

Negli ultimi anni, almeno a far tempo dal collasso dell’Unione Sovietica, si è assistito ad un rinnovato interesse verso l’analisi geopolitica quale chiave interpretativa per la comprensione dei mutati rapporti fra gli attori globali e, soprattutto, quale ausilio per la decifrazione dei nuovi possibili scenari.

In tale ambito, l’Eurasia sembra costituire, considerando i numerosi studi che la riguardano, un privilegiato campo d’indagine.

Analisti influenti come ad esempio l’atlantista Brzezinski o i neoeurasiatisti Dugin e Zjuganov concordano, pur da punti di vista diversi e decisamente antagonisti tra loro, sul fatto che il futuro del pianeta si giochi sulla scacchiera eurasiatica.

All’inarrestabile e lunga offensiva sferrata dagli USA contro la massa continentale eurasiatica tra il 1990 e il 2003 (1) pare contrapporsi, a partire almeno dall’ultimo quinquennio, una sorta di reazione che si esprime, per ora, attraverso l’intensificazione di nuove e profonde collaborazioni strategiche tra Pechino, Nuova Delhi e Mosca ed il continuo rafforzamento dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai (SCO).

Queste intese sembrerebbero preludere a un’inedita ed articolata integrazione del continente eurasiatico che, passando – per evidenti motivi di opportunità – sia sopra sia le differenze culturali, religiose, etniche, sia sopra le particolari aspirazioni nazionali delle popolazioni che lo abitano, vanificano le aspettative dei propagandisti dello “scontro di civiltà”.

La teoria dello scontro di civiltà, come noto, è stata messa a punto da Samuel Huntington, l’ex consigliere di Johnson al tempo del conflitto vietnamita. Lo studioso americano, in diversi articoli e principalmente nel suo The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, (New York, Simon & Schuster, 1996), ha ipotizzato che i conflitti tra le varie popolazioni del pianeta, ed in particolare tra quelle che abitano l’Eurasia, non trarrebbero origine principalmente da cause ideologiche o economiche, bensì da motivazioni culturali, precipuamente religiose. Per Huntington la politica globale del XXI secolo sarà dunque dominata dallo scontro di civiltà. Questa particolare lettura della storia, quella cioè dell’inconciliabilità delle civiltà, ha influenzato vasti settori dell’opinione pubblica occidentale e costituisce, tuttora, uno dei riferimenti costanti dei numerosi think tank d’oltreoceano specializzati nella individuazione delle aree calde o d’instabilità dell’Eurasia.

In realtà, nella storia non si sono mai verificati degli scontri di civiltà, ma piuttosto degli incontri e delle contaminazioni tra le varie culture. In particolare nell’Eurasia, nel cui spazio sono presenti la quasi totalità delle civiltà del pianeta.

L’Eurasia, infatti, ancor prima di essere un concetto utile all’analisi geopolitica e geostrategica, è, si potrebbe dire, un’idea culturale, la cui unitarietà è dimostrata dalla sua stessa storia.

L’opposizione tra Europa ed Asia è sempre stata una opposizione artificiale, sovente frutto di interpretazioni storiche strumentalizzate, principalmente dagli Europei, a fini egemonici, dunque strettamente connessa a prassi geopolitiche. Basti pensare all’epoca del colonialismo di spoliazione ed alla sovrastruttura ideologica che lo sosteneva, al “white man’s burden” (2) del cantore dell’imperialismo britannico, Rudyard Kipling e, soprattutto, alla sua nota composizione letteraria The Ballad of East and West, dove lo scrittore e poeta inglese teorizza esplicitamente, nel famoso verso East is East, and West is West, and never the twain shall meet, l’inconciliabilità tra le culture orientali ed occidentali (3).

Ma, a ben guardare, la contrapposizione “ideologica” tra Europa ed Asia, tra Occidente ed Oriente, risale forse ancor più indietro, a certe tendenze maturate in seno al cristianesimo, che esaltando la specificità della visione cristiana del mondo ritengono le culture delle popolazioni non europee non solo incivili, ma anche inferiori.

La presunta separazione ed incompatibilità tra le culture asiatiche e quelle presenti nella parte occidentale dell’Eurasia, cioè nella penisola europea, a un più attento esame si è sempre risolta nel principio della polarità. Già Polibio, nelle sue Storie, risolveva l’opposizione tra Oriente e Occidente nella unitarietà del mondo mediterraneo (4), un concetto che venne ripreso e sviluppato brillantemente, alcuni secoli più tardi, dallo storico francese Fernand Braudel. Peraltro, per gli antichi la terra abitata e conosciuta era considerata al pari di una casa comune (oikouméne ghê). Secondo lo storico olandese Huizinga “nella storia antica, in quanto ci è nota, non troviamo mai l’Oriente contrapposto esplicitamente all’Occidente” [5]. Per l’autore dell’ Autunno del medioevo e di Homo Ludens, anche la civiltà islamica ha ignorato la scissione tra Oriente e Occidente, tra Asia ed Europa dunque [6].

L’unitarietà profonda delle molteplici e variegate civiltà eurasiatiche non è mai stata messa in dubbio, ma anzi è stata sempre riscontrata e riconfermata dalle scoperte archeologiche, dalle ricerche etnografiche e, in particolare, dallo studio comparato delle religioni e dei miti.

Quantunque esistano, quindi, analisi e ricerche specifiche sull’unità culturale dell’Eurasia, nondimeno si deve ancora constatare a tale riguardo la mancanza di studi sistematici e organici.

I lavori di un Gumilëv, come anche di un Altheim, sull’influenza della cultura mongola e unnica nel mondo slavo-russo e germanico e sulla genesi degli attuali popoli asiatici ed europei, o quelli di un Giuseppe Tucci sul mondo tibetano e sulle culture dell’Estremo Oriente e la loro parentela con il pensiero antico, oppure quelli di un Eliade dedicati alla comparazione delle religioni e dei miti, o, ancora, quelli di un Dumézil e di un Benveniste per quanto riguarda gli studi cosiddetti indoeuropei, o infine quelli della scuola degli eurasiatisti russi degli anni venti e trenta del XX secolo, tra cui certamente il linguista Trubeckoj, costituiscono indubbiamente le basi metodologiche per intraprendere una tale impresa. A ciò si potrebbero aggiungere anche i risultati e le metodologie acquisite dagli studiosi delle scienze cosiddette tradizionali, come, tanto per citare qualche nome, Guénon, Coomaraswamy, Schuon, Evola, Burckhardt, Nasr.

È proprio nell’ambito della scoperta, o meglio della riscoperta, dell’unitarietà delle culture eurasiatiche che i saggi di Claudio Mutti qui raccolti trovano la propria corretta collocazione; soprattutto, oltre ad offrire una valida introduzione a questa tematica – in Italia ancora in via di definizione – essi apportano nuovi spunti di riflessione, utili non solo allo sviluppo di tali ricerche, ma anche alla comprensione di importanti snodi storici di quell’ecumene che, per dirla con Eliade, peraltro a ragion veduta citato dall’Autore, si estende dal Portogallo alla Cina e dalla Scandinavia a Ceylon. La peculiarità degli studi qui presentati risiede, a nostro avviso, nel costante riferimento che Mutti presta alle dinamiche geopolitiche dello spazio eurasiatico; un riferimento destinato certamente a suscitare una comune coscienza geopolitica tra le popolazioni che attualmente abitano la massa eurasiatica.

Tiberio Graziani
Direttore della rivista “Eurasia”

Note:

1. Prima Guerra del Golfo (1990-1991); aggressione alla Serbia (1999), nell’ambito della pianificata disintegrazione della Confederazione jugoslava; occupazione dell’Afghanistan (2002); devastazione dell’Iraq (2003). A ciò occorre aggiungere anche l’allargamento della NATO nei Paesi dell’Europa orientale e le cosiddette “rivoluzioni colorate” quali significativi elementi di intromissione da parte della potenza d’oltreoceano in quella che fu la sfera d’influenza della maggior potenza eurasiatica del XX secolo, l’Unione Sovietica.

2. Il popolare componimento di Rudyard Kipling venne pubblicato col sottotitolo The United States and the Philippine Islands nel 1899; esso si riferiva alle guerre di conquista intraprese dagli Stati Uniti nei confronti delle Filippine e di altre ex-colonie spagnole.

3. Per una rapida riflessione sulla questione del concetto di Occidente in rapporto all’identità europea, si veda in questo stesso volume il capitolo su “L’invenzione dell’Occidente”.

4. Ma ben prima di Polibio anche Erodoto. Scrive a riguardo Luciano Canfora “…proprio ai Greci spetta la responsabilità di aver separato ‘Barbari’ da ‘Greci’. Nel primo rigo delle Storie di Erodoto Greci e Barbari costituiscono ormai una consolidata polarità, sebbene proprio Erodoto sia più cosciente di altri di quanto i concetti fondamentali dei Greci, a cominciare dalle denominazioni delle divinità (II, 50), venissero da lontano.”, in Il sarto cinese, nota a Arnold Toynbee, Il mondo e l’Occidente, Sellerio editore, Palermo, 1992, p. 107.

5. Johan Huizinga, Lo scempio del mondo, Bruno Mondadori, Milano, 2004, p.26.

6. Johan Huizinga, op.cit., p. 35 e seguenti.

Préface à l’édition italienne de la Planète Emiettée

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Tiberio Graziani: Prof. Thual, voulez-Vous nous décrire les motivations qui Vous ont poussé à vous intéresser à une discipline comme la géopolitique ? Comment est-il né vôtre intéresse pour cette discipline ?

François Thual: Mon intérêt s’est forgé au travers d’une double expérience, celle de mes études supérieures où j’ai eu la chance d’avoir Raymond Aron et Jean-Baptiste Duroselle, comme professeurs en sociologie et en histoire des relations internationales et celle de mon expérience familiale. Ma famille a été très marquée par les deux guerres mondiales, moi-même je me suis retrouvé orphelin en 1945 et j’ai été adopté par une famille adoptive. Mon père était fonctionnaire civil à la Marine nationale et ma mère était alsacienne et mon enfance a été bercée par les récits concernant les deux guerres mondiales. J’ajoute que par l’histoire tragique de mes deux familles, j’ai eu des oncles qui ont servi et sont morts dans différentes armées, non seulement l’armée française mais aussi l’armée italienne en 1917, et l’armée allemande en 1918 car ma mère était alsacienne. Ceci a formé, je dirais, l’horizon indépassable de ma conscience personnelle et qui s’est petit à petit, par mon engagement professionnel au sein du Ministère de la Défense il y a trente-sept ans, transformée par une alchimie interne en un goût pour la compréhension des mécanismes qui règlent les relations des sociétés entre elles.

T.G.:Le fait d’être né en France – c’est-à-dire dans une nation qui, outre avoir été une des Puissances victorieuses de la Seconde guerre mondiale, a eu la possibilité de se douer d’armes nucléaires à fin de souligner son indépendance des USA – a-t-il influencé votre point de vue, vos études ?

F. T.: Pour faire suite à ce que je viens de vous dire, j’ai été élevé dans l’idée que la France avait perdu, entre 1870 et 1945, 2,5 millions de morts dans les trois guerres : guerre de 1870, Première et Seconde guerres mondiales. Mon adolescence a été contemporaine de la mise en place de la force de frappe et elle m’est apparue comme un élément important de la survie de la France face à l’extraordinaire menace que faisait peser, à l’époque, le monde soviétique sur l’Europe occidentale. Concernant les Etats-Unis, mon père me disait toujours qu’il ne fallait jamais oublier que les Américains nous avaient sauvés trois fois : en 1917, en 1945 et pendant la guerre Froide. Mais un peu comme l’a dit le Président Sarkozy, cette amitié pour l’Amérique, cette reconnaissance ne devaient pas empêcher la volonté de demeurer indépendant. Il faut aussi se rappeler que pour la génération de mes parents qui avait connu la défaite de 1940, la défaite de Dîen Bîen Phu et la fin de l’empire colonial, il y avait comme une espèce de catharsis purificatrice de devenir une puissance nucléaire, cela peut paraître aujourd’hui désuet, vieillot, voire dépassé ou déplacé, mais c’était un sentiment assez naturel dans la France de cette époque. Je rappelle que j’ai grandi dans un milieu modeste mais que l’attachement à la patrie faisait partie des valeurs que l’on pratiquait. Mon père était plutôt un homme de centre-gauche mais les dimanches on chantait la Marseillaise.

T.G.: Estimez-Vous valide l’observation du géopoliticien italien, Ernesto Massi, seconde lequel : «La géopolitique est pratique avant d’être doctrine ; les peuples qui la pratiquent ne l’étudient pas ; cependant ceux qui l’étudient pourraient être induits à la pratiquer : il est donc logique que les peuples qui la pratiquent empêchent à les autres à l’étudier». (E.M., Processo alla geopolitica, “L’ora d’Italia”, 8 giugno 1947).

F.T.: La géopolitique est en effet, à mes yeux, une pratique avant d’être une doctrine, c’est simplement la codification des possibilités qu’ont les états de se déplacer sur la scène internationale, à la lumière de leur passé et de leur géographie. D’autre part, pour répondre à la fin de votre question, je ne vois pas en quoi les peuples qui pratiquent la géopolitique, qui ont des centres d’étude peuvent empêcher les autres de l’étudier. Aujourd’hui il n’y a plus aucun cloisonnement possible au niveau de la connaissance avec des nouvelles techniques de la communication.

T.G.: En tenant compte du fait qui la connaissance du territoire et la souveraineté territoriale sont conditions élémentaires pour manifester sa propre liberté, considérez-Vous l’étude de la géopolitique aussi importante pour la formation civile des citoyens que de l’étude de la Constitution?

F.T.: Je pense que comparer l’étude de la géopolitique et celle de la Constitution pour la formation des citoyens n’est pas du même domaine. L’étude de la constitution vise à compléter la formation d’un citoyen, la géopolitique fait partie plutôt de la culture générale. L’étude de la constitution correspond à ce que nous appelons en France l’instruction civique, la géopolitique, elle est de l’ordre de la culture.

T.G.: Vous avez eu le mérite certain d’avoir posé à l’attention du débat sur la géopolitique au moins trois concepts : l’élément identitaire, le “désir de territoire” et la fragmentation de la planète, et de les avoir, dans vos essais et vos études, appliqués, comme des moyens nécessaires pour la compréhension des dynamiques géopolitiques de notre temps. Votre apport théorique et méthodologique à la géopolitique, en outre, a permis à cette discipline de faire compte de l’importance de la religion, en dépassant la simplification de Samuel Huntington sur le choc des civilisations. Quels sont les lignes actuelles de vôtre recherche ?

F.T.: Actuellement, je suis particulièrement passionné par le rôle du ressentiment dans la formation des sentiments nationaux et comme l’a écrit récemment Marc Ferro: «Le rôle du désir de vengeance est quelque chose de très important dans les relations des peuples entre eux». La plupart des identités nationales se sont construites au 19ème siècle et au 20ème siècle contre, contre un voisin, contre un occupant, contre un colonisateur et une fois le rêve de libération réalisé, il demeure cependant un ressentiment et celui-ci, à mon avis, continue de peser très lourd dans l’avenir.

Je pense notamment à la Chine qui n’est pas prête d’oublier le siècle d’humiliation qu’elle a subi entre 1848 et 1949, par l’occupation des puissances occidentales. A ce sujet, ce que l’on appelle les pays émergents sont pour nombre d’entre eux des pays qui ont eu une histoire marquée par un abaissement et il faut être bien conscient que ceci continuera de conditionner longtemps sur la géopolitique des grandes et des petites nations ainsi que sur la conscience et les stratégies géopolitiques de ces pays.

J’ai évoqué le cas de la Chine mais on peut y ajouter, parmi les puissances émergentes, celui de l’Afrique du Sud et de l’Inde. Le ressentiment est un des éléments du génome identitaire des peuples, en général il se porte contre les voisins et malgré tous les efforts de la diplomatie internationale et les volontés de paix de vous tous, dans l’inconscient des peuples si celui-ci perdure. Donc voilà, à peu près, l’axe de mes recherches car, comme l’a dit Goethe: «On écrit toujours un seul livre dans la vie» et moi je continue de me poser la question du carburant identitaire dans les conflits et l’inscription de ce carburant identitaire sur les espaces territoriaux.

T.G.: À l’inverse de beaucoup des géopoliticiens contemporains, Vous avez toujours tenu à souligner, en particulier dans les introductions à vos nombreuses études, l’importance des étroites relations qui lient la pratique et la théorie des concepts et des outils d’investigation des analyses géopolitiques. En parcourant vos considérations au sujet de tels rapports, on a l’impression que votre pensée, après avoir initialement refusé de considérer la géopolitique comme une science (une branche des sciences politiques), soit évoluée vers une définition, pour ainsi dire, plus scientifique de la même. Dans quelle mesure peut-on soutenir que la géopolitique est une science ?

F.T.: Je n’ai pas évolué de mon point de vue, c’est-à-dire que je considère que la géopolitique est une science humaine mais quand je veux dire science je ne veux pas dire qu’elle est scientifique; c’est plutôt dans le sens français de sciences humaines, c’est-à-dire que la science des sociétés, notamment de leurs relations. La géopolitique est une méthode qui doit apprendre à lire chaque conflit qui surgit. On doit se poser la question de savoir : Qui veut quoi ? Pourquoi ? Quand ? Où ? Comment ? Avec qui ? Contre qui ?

Cette méthode géopolitique doit être appliquée avec une extrême modestie et une grande prudence parce qu’elle ne cesse d’être contestée dans ses fondements par la pluralité des facteurs intervenants et aussi par l’aléatoire. Dans le cours que je fais aux officiers à l’Ecole Supérieure de Guerre, je rappelle toujours des évènements mineurs qui auraient pu avoir des conséquences majeures. Ainsi, que se serait-il passé si Lénine avait été écrasé par un tramway alors qu’Alfred Jarry lui apprenait à faire du vélo à Montparnasse ? La révolution russe aurait certainement éclaté devant la dégradation du pays, d’autre part que se serait-il passé si Bismarck s’était noyé à Biarritz en 1867 ? L’unité allemande se serait opérée mais il n’y aurait peut être pas eu la guerre de 1870 ? Et qu’est-ce qu’il se serait passé si le Général de Gaulle était arrivé après les Allemands à Bordeaux pour partir pour l’Angleterre ou s’il avait été abattu lors des deux missions de liaison avec l’armée britannique qu’il effectua en juin 1940 ? La Résistance française se serait développée autrement. Donc la géopolitique doit rester prudente, elle ne doit pas être prophétique et il n’y a pas de loi, c’est pour cela que je m’oppose fortement à la considérer comme une démarche scientifique, maintenant cette géopolitique peut, par imitation, rappeler une démarche scientifique parce qu’elle implique une grande rigueur et l’absence de jugements de valeur, comme l’a dit Spinoza : «Il s’agit ni de rire, ni de pleurer mais de comprendre».

T.G.: Quel conseil donneriez-vous à un jeune européen qui aujourd’hui s’approche à la géopolitique ?

F.T.: Le conseil que je donnerais à un jeune européen c’est de se rendre compte combien il est difficile pour une génération de comprendre celles qui l’ont précédée. Comprendre la géopolitique passe par le fait de remonter dans le passé et de comprendre les structurations mentales collectives et celles des élites qui ont dirigé les pays et les peuples avec neutralité. A titre d’exemple, la colonisation italienne a obéi à un certain nombre de règles de géopolitique, il ne suffit pas pour les géopoliticiens de savoir s’il était bien ou mal de coloniser une partie de l’Afrique pour l’Italie, il s’agit de comprendre pourquoi cela s’est fait à ce moment là et quels étaient les axes naturels de cette expansion, elle-même liée à un certain sentiment d’ambition et d’humiliation qui avait suivi l’unité nationale après 1919. Le plus important est d’apprendre à voir le monde non pas avec des lunettes de son âge mais avec les lunettes de ceux qui ont fait la géopolitique précédemment et dont la géopolitique actuelle n’est que l’héritage à décrypter. Ce n’est pas si facile que l’on peut l’imaginer. Comment les Chinois au 19ème siècle voyaient-ils le monde peut nous aider à comprendre pourquoi cette masse de 400 millions d’hommes s’est laissée conquérir par quelques bateaux venus de l’autre bout du monde qu’ils auraient très bien pu rejeter à la mer. La vraie question, pour reprendre une analyse célèbre, c’est la différence entre connaître et comprendre ? Or comprendre est la base de la géopolitique pour un jeune européen. Moi-même j’ai des enfants qui ont trente-cinq ans, et quand je vois mes petits-enfants je me demande comment je leur expliquerai ce que m’expliquait mon grand-père sur l’arrivée des Allemands en Alsace en 1870 ou des Français fin 1918.

La barrière intellectuelle entre les générations est plus grande que la barrière comportementale et cela est quelque chose qui est difficile à comprendre parce que les mentalités collectives continuent de charrier des idées toutes faites, des rancœurs, des fausses perceptions et des fausses conceptions. Je suggère à un jeune européen une cure d’ascèse géopolitique consistant à se séparer des idées toutes faites…

T.G.: Prof. Thual, dans votre étude dedié a la fragmentation de la planète, La planète émiettée, Vous avez rappelé, comme élément brisant pour les unités géopolitiques supernationales, le principe d’autodétermination des peuples à disposer d’eux-mêmes, du président américain Wilson. Selon votre point de vue, ce principe a-t-il été instrumenté de la Grande-Bretagne et des Etats Unis d’Amérique, dans le cours du siècle passé aux dommages de l’Europe et du Proche et du Moyen Orient? C’est à dire, a-t-il été un élément constitutif des pratiques géopolitiques de ces deux nations, finalisé à leur affirmation à niveau mondial ? Et si oui, quelles ont été les modalités et les temps ?

F. T.: Je voudrais préciser que la Grande-Bretagne s’est ingéniée au début du 19ème siècle à fragmenter l’espace espagnol américain ainsi que les Etats-Unis mais que concernant le Brésil, Londres a joué la carte de l’unité de ce pays pour essayer de le conserver dans son influence car le Portugal était depuis longtemps un client de la Grande-Bretagne. Quant aux Etats-Unis, eux, ils souhaitaient fragmenter l’Amérique du Sud pour la même raison que les Britanniques. Cette stratégie, on la retrouve dans les Balkans dès la fin du 19ème siècle et puis dans la liquidation de la première guerre mondiale au Moyen-Orient où l’on a créé plusieurs entités au sein du monde arabe. Cela veut dire que la France aussi s’est adonnée au sport du charcutage. Donc ce n’est pas seulement les Anglais et les Américains mais c’est dans toutes les grandes puissances que, à un moment ou à un autre, ont parcellisé la planète. Le phénomène s’est retrouvé lors de la décolonisation de l’Afrique. Ainsi, la France a fait éclater l’Afrique occidentale française et l’Afrique équatoriale française qui étaient deux entités régionales en plusieurs pays indépendants, malgré la volonté de certaines élites de ces pays. L’émiettement géopolitique comme technique de maintien des influences n’est pas le privilège des anglo-saxons. On pourrait prendre des exemples dans d’autres régions du monde. Concernant les Etats-Unis d’Amérique, il faut remarquer qu’en ce début de 21ème siècle, ils poussent plutôt à l’intégration régionale qu’à monter les peuples les uns contre les autres, en Amérique du Sud. De même, objectivement il faut reconnaître qu’au moment de l’indépendance de certaines régions d’Afrique, notamment l’Afrique orientale ou des Emirats du Golfe persique ou encore de la Fédération des Antilles, Londres a joué le regroupement. Mais devant l’incapacité des protagonistes de se mettre d’accord que ce soit dans la Caraïbe, dans le Golfe ou en Afrique orientale, à ce moment là Londres a laissé jouer à son bénéfice la fragmentation.

T.G.: Dans quelle mesure le principe d’autodétermination, donc le principe de nationalité, est-il lié à l’identitarisme ethnique qui afflige notre planète ?

F.T.: Le principe d’auto-détermination n’est pas lié à l’identitarisme, il est une étape dans le développement de la démocratie mondiale à partir du début du 19ème siècle. Ce principe de respect des peuples évidemment est lié avec la notion d’identité mais il a souvent dérapé dans un identitarisme grave. Son moteur d’origine est une vision éthique de la politique internationale et mondiale.

T.G.: Retenez-vous que l’actuel mouvement indigeniste indio-americain puisse, à courte échéance, représenter un facteur d’instabilité pour le sub-continent américain?

F.T.: Ma réponse est non sauf dans un cas assez précis qui est celui de la Bolivie parce que d’un côté vous avez la montagne indienne surpeuplée et misérable et de l’autre côté la plaine plus européanisée et riche. Les riches ne veulent pas payer pour les pauvres, c’est souvent l’une des raisons de la fragmentation de la planète, comme on l’a vu dans le refus de la Jamaïque de faire une fédération des Antilles parce qu’à l’époque elle était riche de la bauxite et comme on l’a vu aussi avec les Emirats du Bahreïn, du Qatar ou du Koweït qui refusèrent de rentrer dans la fédération anglaise pour garder leurs propres ressources. De même, un cas intéressant est celui de la Malaisie où le Sultanat du Bruneï refusait d’intégrer la grande Fédération de Malaisie comme Singapour, d’ailleurs. Pour en revenir aux Indiens d’Amérique du Sud, ils sont trop éparpillés pour créer des Etats sauf dans le cas de la Bolivie qui pourrait éclater en deux. Par contre, au niveau de la politique intérieure, le « réveil de l’Indien » est un facteur déterminant qui n’a pas fini de connaître des échos politiques et géopolitiques.

T.G.: Dans le domaine des conflits ethniques, quels sont les caractères qui connotent et diversifient l’indigenisme indioamericain, les “tribalismes” balkanique et africain?

F.T.: Ce qui est intéressant dans l’indigénisme indo-américain c’est qu’il s’agit d’une décolonisation dans la décolonisation. Les états d’Amérique latine se sont décolonisés il y a maintenant deux cents ans. Or ce n’est que maintenant que surgit ce réveil identitaire indien qui représentera des caractéristiques importantes, notamment en raison de la surpopulation des régions d’Amérique centrale. Le catholicisme dans ces régions a masqué la réalité de l’organisation de ces sociétés qui est profondément raciale. Le statut social dans beaucoup de pays d’Amérique latine se lit à la couleur de la peau. Les élites issues de la colonisation hispano-portugaise sont blanches, bien sûr ceci n’a pas très grand sens mais l’Amérique du Sud a pratiqué un apartheid sans le dire, ce qui fait qu’aujourd’hui le mouvement indien n’est pas seulement ethnico-folkloriste, il est le mode d’expression d’une « lutte des classes » exaspérée par la pression démographique.

T.G.: La réorganisation de l’Europe sur des bases unitaires semble être un point de départ pour la constitution d’une unité géopolitique. L’Union Européenne, comme nous savons, est un des pivots du soi-disant système occidental. Avec les USA et le Japon, elle constitue ce que Vous avez dénommé la Triade. Nous constatons même que l’Occident, comme système, est dominé par les USA, lesquels, évidemment, poursuivent des buts “nationaux”, souvent en antithèse avec les intérêts géopolitiques européens, en particulier dans l’aire proche orientale et dans les rapports avec la Russie. L’Europe, qui est situé entre la Méditerranée et la Russie, devra donc choisir si elle doit être une périphérie du système occidental américocentrique (donc, un impérialisme du deuxième niveau, un subimpérialisme) ou un acteur géopolitique global. Quelle est votre analyse à cet égard ?

F.T.: L’Europe, à mes yeux, ne sera jamais une entité géopolitique capable d’être un acteur global. La raison en est très simple : elle est composée de grands pays qui continuent, par delà les discours lénifiants, à mener des objectifs personnels. Le fondement de l’Europe a été, dans les années 50, la peur de l’Union soviétique et la peur d’un retour du militarisme allemand. Ces deux menaces aujourd’hui disparues, l’Europe est devenue un club de riches qui accueillent des moins riches, voire des pauvres, pour les faire travailler, je pense aux récents états balkaniques comme la Bulgarie et la Roumanie. A partir de là, comment voulez-vous qu’une unité se fasse ? La question n’est pas une question d’une supranationalité. C’est la question d’une addition de pays qui continuent de poursuivre leurs buts d’expansion économique et géopolitique. Il n’y aura pas de sub-impérialisme européen pour la bonne raison qu’il y a quand même quatre ou cinq mini impérialismes qui survivent au sein de l’Europe : l’Italie, la France, l’Angleterre, l’Allemagne et l’Espagne continuent de poursuivre des buts non plus d’acquisition territoriale mais d’influence politique et économique. En ce sens, l’Europe semble condamnée à demeurer un ensemble protéiforme et pluripolaire.

T.G.: Dans un conteste mondialisé comme l’actuel, estimez-vous que la simple réorganisation “régionale” de la planète, d’autre part sur des bases exclusivement économiques, qui imposent en plus le système économique occidental libéral capitaliste, puisse contenir des ultérieures poussées de désintégration de la planète et limiter, donc, les tensions entre nation et nation, réduire le “désir de territoire” et les pulsions identitaires ?

F.T.: Il me semble qu’il y a une déconnexion entre les organisations régionales de la planète fondées sur des critères économiques et la persistance des tensions identitaires. Un exemple est intéressant c’est celui de l’Asean qui regroupe un pays catholique : les Philippines, deux pays musulmans et des pays bouddhistes et qui, surtout, englobent des nations qui n’ont cessé depuis des siècles de se faire la guerre comme la Thaïlande et la Birmanie, la Thaïlande et le Vietnam, le Cambodge et la Thaïlande, voire plus récemment la Malaisie et l’Indonésie. La perspective de développement économique modifie les modalités du désir de territoire mais pour autant supprime-t-il la libido territoriale ? Je ne le crois pas. Il en modifie la temporalité et les modalités d’action quotidienne. Les organisations régionales ont une vertu « anti-inflammatoire » mais elles n’ont pas pour autant la capacité d’éradiquer les tumeurs identitaires ! Mon propos s’adresse essentiellement à des pays non européens bien qu’à y regarder de près personne ne semble à l’abri d’un retour de désirs de territoire. L’Union européenne qui a plus de cinquante ans, pourra-t-elle empêcher l’éclatement de la Belgique, le départ de l’Ecosse du Royaume-Uni et la Catalogne du Royaume d’Espagne ? L’affaire est à suivre mais les anti-inflammatoires n’ont jamais guéri aucune maladie.

T.G.: Les groupements régionaux représentent-ils une forme de sub-impérialisme, dans le sens que vous avez donné à ce mot dans votre essai Contrôler et contrer (p. 33) ?

F.T.: En général, non, parce que, comme nous venons de le dire, il regroupe des pays aux intérêts contradictoires, un cas simplement à souligner parce qu’il est tellement évident qu’il passe inaperçu. L’Asean n’est-il pas en fait une colonie de la Chine ? Je ne cherche pas à être un provocateur en disant cela mais à indiquer que les économies de ces pays sont toutes contrôlées par les diasporas chinoises. Alors est-ce une forme de sub-impérialisme ou le produit du hasard, voire de la nécessité ? Je constate tout simplement ce fait.

T.G.: Dans la préface à La planète émiettée, l’Amiral Pierre Lacoste a soutenu, avec raison, que votre essai a l’indubitable mérite d’offrir une lecture “autre” des procès de mondialisation. La géopolitique, donc, comme matière multidisciplinaire, se révèle un excellent moyen pour mieux définir les dynamiques de ces procès. Quel est-elle la relation qui se passe entre mondialisation (globalisation) et analyse géopolitique ?

F.T.: La mondialisation porte sur des processus économiques, financiers ainsi que sur des problèmes d’opinion publique, de médias et d’information. Pour autant, les vagues de mondialisation peuvent-elles submerger les rochers que forment les blocages identitaires. Je ne pense pas que les identités doivent se dissoudre dans la mondialisation et je ne suis pas loin de penser que la mondialisation favorise au contraire la montée des identitarismes en réaction. En tout cas, cela est vrai pour les identitarismes à connotation religieuse comme l’islamisme.

T.G.: L’Amiral Pierre Lacoste, toujours dans la préface avant citée, a souligné votre emploi de formules empruntées à la science médicale (manipulations génétiques, microchirurgie spatiale, pour décrire la fragmentation de la planète; convulsions, thromboses, collapsus, pour représenter les dynamiques qui affligent les Nations contemporaines). Je vous demande, donc, sur la base des données de votre diagnose, quels sont la prognose et les thérapies pour notre planète.

F.T.: Si vous souhaitez, avec l’amitié que vous me portez et la connaissance de mes travaux que je finisse cette introduction en restant dans le domaine médical, je vais vous dire que le diagnostic et les pronostics de survie de l’espèce humaine me paraissent être les suivants : obésité démographique entraînant des migrations elles-mêmes source de nouvelles tensions identitaires implacables, notamment en Asie ; militarisation continue de la planète : incapacité à surmonter les traumatismes de jeunesse d’où un bel avenir pour les crises identitaires. Accentuation du fossé entre les riches puissants, les moyennement riches et les pauvres, sans parler des très pauvres. Renforcement des inégalités, elles-mêmes consolidées par la possession ou la non possession de technologies modernes dans différents domaines. L’avenir est sombre et il l’a toujours été et ce ne sont pas les grands courants de pensée méritoire comme les droits de l’homme ou le droit d’ingérence qui changeront quoi que ce soit lorsque ces cataclysmes déferleront sur la planète. Cependant, les convictions philosophiques m’amènent à continuer à avoir une vision positive de l’évolution de la société mondiale. Mais cela risque de se passer dans plusieurs siècles si d’ici là l’espèce humaine n’a pas disparu. Concernant les thérapies je n’en vois que deux : démocratisation par des moyens homéopathiques et psychothérapie de groupe. Les faits identitaires ne sont pas des faits définitifs, je me souviens de ma jeunesse, de la haine qui régnait en France contre l’Allemagne, quand j’en parle aujourd’hui à mes petits-enfants, ils ne peuvent pas comprendre ce vécu ; c’est dire qu’il y a quand même des progrès entre les peuples mais en général les gens progressent mieux quand ils peuvent manger et qu’ils ont un peu de biens. Le développement économique qui risque d’être obéré et court-circuité par l’explosion démographique, même si celle-ci est appelée à se ralentir, n’est pas porteur de bonnes nouvelles pour la géopolitique. En ce sens, votre revue que je remercie de m’avoir interviewé et d’avoir fait paraître mon livre a un bel avenir, car pour finir sur une note réaliste, n’oublions jamais que le monde est plein de conflits en gestation. Ceci ne nous apparaît pas évident dans notre Europe si paisible (pour l’instant), mais regardez l’Afrique, regardez l’Asie et regardez l’Amérique du Sud et même l’Amérique du Nord avec les conflits qui pourraient surgir entre les hispano et les autres Américains. Lorsque j’ai écrit « La planète émiettée » c’était la traduction spatiale, géographique des conflits identitaires. J’ai essayé d’être le plus objectif possible, cette objectivité me reconduit chaque jour à une vision pas très optimiste de l’avenir immédiat mais il reste les plaisirs de l’esprit, notamment de l’esprit géopolitique.

Il tempo dei continenti e la destabilizzazione del pianeta

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La riaffermazione della Russia quale attore mondiale, insieme alla poderosa crescita economica dei due colossi eurasiatici, Cina ed India, pare aver definitivamente sancito, nell’ambito delle relazioni internazionali, la fine della stagione unipolare a guida statunitense e posto le condizioni, minime e sufficienti, per la costituzione di un ordine planetario articolato su più poli. Un nuovo ciclo geopolitico sembra dunque profilarsi all’orizzonte. Le entità geopolitiche che caratterizzeranno questo nuovo ciclo non saranno, verosimilmente, le nazioni o le potenze regionali, bensì i grandi spazi continentali.

Un nuovo ciclo geopolitico

Il nuovo assetto internazionale realizzatosi dopo l’11 settembre 2001 si deve soprattutto ad almeno tre fattori concomitanti: il primo concerne la politica eurasiatica avviata da Mosca, subito dopo la fine della presidenza El’cin, a partire dal 2000-2001; il secondo è da individuarsi nel particolare sviluppo economico dell’antico Impero di Mezzo, che, intelligentemente integrato dalla dirigenza cinese nel quadro di una strategia geopolitica di lungo periodo, renderà Pechino non soltanto un gigante economico, ma uno dei principali protagonisti della politica mondiale del XXI secolo; il terzo, infine, è da mettersi in relazione all’azione di penetrazione militare degli USA nello spazio vicino e mediorientale, che Washington accompagna, sinergicamente, con una intensa attività di pressione politica ed economica in alcune zone critiche, come quella centroasiatica.

I fattori sopra ricordati hanno evidenziato alcuni importanti elementi utili per l’analisi geopolitica dei futuri scenari mondiali: la centralità della Russia quale regione perno dell’Eurasia, l’importanza della Cina quale elemento di bilanciamento nella massa continentale eurasiatica e di equilibrio per l’intero Pianeta, e riproposto, su scala mondiale, le tensioni permanenti tra potenze talassocratiche, rappresentate oggi dagli USA, e quelle continentali, costituite principalmente dalla Russia e dalla Cina.

Per la prima volta, dopo la dissoluzione dell’URSS, assistiamo al rafforzamento ed alla messa a punto di importanti dispositivi geopolitici, come ad esempio l’Organizzazione della Conferenza di Shanghai e l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva dei Paesi della Confederazione degli Stati Indipendenti, che coinvolgono la Russia e i principali Paesi del continente asiatico. Tali dispositivi sono aperti significativamente anche a Pakistan, Turchia e Iran, ma escludono le Potenze occidentali e gli USA. A ciò occorre aggiungere anche i tentativi e le aspirazioni sudamericane relative alla costituzione di un sistema di difesa del subcontinente indiolatino svincolato da Washington (1).

La paziente e continua opera di tessitura, attuata da Putin, ed ora proseguita diligentemente dal suo successore Medvedev, di speciali relazioni tra la Russia,l’India, la Cina, l’Iran ed i paesi centroasiatici ha certamente rallentato l’espansionismo statunitense nel cuore dell’Eurasia, ed irritato fortemente quelle lobby europee e d’oltreoceano che auspicavano, all’inizio degli anni novanta del secolo scorso, a forza di “ondate democratiche”, o meglio di “spallate democratiche” (2), come si vedrà più tardi con le aggressioni e le “guerre umanitarie” dell’Occidente americanocentrico alla ex Federazione jugoslava, all’Afghanistan, all’Iraq, l’unificazione del Pianeta sotto l’egida di Washington, campione dell’Umanità, e, innanzitutto, la realizzazione di un governo mondiale basato sui criteri liberisti dell’economia di mercato.

In riferimento allo scacchiere mondiale, la formazione di una sorta di blocco eurasiatico, per ora ancora allo stato embrionale e peraltro sbilanciato verso la parte orientale della massa continentale, a cagione principalmente dell’assenza dell’Europa quale coesa entità politica e del suo innaturale inserimento nel campo “occidentalista”, ha, inoltre, innegabilmente favorito, per effetto di polarizzazione, le tendenze continentalistiche di alcuni governi del Sudamerica (Argentina, Brasile, Venezuela e Bolivia), avvalorando, quindi, l’ipotesi realistica di un costituendo scenario multipolare, articolato su entità geopolitiche continentali (3).

Nuove e vecchie tensioni

Il timore di una saldatura degli interessi geopolitici tra le grandi potenze eurasiatiche (Russia, Cina ed India) e le tendenze continentalistiche di alcuni governi sudamericani (4) hanno destato, negli ultimi tempi, una rinnovata attenzione del Dipartimento di Stato degli USA e di alcuni think tank atlantici, preposti alla individuazione delle aree di crisi ed alla definizione di scenari geopolitici in sintonia con i desiderata e gli interessi globali di Washington e del Pentagono, verso quelle regioni della massa continentale eurasiatica – e del subcontinente indiolatino – più esposte alle lacerazioni causate da storiche e tuttora irrisolte tensioni endogene.

È dunque nella prospettiva di un’azione di disturbo e pressione verso la Cina, la Russia, l’India ed alcuni governo sudamericani, che, pensiamo, possano essere efficacemente interpretate alcune situazioni critiche poste, con particolare enfasi, all’attenzione della pubblica opinione occidentale dai principali organi di informazione.

Ci riferiamo alle cosiddette questioni della minoranza del popolo Karen e della “rivolta” color zafferano (5) nel Myanmar, alle questioni del Tibet e della minoranza uigura nella Repubblica Popolare Cinese, alla destabilizzazione del Pakistan (6), al mantenimento di una crisi endemica nella regione afghana.

Strumentalizzando le tensioni locali di alcune aree geostrategiche, gli USA, insieme ai loro alleati occidentali, hanno avviato un processo di destabilizzazione – di lungo periodo – dell’intero arco himalayano, vera e propria cerniera continentale, che coinvolgerà otto paesi dello spazio eurasiatico (Nepal, Pakistan, Afghanistan, Myanmar, Bangladesh, Tibet, Bhutan, India).

Questo processo di destabilizzazione è sinergico a quello già avviato dagli USA nella zona caucasica, sulla base delle indicazioni esposte, oltre dieci anni fa, da Brzezinski nel suo La Grande Scacchiera (7); esso sembra, inoltre, congiungersi al Progetto del Nuovo Grande Medio Oriente di Bush-Rice-Olmert volto a ridefinire gli equilibri dell’intera area a favore degli USA e del suo principale regionale, Israele, nonché a riconsiderare i confini dei principali paesi dell’area (Iran, Siria, Iraq e Turchia) lungo linee confessionali ed etniche.

Parallelamente al processo destabilizzatore, tuttora in corso nell’arco himalayano, pare che gli USA, secondo l’autorevole parere del prof. Luiz Alberto Moniz Bandeira (8), ne abbiano avviato uno analogo nel loro ex “cortile di casa”, in Bolivia, precisamente nella “regione della mezza luna”, sulla base delle tensioni etniche, sociali e politiche che affettano l’intera area.

Nell’ambito delle strategie volte a frammentare gli spazi continentali in via di integrazione, vale la pena sottolineare il grande ruolo che hanno svolto e svolgono le Organizzazioni non governative cosiddette umanitarie. Secondo Michel Chossudovsky, direttore del canadese Centre pour la recherche sur la mondialisation (CRM-CRG), alcune di esse sarebbero collegate direttamente ed indirettamente alla CIA, tramite il National Endowment for Democracy, potente organizzazione statunitense creata nel 1983, con lo scopo di rafforzare le istituzioni democratiche nel mondo mediante azioni non governative (9).

La storia del XXI secolo sarà dunque, con molta probabilità, la storia dello scontro fra due tendenze opposte: quella della frammentazione (10) del Pianeta, al momento perseguita dagli USA, e quella delle integrazioni continentali, auspicata dalle maggiori Potenze eurasiatiche e da alcuni governi del subcontinente indiolatino.

Note

1. Marco Bagozzi, Accordi Brasile-Venezuela: verso una alleanza militare sudamericana svincolata da Washington, www.eurasia-rivista.org, 25 aprile 2008.

2. Samuel Huntington, La terza ondata. I processi di democratizzazione alla fine del XX secolo, Il Mulino, Bologna, 1995.

3. Di diverso avviso è Richard Hass, presidente del Council on Foreign Affairs, l’influente think tank statunitense, secondo il quale il XXI secolo si avvierebbe verso un sistema di non polarità, caratterizzato da una ampia diffusione del potere spalmato su diversi soggetti (Stati, Potenze regionali, Organizzazioni non governative, Corporazioni, Organizzazioni internazionali, ecc.) piuttosto che da una sua concentrazione in pochi poli. Richard Hass, The Age on Nonpolarity. What Will Follow U.S. Dominance, Foreign Affairs, vol. 87, n. 3, May/June 2008, pp. 44-56.

4. Raúl Zibechi, Il ritorno della Quarta Flotta: un messaggio di guerra, Cuba debate, 9 maggio 2008, in italiano: www.eurasia-rivista.org, 17 maggio 2008.

5. Vedi in questo stesso numero di Eurasia, 2/2008, F. William Engdahl, La posta geopolitica della “rivoluzione color zafferano.

6. Michel Chossudovsky, La destabilizzazione del Pakistan, www.eurasia-rivista.org, 7 gennaio 2008; Alessandro Lattanzio, Il grande gioco riparte da Islamabad, www.eurasia-rivista.org, 29 dicembre 2007; Giovanna Canzano, La morte cruenta della Bhutto, intervista a Tiberio Graziani, www.eurasia-rivista.org, 28 dicembre 2007.

7. Zbigniew Brzezinski, La Grande Scacchiera, Longanesi, Milano, 1998.

8. Luiz Alberto Moniz Bandeira, A Balcanização da Bolívia, Folha de S.Paulo, 15/07/2007. Una traduzione in italiano di questo articolo si trova nel sito www.eurasia-rivista.org, 25 ottobre 2007. Sullo stesso argomento si veda anche l’intervista a Luiz Alberto Moniz Bandeira, Bolivia, Cuba, la seguridad de Brasil, el petróleo y la realidad del dólar, a cura di www.laondadigital.com e, in italiano, nel sito www.eurasia-rivista.org, 9 maggio 2008.

9. Michel Chossudovsky, Cina e America: l’Operazione psicologica dei diritti umani in Tibet, www.eurasia-rivista.org, 22 aprile 2008.

10. François Thual, Il mondo fatto a pezzi, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 2008. Disponibile su librad.com italia :: nesso

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Questo editoriale è disponibile anche in lingua francese: Le temps des continents et la déstabilisation de la planète“Mondialisation.ca”

Avrasya ve Türkiye

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Avrasya ve Türkiye

Yeni jeopolitik dergisi “Eurasia”nın ilk sayısı çıktı. Yüksek seviyeli bu ilmi derginin yıllık üc sayisi yayınlanacak ve Italya sınırları dışında da dikkatleri üzerine çekmesi hakkidir. Belki Avrupa’da böyle bir projeye acık fikirli bir yaklasım gösteren muhataplar bulunur. “Eurasia”nin perspektifi yalnız dar bir manada uluslar arasi ilişkilere yönelik değil, bunun ötesinde Avrasya Bloku halklarının kültürel ve ruhi bağlantılarına yöneliktir ki, bu bağlantılar geçmiste ve günümüzde bölgenin jeostratejik durumunu belirleyen baslıca unsurlar arasında yerini alir. Bu manada hem ilmi meşgale olarak mevcut jeostratejik şartların tahlili yapilacak ve ayni zamanda Avrasya’nin ruhi birlik gerekliliği üzerinde durulup bu yönde uygun konseptler aranacak. Böyle bir ruhi birlik gerekliliği, Atlantik hipergüclerce bir yandan “kültürler çatısması” ve diğer yandan “asimilasyon potası” olarak dayatılan yanlış ideolojilere karşı Avrasya’nin mevzilenmesi ve kendini ayakta tutması için mecburidir.

Bu vazife hem tahliller ve refleksiyonlar ile umumi-merkezi mesele olan Avrasya’nın siyasi, iktisadi, kültürel, ruhi, tarihi ve ilmi meseleleri vesilesiyle, hem de aynı zamanda kendini empoze eden özel mevzularla müşahhas bir gözlem ile yerine getirilecek.

Derginin 144 sayfalık ilk sayısında Avrasya meselesinin temel unsurlarını ele alan iki makalenin yanında ağırlıklı olarak “Türkiye” mevzuu seçilmiştir. Avrasya’nin jeopolitik önemini gösterici cok iyi bir obje.

Avrasya’nın büyük devleti Rusya yanında Türkiye, yine Avrupa ve Asya’ya sarkan iki kita arasinda köprü olan ve böylece Avrasya’yı teşkil eden kücük Avrasya devletidir. Bu hususiyet Dott. Carlo Terracciano’nun makalesinde (Turchia, ponte d’Eurasia) özellikle belirtilmiştir. Tanınmış jeopolitk teorisyen makalesinde Türk Tarihi’ne umumi bakış ve günümüz jeostratejik konumu hakinda bilgi verirken Türkiye’nin istikbaline dair şu seçeneklere isaret ediyor: Turancilik, İslam ve Avrupa.

Prof. Claudio Mutti bu tarihi bakışı – cogu zaman ignore edilen – köklü bir noktaya cekerek daha derin bir boyut kazandırıyor: Bizans’ın fethinden sonra Osmanlı İmparatorlugu’nda (Roma ottomana) güclü olan Roma nakşı. İslam ve Gelenek (Guenon ve Evola’nın anladıkları manada) üzerinde derin bilgisi ile bilinen yazar bu özelliği gözler önüne sermek icin İslami kaynaklardaki Roma telakkisinden Osmanlı İmparatorluğu’nun Güneydoğu Avrupa’daki pratik iktidar uygulamalarına kadar geniş bir bakış sunuyor. Bilndiği gibi Rumen tarihci Nicolae İorga Güneydoğu Avrupa’daki Osmanlı hakimiyetini “Roma’nin son kolu (Hypostase)” olarak tanımlamıştır. (Buna karşın Batı’da bugün İslami coğrafyada Greko-Latin mirasının ve Hiristiyanliğin – ki hakkikati Kuran-i Kerim’de mevcuttur – eksikliğinden dem vuranlar ne kadar büyük bir cehalet içindeler. Aynı şekilde aydınlanmanın İslami ilimlere dayandığını görmemezlikten gelmek gibi.)

Osmanlı İmaparatorluğu’nun cok özel bir episodu ise Martin A. Schwarz tarafından hatırlatılamkta: 1666 yılında (göstermelik-sahte) bir sekilde İslamiyeti kabul eden ve “İzmir mesihi” diye anılan Sabbatai Zwi’nin mesianik milenyum hareketi (L’eredita di Sabbetay Sevi). Dönme olarak adlandırılan bu çevrelere Hilafet’in yıkımında önemli rol oynadıkları atfedilir. Yazarın ayrıca değindiği üzere cemaatin baglantıları sırf Istanbul ve Kudüs ile sınırlı değildir; ayni zamanda Polonya Yahudilerine (Jakob Frank), Viyana’ya, Paris’e ve Fransız İhtilali’ne (Franz Thomas von Schönfeld namidiger Moses Dobruschka) kadar uzanmakta.

Günümüz jeopolitiğine geri dönelim. Aldo Braccio Türk hükümetince ilerletilen ve son derece büyük jeostratejik önem taşıyan iki modernizasyon projesi hakında bilgilendiriyor (Turchia: la potenza dell’acqua; Oledotti e gasdotti, per se e per gli altri). Birincisi, “Güneydoğu Anadolu Projesi” (GAP) su ile ilgili (icme suyu ihracatı ve enerji kaynağı olarak). Diğeri ise petrol ve gaz boru hatları.

Jeostratejik baş makale ise Sırbistan ve Irak savaşları üzerine iki müstakil araştırma kitabıyla gündemde olan, derginin yazi işleri sorumlusu Tiberio Graziani’nin kaleminden. Bu mana yüklü makalenin (Dall Impero aall’Eurasia) tüm ayrıntılarına giremiyecegiz. Graziani büyük bir ilmi özenle mevcut jeostratejik çıkıs noktasının tüm faktörlerini ele aliyor. Şimdilik Claudo Mutti’nin makalde gecen üc senaryo üzerinde yaptığı toplayıcı acılımını vermekle yetinecegiz (La Turchia e L’Europa): “Birinci senaryo (“euro-okzidental”) Romanya ve Bulgaristan’ın içinde bulundugu fakat Türkiye’nin dışlandığı bir AB çerçevesinde. Jeopolitik açidan böyle bir on yediler Avrupası eksik kalmakta. Çünkü Güneydoğu ayagından (Türkiye) mahrum bır Avrupan’ın Akdeniz’de askeri ağırlığı olamaz. Böyle bir on yediler Avrupası, Avrasya’nın Amerikan taaruzuna köprü başı olmaktan baska bir konumda olamaz. AB dışında kalan ve ABD tarafından kullanılan bir Türkiye Balkanlar’daki gerilimi devam ettirerek ve Hırvatistan, Sırbistan, Bosna-Hersek, Arnavutluk gibi ülkelerin entegre olmalarını engelleyerek Avrupa’yı zayıf düşürücü ciddi bir faktör olur. Bu senaryo “France-Israel” oluşumunun çesitli renkleri olan Ratzinger, Islamofobik ve Neo-Lepantocu güçlerin hakimiyeti ile gerçekleşebilir. İkinci senaryo (“euro-amerikan”) Atlantik cephesini – Ingiltere, Italya, Polonya ve Macaristan misallerinde oldugu gibi – güclendirmek için Türkiye’nin Avrupa Birliği’ne dahil edilmesinden yola cikiyor ve Alman-Fransiz direnişini [Schröder ve Chirac döneminde baş gösteren ABD karşıtı ‘Paris-Berlin mihveri’ kastediliyor] sabote etmeye yöneliktir. Bu strateji (ki Huntington’un tezlerine dayanır) bazi Avrupa ülkelerinde – yaygin İslam karsiti kampanyalara ek olarak – Turkofobik pozisyonlarin daha da yükselmesiyle Avrupa ile Akdeniz havzasındaki müslüman ülkeler arasında derin uçurumların açılmasına yöneliktir. Bu ikinci senaryo Türkiye’nin dahil oldugu – yani jeostratejik bütünlük icinde olan – bir Avrupa’yı göstermekle beraber, bu birlik-bütünlük Türkiye’ye Batı (Atlantik) tarafından biçilen rol icabı baltalaniyor. Böyle bir durumda yine Avrupa ciddi derecede zayıf düşmekten kurtulamaz. Berlusconi, Fini, Panella, Bonino tarafından ön görülen senaryo budur. İkinci senaryoya ilave edilen bir hipotez ise Türkiye’nin AB’ye alınmasının Siyonist yapılanmaya yönelik aynı seye öncülük etmesi ve mazeret gösterilmesi yolundadır. Ankara ve Tel Aviv arasında cereyan eden ve oldukca manidar olan son diplomatik uyumsuzlukları da hesaba katmakla beraber böyle bir ihtimali göz ardı etmemek gerekir. Üçüncü senaryo (”euromerkezci”) Avrupa’nın siyasi ağırlığının Paris-Berlin mihverine kayması ve aynı zamanda Türkiye’nin filoatlantik pozisyonunu değiştirerek kıt’adan yana bir tavır alması koşuluna bağlı. Böylece ABD önemli bir müttefikini yitirmesiyle beraber Avrupa olmazsa olmaz bir unsuru kazanmış olur. Oldukca kırılgan ve Angloamerikan güdümlü üçlü ittifaktan (Londra, Paris, Berlin) Paris-Berlin-Ankara mihverine geçilebilir. Türkiye’nin dahil olduğu bir Avrupa Birliği – NATO’ya gerek kalmaksızın – Boğazların kontrolünü üstlenebilir ve böylece doğrudan enerji kaynaklarına ulaşıp faydalanabilir. Avrupa Birliği ile olan böyle bir bağlantı Kıbrıs ve Kürt sorunlarının da cözümünü bulur. Bu senaryo Brzezinski’nin korktuğu ve Avrasyacıların ümid ettikleri senaryodur (Aleksandr Dugin’in Türk ”Zaman” gazetesine verdiği mülakata bakınız). Avrupa perspektifinden en müsbet olanı bu üçüncü senaryodur. Fakat gerçekleşleşmesi için en azından iki şartın yerine getirilmesi gerekir. Birincisi, son Türkiye genel seçimlerinde zafer elde eden siyasi kampın daha da güçlendirilmesi ve buna paralel olarak kemalist güç merkezlerinin zayıflatılması. İkinci şart ise Avrupa’da ”kültürler çatışması” taraftarlarınca beslenen ve yayılan Turkofobik ve İslamofobik telakkilerin azaltılması veya tamamen yokedilmesidir.” Claudio Mutti’nin özeti buraya kadar. Ayrıca aynı yazar mevzuu bahis makalenin son noktaları ile doğrudan bağlantılı olmak üzere açıklayıcı bir bahis üzerinde duruyor. Bu açıklamalar en gayretli Antitürk propagandistlerden birine dair (Alexander del Valle, La Turquie dans l’Europe). Kendince Islam ve Türkiye uzmanı olan bu şahsın uzmanlık alanına dair utanç verici yanlışları ve çarpıtmaları Mutti tarafından teker teker gözler önüne seriliyor. Bugün Fransız Likud ve B’nai B’rith cevresinde aktif olan bu şahıs iki eski neo-sağcı ”fikir öncüsü” üzerinden milliyetçi – ”kimlikçi” – Fransız gençliğine yönelik absürd bir tesire sahip. Böylece bu genç kesimden Sam Amcaya haçlı seferciler devşiriyor. Mutti’nin izah ettigi gibi güyalardan jeopolitik argümanların temsilcisi bu şahsın, bir takim fobileri tetiklemekten başka bir derdi yoktur. Çünkü Türkiye’nin [yukarda bahsedilen ”üçüncü senaryo” şartlarında] AB’ye alınmasını ABD’nin jeopolitik hegemonyası için tehlike olarak yorumluyor. Bu çevrelerin öncelikle istedikleri Türkiye’nin – ”öncelikli partnerlik” diye adlandırdıkları proje kapsamında – son neticede saf dışı bırakılarak Washington’un emrinde [çevre ülkelere yönelik] ancak bir rahatsızlık faktörü olarak kullanılmasıdır.

Gelecekteki bir Türkiye’nin merkezi önemi Aleksandr Dugin’in geniş bir bakış açısı ile sunduğu Avrasya İdeal’inde (L’idea eurasiatista) yerini almakta. Bunun yanında Dugin Rus dış işlerindeki – mesela Moskova-Tahran mihveri (ki şu günlerde bu oluşuma karşı ABD/İsrail’in en ağır topları devrede), Kafkasya ve Uzak Doğu – yeni gelişmelere de ışık tutuyor. Ayrıca makale başlıgının da hakkını vererek Avrasyacılığın – kendini yenileyici karakteri ve intibak istidatı yüksek olması kaydıyla – plüriversel bir konsept takdim ederek üniverselci Amerikanizme (Atlantikçilik) karşı tavır alıyor: ”Avrasya İdeali, küreselleşmenin Atlantikci versiyonunu rededen devletlere, milletlere, kültürlere ve dinlere uzlaşma ve iş birliği için yeni bir platform oluşturan küresel devrimci bir konsepttir.”

Aleksandr Dugin Avrasyacılık fikrinin en önemli dirilticisi ve yenileyicisi olmakla beraber bu fikrin muciti değildir. Nikolay S. Trubeckoy’un [Nikolaj S. Trubeckoj] 1927 yılında neşrettiği yazısını (Il nazionalismo paneuroasiatico) bir tarihi portre ile birlikte yeniden yayınlayan dergi böylece ilk sayısını bütünlüğe erdirmiş oluyor. Bu yazıda Panavrasyacılık, etnik sorunlardan bunalmış Rusya’ya bir cözüm teklifi olarak takdim edilmekte. Ne özel bir milliyetçiliğin ne de illüzyonist bir enternasyonalciliğin (milli kimliklerin silinmesi manasında) kıt’anın gelişim potansiyelini gerektiği ölçüde sağlayamadığından, Rusya verine Avrasya’nın geçmesi istenmekteydi. Trubeckoy’un bu makalesinde günümüz Avrasyacı düşüncenin ancak kaba hatlariyla bulunabilmesinin yanında merkezi bir mesele çok belirgin olarak kendini göstermekte. Milletlerin – öz kimliklerini kayıp etmeyecekleri bir bünyede fakat birbirlerinden irtibatsız kuru kuru yan yana dizilişlere de müsade etmeyen – kendilerinden daha büyük bir formasyona tabi olmaları meselesidir. Coğrafi, iktisadi ve siyasi bilgi ve bilgilenme bir yana en hayati dava – şimdiden içine ışığını saçtığı – büyük coğrafyayı tanımlayacak ve şekil verecek idealdir. Böylesi bir ideali ifade-izah ederek yayılmasına katkıda bulunmak, bu yeni derginin en öncelikli vazifesi olsa gerek.

Çeviri: Algabal

Il tempo dei Continenti

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Editoriale
Il tempo dei Continenti e la destabilizzazione del Pianeta (Tiberio Graziani)

Eurasiatismo
Utilità della geografia (Strabone di Amasea)
George Sorel e Carl Schmitt (Michel Lhomme)
Il geografo dell’Impero (Claudio Mutti)

Dossario: Continenti
Stalinismo e rivoluzione (Giovanni Armillotta)
Il partenariato eurasiatico nelle relazioni esterne dell’UE (Massimo Bartoli)
Invasioni anglosassoni in America Latina (Alberto Buela)
Hizbollah tra militarismoe pragmatismo (Erminia Chiara Calabrese)
La Georgia: lingua e religione come fattori di identità etnica (Aldo Castellani)
Cosa c’è di simbolico nella lotta al terrorismo? (Abdessattar Chaouech)
La dottrina atlantista dell’attacco nucleare preventivo (Michel Chossudovsky)
Attualità del Libro verde “L’imprenditorialità in Europa” (Tommaso Cozzi)
Le enclave della valle del Fergana e la loro spartizione territoriale (Isabella Damiani)
La posta geopolitica della “rivoluzione color zafferano” (F. William Engdahl)
La grande strategia neo-wilsoniana degli USA per il Medio Oriente (Eddie J. Girdner)
Tra Europa e Asia. Resoconto (Francesca Romana Lenzi)
L’eredità cinese dalla Guerra Fredda: una collana di perle (Fabio Mini)
“Ai cinesi piace la creatività” (Mauro Minieri)
Le caste nell’India contemporanea: una tesi controcorrente (Vincenzo Mungo)
La politica italiana nei confronti del Kosovo dal 1918 all’8 settembre 1943 (Lorenzo Salimbeni)
Il “mobile dito” e l’Iraq Study Group (K. Gajendra Singh)
Le strategie internazionali della Russia (Ernst Sultanov)

Recensioni
Ibn Battûta, I viaggi, (Enrico Galoppini)
Klavdiya Antipina, Rolando Paiva, Temirbek Musakeev, Kyrgyzstan (Enrico Galoppini)
Peter J. Hugill, La comunicazione mondiale dal 1844. Geopolitica e tecnologia (Giuseppe Grosso Ciponte)
Paolo C. Conti – Elido Fazi, Euroil (Augusto Marsigliante)
Romolo Gobbi, Tre piccoli popoli eletti (Claudio Mutti)
Qiao Liang, Wang Xiangsui, Guerra senza limiti (Daniele Scalea)
François Thual, Il mondo fatto a pezzi (Daniele Scalea)
Gianluca Serra, Le corti penali ibride (Stefano Vernole)

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Claudio Mutti, Imperium. Epifanie dell’idea di impero

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Claudio Mutti, Imperium. Epifanie dell’idea di Impero, Genova, Effepi 2005, pp. 130.

Recensione di Enrico Galoppini

Questa raccolta di saggi di Claudio Mutti è particolarmente raccomandata a coloro che hanno le idee un po’ confuse su ciò che nella sostanza dev’essere un Impero. Se, difatti, esso svolge essenzialmente una funzione equilibratrice – a tutti i livelli – nello spazio che lo delimita, non si può certo pensare che un Impero si estenda solo su popolazioni accomunate da un’unica visione del mondo o religione. Comune, sarà, invece, la visione spirituale traducentesi in una comune scala di valori, ma variamente espressa dalle popolazioni dell’Impero.

L’Eurasia, che è teatro delle vicende storiche e metastoriche trattate dallo studioso parmense, è, com’ebbe a dire Giuseppe Tucci, caratterizzata da una essenziale “unità spirituale”. Ma per svolgere la sua funzione equilibratrice, l’Impero deve appunto estendersi su tutto il continente eurasiatico, e per tal via viene a risolversi tutta una serie di dicotomie frutto di un autentico dis-ordine, quali la conflittualità tra autorità spirituale e potere temporale, tra “Oriente” e “Occidente”. Le contraffazioni dell’idea di Impero, al contrario, mirano a procrastinare quella che si profila come un’autentica lacerazione nell’Ordine principiale della manifestazione, con tutte le conseguenze nefaste che ne conseguono.

I personaggi che qui vengono presi in esame realizzarono entità geopolitiche autenticamente imperiali, o tentarono di realizzarle: Giuliano Imperatore, Attila, Alessandro il Grande, Federico II, Mehmet II.

Il primo, qualificato da una storiografia partigiana come “l’apostata”, promosse un enoteismo solare in grado di fungere da antidoto contro le tendenze esclusiviste dei seguaci dei culti semitici, della cui tradizione tuttavia l’Imperatore non disconosceva la legittimità, tanto che del dio dei Giudei egli riconosceva la “potenza”; ai cristiani, invece, Giuliano contestava di essersi allontanati dalla loro tradizione, e particolarmente interessanti sono i passi dedicati al Kulturkampf rivolto contro quelli fra costoro che disprezzavano la visione religiosa degli antichi: “Chi crede una cosa e ne insegna un’altra, si comporta in maniera sleale e disonesta” (dalla circolare De professoribus, p. 30).

Nel capitolo dedicato ad Attila – Flagellum dei, Servus Dei – vengono svolte interessanti considerazioni sul significato dell’azione guerriera, ed opportunamente si sfata il trito luogo comune della “barbarie orientale”.
Alessandro presenta poi particolari agganci con la tradizione islamica: l’esegesi lo identifica col Dhû l-Qarnayn coranico, ma il macedone, nel suo spingersi alle estremità dell’Oriente e dell’Occidente, è anche colui che ha realizzato quelli che il tasawwuf (l’esoterismo islamico) chiama inbisât (ampiezza) e ‘urûj (esaltazione), il che lo pone sul piano del Profeta dell’Islâm, protagonista dell’isrâ’ (viaggio notturno – ‘orizzontale’ – al Tempio ultimo) e del mi‘râj (ascesa fino al punto più prossimo a Dio raggiungibile da un essere umano). Si capisce così che il vero imperatore è sia Rex che Pontifex, ed in ciò equivale al califfo dell’Islâm, che è amîr (comandante: funzione regale) e imâm (direttore della preghiera: funzione sacerdotale).
L’istituzione del califfato fu d’altra parte il modello del grande Hohenstaufen, il quale “attribuiva all’Impero non soltanto un’origine divina, m anche uno scopo supremo: la salvezza stessa degli uomini” (p. 82). Secondo Claudio Mutti, dopo l’estensione della sua autorità anche su Gerusalemme (1229), “l’Impero federiciano sembra dunque recuperare, anche se in una misura poco più che simbolica, quella dimensione mediterranea ed eurasiatica che caratterizzò le grandi sintesi imperiali a partire dall’epoca di Alessandro Magno” (p. 89).

A sottolineare il fatto che l’Imperium è una categoria dello spirito, e pertanto non è esclusiva prerogativa di una razza, etnia o religione, l’Autore prende in esame il caso del sultano ottomano Mehmet II (“il Conquistatore”). Nel saggio significativamente intitolato Roma dopo Roma viene esaminato il trapasso di autorità e di poteri che trasferiva agli Ottomani l’eredità dei Cesari bizantini dopo la presa di Costantinopoli nel 1453. Coscienti del significato di tale evento – ovvero il possesso della sede dell’Impero – gli ottomani si qualificarono come unici imperatori “romani” (Qaysar-i Rûm), negando il titolo ai loro avversari; secondo Giorgio Trapezunzio (1466), “imperatore è colui che a giusto titolo possiede la sede dell’Impero, e la sede dell’Impero Romano è Costantinopoli. Chi dunque possiede di diritto Costantinopoli è imperatore” (cit. da p. 106).

In poche ma efficaci pagine, l’Autore ben illustra come la conquista ottomana di Costantinopoli si configurò come l’unica possibilità di sopravvivenza per una civiltà millenaria, ed “in tal modo, il cristianesimo orientale poté vivere per secoli in un clima favorevole, al riparo delle correnti devastatrici della modernità, sicché la cultura bizantina poté continuare a fiorire, dopo il 1453, entro i confini dell’«Impero romano turco-musulmano»” (p. 114).

Questo libro, edito da una piccola casa editrice, può essere reperito celermente scrivendo a Effepi Edizioni, Via Balbi Povera, 7 – 16149 Genova, oppure inviando un e-mail a effepiedizioni@hotmail.com.


Costanzo Preve, La quarta guerra mondiale

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Costanzo Preve
La quarta guerra mondiale
(Con una postfazione di Massimo Janigro, Gli USA sono un impero?)
Parma 2008, pp. 192, € 20,00

Il periodo storico apertosi con la dissoluzione sociale e geopolitica degli Stati socialisti ispirati all’ideologia del comunismo storico novecentesco realmente esistito (1917-1991), da non confondere con il comunismo ideale utopico-scientifico di Marx (l’ossimoro è del tutto volontario), può essere connotato dal fenomeno economico della globalizzazione neoliberale, oppure dal fenomeno politico e geopolitico del progetto statunitense di costituire un impero mondiale. Ma questo progetto non può essere portato a termine senza una quarta guerra mondiale, sia pure “informale”.

La prima guerra mondiale (1914-1918) fu vinta dai peggiori, i quali dissolsero le benemerite unità geopolitico-multinazionali austroungarica ed ottomana, riducendo ad inferno l’area centroeuropea e vicino-orientale. La seconda guerra mondiale (1939-1945) non è mai esistita come guerra unitaria, ma è stata in realtà l’addizione di tre guerre distinte: una guerra europea tradizionale di Germania e Italia contro Inghilterra e Francia (1939-1941); una guerra ideologica tra il fascismo e il comunismo (1941-1945); una guerra imperiale degli USA per l’occupazione economica e geopolitica dell’Europa e dell’Asia Orientale (1941-1945). Questre tre distinte guerre si sono bensì incrociate, ma la loro unificazione “simbolica” è stata il frutto di un’operazione ideologica posteriore.

La terza guerra mondiale (1945-1991) ha visto la vittoria del modello di capitalismo globalizzato liberale, largamente postborghese e postproletario (la cui proiezione culturale è stata definita postmodernismo) sul modello del comunismo storico novecentesco del Partito-Stato. Il comunismo è stato dissolto dall’interno attraverso una controrivoluzione socioculturale dei nuovi ceti medi in rivolta contro la proletarizzazione forzata imposta da un dispotismo sociale egualitario. Siamo oggi però all’interno di un nuovo orizzonte d’epoca, quello della quarta guerra mondiale. È possibile non prendere posizione, o prendere posizione da una parte o dall’altra. Chi scrive ha scelto il suo campo: contro il nuovo impero USA, basato su un odioso messianesimo interventistico.

Costanzo Preve (1943) ha studiato scienze politiche, filosofia e neoellenistica a Parigi, Torino e Atene (1961-1967). Ha insegnato filosofia e storia nei licei italiani (1967-2002). Saggista e scrittore, è autore di studi pubblicati in lingua italiana e nelle maggiori lingue europee (cfr. Wikipedia ecc.). Per le Edizioni all’insegna del Veltro ha pubblicato Filosofia e geopolitica (Parma 2005).

François Thual, Il mondo fatto a pezzi

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L’ultimo lavoro di François Thual, Il mondo fatto a pezzi, riveste a mio avviso una notevole rilevanza per chiunque abbia un qualche interesse nell’ambito della geopolitica.

Questo per una serie di ragioni. Innanzitutto perché delinea con estrema chiarezza e fondatezza di argomenti gli scenari geopolitici attuali nel panorama internazionale. In secondo luogo perché conferma ancora una volta, caso mai ce ne fosse ancora bisogno, la validità del metodo geopolitico come chiave di lettura dei conflitti attuali, passati e futuri, come ben dimostra il colloquio finale tra l’Autore e Tiberio Graziani, che impreziosisce un lavoro già di per sé notevole: una dottrina, quella geopolitica, che è anche –o forse soprattutto- prassi, poiché “codifica le possibilità che gli Stati hanno di dispiegarsi sulla scena internazionale” (pagg. 116-117), e che conferma “l’irreversibile divisione del mondo contemporaneo in due blocchi contrapposti, quello dei dominanti e quello dei dominati” (pag.112).

Il tema principale di cui si occupa l’Autore consiste nella considerevole proliferazione di Stati sulla scena internazionale che si è avuta in particolare nel XX secolo: una fase che ha preso il posto di quella precedente, caratterizzata dai processi di colonizzazione-decolonizzazione. La drammaticità di tale situazione ci è chiara fin dalla copertina di questo libro, che mostra quanto oggi l’Europa sia frammentata in tutta una serie di Stati e staterelli, somiglianti più ad un puzzle che ad un entità geopolitica che si pretenda autonoma in campo militare economico e politico, in una parola, sovrana.

La situazione attuale, più che rispondente ad un disegno geopolitico ben preciso e studiato a tavolino, risulta figlia di una serie di scelte strategiche concrete attuate dalle grandi potenze.

Tali potenze sono denominate dall’Autore “La Triade”: America del Nord, Europa Occidentale e Giappone. Le scelte attuate da tali potenze sullo scacchiere internazionale hanno contribuito a creare l’attuale scenario, che non è immobile e stabile, quanto suscettibile di numerosi ed il più delle volte drammatici cambiamenti. Un panorama in continua evoluzione quindi, anche in virtù del fatto che non sempre i movimenti di tali grandi potenze sono stati univoci: pur perseguendo il medesimo disegno, ossia quello di trarre il massimo profitto, le potenze della Triade hanno talvolta cercato di disgregare entità geopolitiche omogenee al fine di indebolirle, talvolta invece hanno favorito la nascita di aggregazioni statuali disomogenee con l’intento di attirarle nell’orbita della propria influenza. In che modo e in quale lasso di tempo il lettore avrà modo di scoprirlo addentrandosi nella lettura di questo breve ma ficcante volumetto.

Notevoli sono anche i passaggi dedicati alla parte orientale del continente eurasiatico, in particolare Russia e Cina. Si ha così modo di scoprire che, pur essendo -o essendo stati- entrambi i paesi sotto il controllo del Partito Comunista, questi due grandi imperi hanno attuato strategie geopolitiche diverse. Nel caso della Russia, inoltre, il suo dissolvimento ha dato inevitabilmente il la alla nascita di una miriade di entità statuali.

Nell’evidenziare i processi disgregatori che hanno dato luogo alla nascita di decine di Stati -una cinquantina nell’ultimo dopoguerra, ben 195 oggi!- l’Autore conferisce a tali entità un differente grado di dignità (pag.15): esistono veri e propri Stati, corrispondenti a sentimenti identitari ben configurati e preesistenti alla nascita dello Stato stesso; vi sono invece altri Stati in cui un particolarismo di qualche tipo ha preceduto la costruzione di consolidamenti identitari, essendo in molti casi prodotto artificiale di costruzioni create a tavolino. Per non parlare di quelle microparticelle che l’Autore chiama, a ragione, nano-Stati: minuscoli arcipelaghi divenuti paradisi fiscali o microscopiche entità amministrative gelose delle proprie esigue risorse.

La tendenza che abbiamo potuto osservare negli ultimi decenni è quindi di tipo prevalentemente disgregatrice -anche se, come accennato, esistono delle eccezioni-, come dimostra -ultima in ordine di tempo- la nascita del narco-stato fantoccio del Cossovo. Questa “libido sovranista” (pag. 107) da parte di entità troppo deboli per sostenere un onere gravoso come la sovranità, non ha fatto altro che creare una miriade di Stati-clienti a sovranità limitata (“consumatori consenzienti di sovranità”, pag. 27), soggetti ai capricci delle potenze che li controllano. “La frammentazione del mondo” infatti “rafforza i paesi forti e indebolisce i paesi deboli”, essendo oltretutto evidente che rappresenta “un mezzo di dominio e di controllo più efficace di quello costituito dai vecchi imperi coloniali” (pagg. 24-25). Si tratta insomma del sempre valido principio del divide et impera. Nelle sue conclusioni, il Nostro, stilato un bilancio più che esaustivo della situazione attuale, delinea quelli che saranno secondo lui gli sviluppi che si potranno aprire in un prossimo futuro, individuando contesti “a bassa sismicità geopolitica” e “ad alta sismicità geopolitica” (pag.85). Un affresco condivisibilmente pessimista, considerato che difficilmente tali cambiamenti potranno avvenire in maniera indolore.

Volendo addivenire ad una conclusione al termine di questo breve viaggio attraverso le macerie dei grandi imperi della Storia, si può intravedere nei processi che hanno portato allo scenario geopolitico attuale –e credo che il dimostrarlo sia stato uno degli intenti dell’Autore- un unico fil rouge, una tendenza di fondo che aiuta a capire come tali accadimenti non siano quasi mai frutto del caso, quanto siano un miscuglio imponderabile di necessità, egoismo ed interesse.

Un’annotazione aggiuntiva va fatta, a parer mio, anche sul linguaggio utilizzato: grazie ad una serie di abili metafore mutuate in particolar modo dall’ambito medico, si ha l’opportunità di leggere quello che con ogni probabilità costituisce un unicum, dal punto di vista del linguaggio, nel panorama degli studi geopolitici.

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François Thual, IL MONDO FATTO A PEZZI, Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2008, pp. 126, € 15,00
Il libro di F. Tual Il mondo fatto a pezzi è disponibile presso l’Editore

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EDIZIONI ALL’INSEGNA DEL VELTRO
Viale Osacca 13
43100 Parma
www.insegnadelveltro.it

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François Thual, Il mondo fatto a pezzi

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François Thual
Il mondo fatto a pezzi
In appendice François Thual, Tiberio Graziani: Colloquio

Edizioni all’insegna del Veltro,
Parma 2008, pp. 130, € 15,00


Il libro

Con la secessione del Cossovo, il numero degli Stati formalmente “indipendenti” è arrivato a centonovantaquattro, contro la cinquantina di Stati che esistevano nel 1945. A che cosa corrisponde questa proliferazione? Quali sono le forze che agiscono per frantumare il pianeta? Che cosa possiamo presagire da questa balcanizzazione mondiale? Questo fenomeno è un fattore di pace o di ulteriori conflitti?

François Thual mostra come il narcisismo identitario delle comunità etniche e la loro aspirazione a un’indipendenza puramente formale producano una polverizzazione geopolitica funzionale a una nuova strategia di dominio imperialista, indian tadalafil.

Lungi dal costituire un antidoto alla mondializzazione, la regressione tribale ne costituisce lo stadio avanzato. In ogni caso, la crescente frantumazione del pianeta rappresenta uno dei fenomeni geopolitici più caratteristici del secolo appena iniziato.


L’Autore

François Thual (1944), ex funzionario civile del ministero francese della Difesa, insegna al Collège Interarmes de Défense e all’École Pratique des Hautes Études. Autore di una trentina di opere dedicate al metodo geopolitico ed alla sua applicazione in diverse zone del mondo, si è occupato in particolare di geopolitica delle religioni (Ortodossia, Islam sciita, Buddhismo).

Leggi la recensione di Augusto Marsigliante

Il libro è disponibile presso l’Editore, a partire dal 15 aprile

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The war for South Ossetia

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Translated by Diego Traversa, revised by Benedetta Scardovi-Mounier


Georgia from Jason to Gamsakhurdia

Georgia was part of the same State of Russia until 1991 when it has risen as independent nation from the ashes of the Soviet Union. In origin, in this western Caucasian area there were different countries, the most important of which was the Kingdom of Colchis, looking on the Black Sea and also well known by the ancient Greeks: according to mythology, it was there that Jason and the Argonauts got the Golden Fleece with the help by the native princess Medea.

Instead, the most mountainous part of eastern and southern Georgia belonged to the Kingdom of Kartli (known by Greeks and Romans as “Iberia”).

These two kingdoms were forerunners in adopting Christianity as their official religion already at the beginning of the fourth century. After being conquered by Rome in 66 a.C. and ruled first by the Romans and then by the Byzantines for almost half a millennium, present Georgia used to be a battlefield during the wars between Byzantines and Persians: this situation had a share in the political disintegration of the country that, in the seventh century, became an easy prey to the Arab expansion. In the eleventh century, the country managed to get rid of the Arab rule and, for the first time, it was united under a single Kingdom of Georgia that began to expand all over the Caucasian area while fighting off the Seljuk Turks.

Yet, in the thirteenth century Georgia surrendered too quickly before the relentless advance of the Mongols and it started to break down into many little states, some of which were later annexed to the Ottoman Empire, while some others to the Persian one.

It wasn’t until 1762 that part of the country became independent again: the eastern one, reunited under Erekle II as Kingdom of Kartli-Kakheti.

In 1783 this kingdom concluded the Treaty of Georgiev’sk with the Russian Empire, thus becoming a protectorate of Russia, whose Tsar was acknowledged as the legitimate ruler over eastern Georgia (to which, however, autonomy over internal policies was still granted).

On December 22nd 1800, at the demand of the Georgian king George XII himself, Tsar Paul I declared the annexation of the Kingdom of Kartli-Kakheti to Russia.

Despite the local aristocracy, who was hostile to the annexation, in summer 1805 the Russian army turned out to be decisive in driving back a Persian attack (the battle at the Askerani river). Five years later, the troops of Tsar Alexander I also incorporated to Russia the western part of Georgia, which at the time formed the Kingdom of Imereti.

During the following decades, the Russians waged many wars against the Turks and the Persians, expanding the borders of Georgia remarkably through the conquest of Azarija, of the towns of Lomse and Poti, and of Abkhatia.

After the Russian Revolution of 1917, with the social-democratic Bolsheviks coming into power, many regions already belonging to the Empire—ruled by the Mensheviks—declared their independence: Finland, the Baltic states, Belarus, Ukraine and the transcaucasian countries, let alone the several and momentary political formations created by the “whites”, the tsarist counterrevolutionaries.

Only few of these declarations were grounded on a mass patriotic spirit that in some case wasn’t even rooted amongst the local ruling classes: this is proven by the fact that, after the February Revolution, the body of the former Russian Empire remained untouched.

What made it blow up and break to pieces was the violent seizure of power by the Bolsheviks who occupied the capital Petrograd on November 1917 and at the beginning of 1918 dissolved by force the newly-elected constituent assembly, since their representatives were by far outnumbered within it.

It was then that those political forces themselves, now ousted from power in Russia, took their revenge against the Bolsheviks by proclaiming the independence of the peripheral regions they themselves controlled.

Of these separatist momentary governments, the Georgian one is considered to be as the most stable and effective in its administrative role, even though the “Democratic republic of Georgia” actually was no more than a protectorate of Britain (which had taken military action as anti-Bolshevik force, just as the other powers from the Entente did). During its brief existence, the Menshevik Georgian government stood out also because of its aggressiveness: first it was at war with Armenia over some ethnically mixed territories, then it attacked the White Army of Moiseev and Denikin so as to expand Georgia’s borders towards Sochi (nowadays a renowned Russian resort on the Black Sea). This did nothing but weaken it in sight of the final showdown with the Bolsheviks who, in the meantime, had successfully brought to an end the civil war and who had undertaken the task of winning back the separatist regions: on February 1921, the Red Army entered Georgia and suppressed the Menshevik and pro-British republic within few days, incorporating the country into the dawning USSR (first as part of the Transcaucasia and then, in 1936, as federate socialist soviet republic).

When the Bolsheviks’ leader and President of Russia Vladimir Ilic Ulianov (better known as Lenin) died after a long weakening disease, it was a Georgian who succeeded him: Iosif Vissarionovic Dzugasvili from Tblisi, who has gone down in history as Stalin, the man who held the reins of Russia for over 30 years.

Half a century later, the amazing but short-lived history of the Soviet Union came to an end. Georgia declared its independence on the 9th of April 1991 and its first President (appointed in 1990 when the country was still USSR-federate) was Zviad Gamsakhurdia, former leading dissident in the communist era.

The independence proclaimed through the “Georgia to Georgians” slogan couldn’t but concern the several ethnic minorities living around the administrative entity of Tblisi which Gamsakhurdia and his nationalistic supporters wrongly regarded as being a monolithic national bloc. Namely, the regions of Azarija and Abkhazia (that were annexed to Georgia by the Russians who had taken them away from the Turks), as well as South Ossetia (whose inhabitants are alike those from the Russian province of North Ossetia) claimed the same right to independence from Russia Tblisi itself wanted (and put into practice). Already in 1989, South Ossetia, autonomous province of the socialist soviet republic of Georgia, was scene to violent fights between the Ossetians, loyal to Moscow, and nationalistic Georgians.

The Ossetian regional council came to declaring secession from the Socialist Soviet Republic of Georgia but this one reacted by lifting Ossetia’s autonomy status, thus prompting further fights.

Newly-born Georgia’s internecine clashes weren’t inter-ethnic only but also political: on January 6th 1992 Gamsakhurdia-led government was overthrown by a bloody coup d’etat that was anything but quick since it was started two weeks before.

Gamsakhurdia found shelter in Chechnya (after a brief stay in Armenia), under the rebel government of General Dzochar Musaevic Dudaev. The coup leaders proclaimed Eduard Shevarnedze as new president, former Soviet Foreign Minister at the time of Gorbacev. The fights between the new President’s supporters and the partisans of the removed one went on for two years. On September 1993, then, an outright war burst between the Georgian army and the Abkhazians who refuse still today to be subdued to Tblisi’s authority since they are the majority in the north-western part of the country. There were dreadful fights and the Abkhazians came off successful since they fought off Tblisi’s troops and drove out some thousand Georgians living in Abkhazia. Gamsakhurdia snapped up the chance and, already on late September 1993, he returned to his homeland, leading his armed followers in an revolt attempt. The rebellion seemed likely to be successful but Shevarnadze, by approving to let Georgia join the Independent States Community, received the support by the neighbour countries, not least Russia which provided him with men and weapons: within November the rebels were defeated and on the following month their leader Gamsakhurdia died under circumstances that were never  completely cleared up.

Meanwhile, the long time of disorders and internecine fights cost a high price to the newly-born Georgian republic: alongside with Abkhazia, also South Ossetia managed to achieve the independence: oddly enough, many Chechnyan separatists have fought for the  freedom of the former, whereas the Russian aid was decisive for the latter.


The “Rose Revolution”: Saakashvili President of Georgia

President Shevarnadze, during the following decade, got two acknowledgments from the people, by winning the elections on 1995 and 2000. The elections held on November 2nd 2003, that were allegedly rigged according to the pro-US media and organizations, embodied the fuse for a new political violent reshuffle, the so-called “Rose Revolution”. Shevarnadze has often repeated that those who wanted and led that coup were the US; and, needless to say, the deposed Georgian President can’t be suspected of anti-Americanism. For example, suffice it to remind that, in the capacity of Russian Foreign Minister, during a meeting with the American President of that time, George H. W. Bush, he asked him for an advice about what kind of foreign policy Russia was to maintain, since he wanted to refrain from pursuing any ambition of defence of the national stakes. Yet, as President of Georgia, Shevarnadze proved to be too independent and, above all, too prone to keep good relations with Moscow.

It was probably because of this that the US hatched one of the most successful “coloured revolutions”, bringing back to power a racist and strongly anti-Russian nationalistic leader: the new Gamsakhurdia is called Michail Saakavshili, a jurist who was trained at the American universities.

Saakashvili served as Minister of Justice under Shevarnadze’s government, well-known for its repressing character (partly accounted for by the Gamsakhurdian insurrection and by the fight against separatist tendencies). As President, albeit the incessant emphasis on “democracy”, Saakashvili has not proven any better in respecting his people’s civil rights: appointed by “Bulgarian” percentages (96% of votes in 2004), he has often accused his rivals of being criminals or Russian spies, treating them accordingly.

After seizing power, Saakashvili has purged the Georgian leadership through mass arrests both of former ministers of Shevarnadze’s government (that is to say his former  peers, in controversy with which he had stepped down) and of simple local administration representatives. In 2004, a group of Georgian intellectuals wrote an open letter to denounce the intolerance against political opponents.

An emblematic case of the dreary situation and of the rampant violence in Saakashvili’s Georgia was the murder of Sandro Girgvliani. He was a 28 year old bank manager and on the night between 27th and 28th of January 2006, in a Tblisi’s bar, he had a quarrel with some high officers from the Interior Ministry, who were there to celebrate the birthday of one of them, Inspector General Vasil Sanodze.

Girgvliani and his friend Levan Buchaidze, after leaving the bar, were shoved into a Mercedes and brought to the outskirts of the town: Buchaidze managed to escape but Girgvliani was beaten to death and his body was found the following morning.

The investigation from the “Imedi” tv station managed to shed light upon the case, denouncing the Interior Ministry’s responsibilities. The alleged murderers were arrested and sentenced seven to eight years, yet whoever gave the order  has still gone unpunished: in spite of the popular protests, all of the high officers from the Ministry retained their charge. Badri Patarkatsisvili, owner of the “Imedi” station that not only reported the authorities’ responsibilities in Girgviliani affair but also other similar cases, underwent several fiscal investigations and political pressures so that he would be induced to curb his journalists’ autonomy.

Irakli Okruasvili, former Georgian Defence Minister, accused his former ally Saakashvili of wanting to attempt the life of Patarkatsisvili himself who, meanwhile, entered politics as the rival of the President: two days later, Okruasvili was arrested with the charge of corruption and money laundering, and only after having disavowed the accusations against Saakashvili he was released. Expelled to France, where he got asylum, on November 5th 2007 he appeared on “Imedi” tv where he confirmed the authenticity of the accusation against Saakashvili while accounting for the disavowing due to the forced imprisonment. Few months later, he was convicted with final judgment by the Georgian magistracy, the same one which abstained from investigating over the alleged murderous will of Saakashvili against Patarkatsisvili. Incidentally, on 12th February 2008 Badri Patarkatsisvili was found dead in his British residence, few hours after having a meeting with Boris Berezovskij, Russian “oligarch” and Putin’s implacable enemy. The Georgian businessman, who was only 50 years old and had never suffered of heart problems during his lifetime, died from heart attack. The local police classified his case as “suspicious”.

Saakashvili has regularly adopted the iron fist against any opposition. During the second half of 2007, the government reacted by putting down the demonstrations sponsored by his political adversaries: on  November 7th, after repeated attacks from the police, a group of protesters decided to resist the institutional violence and thus the fights took place. Saakashvili quickly exploited the pretext in order to proclaim the state of emergency for nearly ten days while imposing, amongst other things, the censure on the national media.

Yet, the mass protests forced Saakashvili to step down and face, on January 2008, a new electoral test: he won, notwithstanding the strong criticism both from the OCSE (generally much acquiescent towards US-sponsored candidates) and from the opposition, which denounced systematic fixing and manipulated opinion polls.

Mikhail Saakasvili has never forgotten the crucial support from the US for his violent seizure of power. During his mandates, he has always been a staunch ally to them, emerging also for his nationalism liable to rash actions and for his visceral Russia-phobia, that is after all widely shared by his fellow countrymen. Georgia entering the NATO is Saakasvili’s main target and he has dispatched a hefty amount of troops following the US all over the main theatres of war and occupation: Iraq, Afghanistan and Kosovo. Yet, even if the Georgian troops garrison Kosovo so as to assure the freedom to the local ethnic minorities to separate from Serbia, Saakasvili has never recognized that very right to “his” independence-craving minorities: Azarija, Abkhazia and South Ossetia. Indeed, “making up the national unity” has always been one of the cornerstones of his political agenda. Azarija, unlike the other two regions, never waged war against Georgia so as to achieve that independence it formally didn’t claim either: yet, during the storming Shevarnadze’s era, it got independent de facto. Back to early 2004, just appointed President through the “Rose Revolution” coup, threatening to use military force, Saakasvili forced Azarija to submit to Tblisi’s authority, depriving it, among other things, of its traditional autonomy. In Batumi, the capital of Azarija, there was the 12th Russian Naval base, one of the last soviet structures inherited by Moscow outside its own national territory. After many months of tensions, Tblisi and Moscow came to an agreement and the Russians handed over the base in November 2007, one year sooner than expected. The Russian Federation didn’t oppose much resistance in defending Azarija nor its Batumi’s base, being too far from its own territory and being of no strategic importance.

Things went differently when Saakashvili, perked up by the first success, tried to repeat the deed with South Ossetia.

This region, that the local population calls Chussar Iryston (Juznaja Osetija in Russian), is directly adjoining with Russian Federation and namely with an ethnically kindred province: North Ossetia republic. Although the Ossetians, who descend from the Alans, are a very different ethnic people from the Russians— the former being Indo-Iranian, and the latter Slavic—during the post-soviet era have been Moscow’s staunch allies in the northern Caucasian area. In the early 90’s, while the South Ossetians bloodily fought the Georgians so as not to be subdued to the newly-born Georgia, the Northern ones coped with the Ingushetians who were predominant in the district of Prigorodnij and politically very close to the Chechnyan rebels. The Ingushetians were mostly kicked out from the district that was repopulated with South Ossetian refugees escaping the Georgians’ violent actions.

The rivalry between Ossetians and Islamist terrorists, yet, has never soothed, as was tragically proved by the massacre of Ossetian kids carried out by the Chechnyan rebels of Samil Basaev in Beslan in 2004.

When Saakashvili became President, South Ossetia was living in peace for about a decade: in 1992 Tblisi, Moscow and Tskhinvali (South Ossetia ’s capital) agreed upon a ceasefire, setting up in the area a mixed peacekeeping force made up of Georgians, Russians and Ossetians.

In 2004, after having subdued Azarija, Saakashvili made the tension mount again with South Ossetia: yet, for years the clash has never gone beyond a “creeping” and “dirty” war made up of kidnappings, dynamite attacks and occasional fire exchanges between the opposite militias.


The outburst of the conflict

In the summer of 2008, Georgia marked a quantum leap in its war activism. If it has up to now limited itself to fostering occasional border clashes and leading a strongly anti-Russian diplomacy (suffice it to remind the strict alliance with Ukraine of Jushenko and Timoshenko, the attempts to join the NATO, the building of BTC pipeline conceived in order to leave Russia out of the Caspian Sea source trade), in recent times Tblisi has multiplied its provocations with the clear aim to bring about a war. It is hard to imagine which plans Saakashvili and his staff have had in the past and which ones they will have in the future: maybe to overcome the political internal crisis by directing people against an external enemy, thus making them gather closer to their President; maybe they hoped to seize Abkhazia and Ossetia through blitzkriegs without enabling Moscow to counteract; maybe the aim was and really is that of embroiling Moscow in a new Caucasian war so as to both wear out its military apparatus and to dim its international image with the aid of the propaganda juggernaut handled by the US.

What’s obvious, knowing the strict alliance existing between Tblisi and Washington, is that the US must have played some fundamental role in the crisis bursting out: to say the least, they took no step to prevent Saakashvili from setting off this war. Yet, let’s stick precisely to the chronology of facts.

To avoid having to go back to older incidents and disputes, a reasonable starting point  can be fixed at the 20th of April of this year when, according to the Georgian authorities, one of their drones (a remote-controlled aircraft, part of a lot purchased from a private Israeli company, with the green light of the Israeli Defence ministry) was shot down in Abkhazia’s airspace by Russian crafts. Consequently Tblisi demanded a compensation from Moscow which, instead, denied the fact. The tension in the area was already high since Georgia had started massing troops on the border with the breakaway region, namely in the disputed area of Kodori gorge.

On May 29th a car bomb blasted in Tskhinvali during the independence celebrations, injuring six passers-by: the Ossetian President pinned the blame for the attack on the Georgian government. On  May 31st three hundred Russian unarmed soldiers entered Abkhazia at the local government’s demand, in order to help build a railway system: at the same time, Moscow increased the amount of peacekeeping troops in the province—as a reply to the Georgian mobilization—but without exceeding the maximum number fixed by the agreement (that’s 3,000 soldiers): this induced Georgians to cry out against the “occupation of Abkhazia”, supported by the EU that calls for the Russians to withdraw the additional troops.

On June 17th on the Ossetian border the Georgian troops arrested four peacekeeping Russian soldiers accused of smuggling weapons: they are released after a nine-hour third degree.

In the meantime, drones start flying again over Abkhazia, even if Tblisi denies. On the following day, two blasts took place along a railway at Suchumi, Abkhazia’s capital: the target, according to the investigators, were the Russian troops deployed there. On June 29th two new dynamite attempts occurred, this time at the Abkhazian coast town of Gagrij: six are injured. Two days later, a blast at the Suchumi’s market mowed down further civilians. The repeated attacks lead the Abkhazian authorities to shut the border with Georgia that is regarded as being responsible for the terrorist attacks. On July  4th, during the night, the Ossetian capital Tskhinvali (at the border with Georgia) was briefly bombed by the Georgian artillery (at least 15 mortars, according to the witnesses): 3 persons lost their lives and 11 are wounded. The incident was confirmed both by the Russian peacekeeping forces and by the OSCE envoys, yet the Georgians gave no account; Moscow’s reply defined the fact as “an act of open aggression”, and a few days later it begun manoeuvres in the northern Caucasus. The Abkhazian President Sergej Begaps claimed he has laid his hands, thanks to his secret services, on an invading plan of Abkhazia by Georgia which, meanwhile, has massed twelve thousand soldiers at the borders, 2 thousand of which only at the Kodori gorge.

On July 7th, a new bomb shocked Abkhazia again: four people injured by a blast in a café and the local authorities have no doubt in holding the Georgian security forces as responsible. The following day also South Ossetia protested against Saakashvili’s expansionistic aspirations: the proof is claimed to be the evacuation started by Tblisi of some thousand Georgians living in South Ossetia. On July 9th it was Georgia’s turn to denouncing an attack at one of its outposts along the border with Abkhazia, an operation carried out by about ten armed men but with no casualties. Oddly enough, the same day the Abkhazians claimed they have suffered an identical attack at one of their outposts.

The focus of the fighting, in the first half of July, seemed to be directed more towards Abkhazia than North Ossetia, and the Abkhazian President Sergej Bagaps rushed to Moscow to ask the Russian aid; there he met also with the South Ossetian colleague Eduard Kokojty. Meanwhile, the American Secretary of State Condoleeza Rice arrived in Tblisi: Washington’s envoy expresses full support to Tblisi’s warlike policy while warning Moscow from trying to defend the freedom of Abkhazians and Ossetians. On  July 10th Georgia called back its own Moscow-based ambassador due, officially, to “the outrage over the aggressive Russian policy”. Sergej Lavrov, Russian Foreign Minister, tried to restore the dialogue while demanding, yet, the precondition of the Georgian evacuation of troops deployed in fighting trim at Kodori gorge; Tblisi’s reply is a litany of the same old anti-Russia rhetoric, the accuse of an alleged “aggression” by Moscow and the closing to any mediation (Abkhazia and Ossetia are outspokenly defined, leaving no room to negotiations, “inalienable parts of Georgia”). The Georgians oppose a clear refusal to Lavrov’s offer to hold talks in Moscow, preferring to use July for joined military manoeuvres with American, Azerbajian and Ukrainian troops and to get a Presidential decree approved by the Parliament to increase of 5,000 units the number of recruits, thus raising Tblisi’s armed forces to 37,000 soldiers.

On July 16th, the 76th Russian airborne division arrived in northern Caucasus, officially to take part to the military manoeuvres that in all involve 8,000 men, 700 fighting vehicles and 30 crafts. While President Saakashvili turned down the idea about a Moscow-sponsored non-aggression agreement with Georgia and Abkhazia, it was Suchumi to refuse the mediation plan proposed by the Germans which is considered as questioning of Abkhazia’s independence status. The following week there was  a succession of new incidents between Georgia (always active) and South Ossetia: four Ossetians arrested by the Georgian police; the infringement of the Ossetian space by Georgian air forces; finally, on  July 29th, Georgian troops opened fire over two Ossetian villages.

The night between August 1st and 2nd some fire exchanges came about along the Georgia-South Ossetia border, with at least 6 dead and 15 wounded amongst the Ossetians and 10 casualties amongst the Georgians (but the Ossetians claim 29 dead Georgian soldiers): it was the beginning of the present war, even if on  August 7th a formal truce is proclaimed by both the fronts. Yet, few hours later, the Georgian would break it in order to launch their own attack.

Before analyzing carefully the details of the conflict, let’s look at the set of facts schematically reported so far and which embody the prelude to war, as a whole. What we can detect is the obvious concentration of Georgian troops at the borders with Abkhazia and Ossetia, accompanied by continuous provocations that range from the warlike rhetoric to mortar shells and outright terrorist attacks (the bombs in Abkhazia the local authorities charge Tblisi with).

On the other hand, the reaction is the mobilization of the breakaway forces in both the regions, as well as the massing of Russian troops both in northern and southern Caucasus.

At this point, we have to go back to the hypothesis made at the beginning of the paragraph as regards the Georgian leadership’s hidden aims. If Tblisi’s plan were that of seizing Abkhazia and Ossetia through quick and sudden attacks, thus forestalling the Russian reactions, then we should draw the conclusion that all this has been arranged and carried out in the worst  possible way: the even too obvious preparations and the continuous provocations couldn’t but alert the enemies who, as a matter of fact, were poised to fight off the Georgian offensive as soon as it was eventually set off. The way of approaching to the conflict makes us think of other hypothesises as well.

For instance, Tblisi might have tried to provoke the Russians pushing them into carrying out the attack as first in order, then, to play the victim and to win international support. Actually, this hasn’t completely turned out well since the Georgians had to launch the first attack and only thanks to the huge and effective US-managed propaganda machine they have succeeded in slanting the American and western European public opinions to their own advantage. At any rate, what’s left is the problem whether NATO’s diplomacy can really force the Russians to evacuate Abkahzia and South Ossetia , leaving them at Tblisi’s mercy. This possibility looks extremely remote, if one takes into account that Moscow enjoys the right of veto within the UN Security Council. Economic pressures might be more effective, yet it’s hard to think that Moscow will approve of a settlement that be detrimental over the status quo ante of a conflict it is definitely winning.

One can also suppose that Tblisi has overrated (at least in view of the aforementioned considerations) its own military power, thinking of maybe being able to overwhelm the Abkhazian, Ossetian and Russian defences; or, at least, of being able to drive the Russians to trespass its territory and to face them there through guerrilla warfare. But in this case we should draw the conclusion that Mr Saakashvili is pursuing stakes diverging from the ones of the country which he’s called to answer to.

Anyway, the impression is that the Georgians have lost control over the situation. It’s likely that they didn’t expect such a massive and resolute reaction by Moscow and that they set too many hopes in the effectiveness of its own military machine and in a more incisive and quick intervention by the Atlanticist diplomacy (and maybe also in greater military support).


The war

On early August several shootings took place along the border between Georgia and South Ossetia while Russian volunteers begun flocking into the separatist region. After some days of preparations, with mortar shells over Tskhinvali and the surrounding villages, the night between August 7th and 8th the Georgian troops launched the offensive against the South-Ossetian capital. Tskhinvali, on the extreme southern limit of Ossetia, is located only five kilometres (ca. 3 miles ) from the Georgian border, along the main road of the region that, from the Georgian town of Gori, crosses South Ossetia and leads to Rokskij tunnel that can be considered the sole junction with the Russian Federation. The attack against the Ossetian capital was carried out with infantry and armour while the Georgian Su-25 jet aircrafts dropped bombs over Kvernet village (and even over a humanitarian convoy, according to the Ossetians).

The Georgian advance immediately penetrated as far as 10 kilometres (6.2 miles) the Ossetian inland along three fronts: South Ossetia’s eastern border, Tskhinvali’s corridor in the south and a salient in the west for what looks like a pincer movement.

Yet, the offensive stopped at the Ossetian capital: the breakaway troops resisted starting violent fights from house to house during which Tskhinvali suffered many damages and civilian casualties (some thousands): it’s worth reminding that most of the South Ossetian inhabitants have Russian citizenship. The South Ossetian Parliament and a couple of the Russian peacekeeping forces’ barracks were also blown up: about ten Russian soldiers were killed and the Russian Premier Vladimir Putin, from Beijing, announced a response.

The reaction is immediate: while Russian aircrafts started bombing Gori, the first big centre on the way to Tskhinvali (30 kilometres is the distance between the two cities), the units from the 58th army (comprising about one hundred tanks and heavy artillery) entered South Ossetia: on the following day, also President Medvedev officially announced the Russian counteroffensive.

On  August 9th the Georgian troops are fought off from Tskhinvali that, yet, has suffered huge material damages and human losses, notwithstanding the brevity of fights.

Some of the 35 thousand Ossetian refugees who have fled to Russia reported atrocities carried out by the Georgians: snipers willfully opening fire on the helpless, entire villages set ablaze, bombings on civilian targets, tanks willfully running over children. Those testimonies made Putin and Medvedev state that they were dealing with the attempt on the part of the Georgians to carry out a genocide against the Ossetians.

In the meantime, the Russian counteroffensive got wider: airborne troops were parachuted near Tskhinvali, thus raising to 10,000 the number of effectives in the operation while the air force started hammering new targets, mostly Poti, a harbour town on the Black Sea from which Georgia is thought to get Ukrainian military supplies.

The Russian airforce losses were said to amount to four crafts, although the Georgians claim to have shot down twenty of them. American planes brought back to Georgia the contingent of 2,000 men Tblisi sent to Iraq. On  August 10th, a part of the Russian fleet in the Black Sea, including the Moskvà cruiser, after setting sail from Sebastopolis base, got to the border with Georgian territorial waters (only a Georgian rocket-launching patrol boat tries to react but it will be sunk); at the same time, the Russian bombings has reached Kodori gorge, favouring an offensive by the Abkhatian militias against the Georgian troops massed there with threatening purposes. On  August 12th, after setting South Ossetia free from Georgian soldiers (many of which are reported as having given in to the Russians), Moscow announced the end of its counteroffensive, yet reserving the right to intervene again in case of further Georgian attacks against the separatist region. These are the words pronounced by Medvedev: “The operation’s targets have been accomplished: the peacekeeping forces and the civilians are now safe. The aggressor has been punished and has suffered heavy losses as well”.

As things stand, it’s impossible to foresee whether the truce will last or not. The most probable hypothesis is that the ceasefire might actually be respected—Russia has fulfilled its targets while Georgia doesn’t mean to draw out a conflict in which it’s hard put—even if, as the recent history of the region teaches us, it will be dotted with tensions, incidents, provocations, under conditions still marked by instability. It can’t be forgotten, actually, that Abkhazia and Ossetia, in spite of having got the de facto independence status, have been recognized as nations by none of the world countries, not even by Russia. Yet, Georgia and Russia already accuse one another of having broken the truce, while Moscow is sticking to the hardliner tack: the Foreign Minister Lavrov has ruled out any negotiation whatsoever with Saakashvili and even the return to the status quo ante since he considers unsustainable to let Georgian troops, albeit peacekeeping ones, enter South Ossetia again after the aggression carried out against both Ossetian civilians and Russian colleagues in the previous days.

Awaiting to know what is bound to happen, we can draw a partial conclusion over this short conflict—or over this first part of a longer conflict.

In doing so, we are required to take into account both the military factors and the strategic importance of the events and the diplomatic context.

On the eve of the war, the Georgian armed forces could count on over 30 thousand men, two third of which organized in the army. The tanks at Tblisi’s disposal were about two hundreds, all of them Soviet Union-made: forty T-55 and one hundred sixty five T-72. The T-55 is a mid-size tank (35,4 tons, 203 mm as maximum armour, a 100mm cannon), is considered as being the most successful model in the history of tanks, being it still used in 65 countries although its birth dates back to sixty years ago which indeed represents its huge limit.

The T-72 is the more modern type yet it dates back to 1972. It’s heavier (45 tons) than the T-55, better armoured (250mm) and more equipped with fire power (125mm cannon), it’s faster and more provided with fuel distance. Whatever the conditions, the fact is that only one Russian motorized infantry division would have been sufficient to stand up to the entire Georgian army.

That’s why Tblisi should have planned the attack against South Ossetia as a blitzkrieg: to occupy immediately Tskhinvali—capital and sole big city of the province—and the main road leading to Russia, while possibly reaching and making not practicable Rokskij tunnel before Moscow’s reaction.

Mission not accomplished, since even before the Russian intervention, the Ossetian forces alone have been sufficient to restrain the Georgian advance. It’s taken the Georgians a preliminary bombing with BM-21 “Grad” (a Russian-made rocket launcher dating back to the 60’s, still used due to its effectiveness) and two following waves of foot soldiers and armour to penetrate into Tskhinvali, and yet the Ossetian capital has been able to resist until  the Russian aid showed up. The D-30 howitzers, the 100mm cannon “Rapir” anti-tanks and, above all, the less advanced remote-controlled 9M113 “Konkurs” rockets provided to the Ossetian militia turned out to be sufficient so that the several obsolete Georgian tanks would turn into wrecked vehicles decorating the streets of a town half destroyed by the violent preliminary bombing.

After all, the “Konkurs”, although they were projected in the 60’s and they began being used in 1974, were successfully used also by Hezbollah militia to stand up to the Israeli “Merkava” tanks.

The Georgian air force is insignificant and indeed it played nearly no role in the conflict: only five Su-25 (Soviet land-covering crafts whose production started in 1981) and fifteen L-29 and L-39 (Czech jet fighters respectively made in the 60’s and 70’s only for pilot training). Too little even to overcome the South Ossetian anti-aircrafts defence. What’s more, the Georgian troops aren’t renowned at all for their training, in spite of their (official) American and (private) Israeli instructors’ efforts and, indeed, there are considered worse than their Ossetian rivals.

Hence the Georgians are thought to have attempted a lightning attack, yet running into the Ossetian resistance and, above all, a surprisingly swift reaction by the Russians who, within few hours, have sent their armour and paratroopers near Tskhinvali and started heavily bombing Georgia’s strategic targets and troop massing. In this respect, the too obvious preparations by the Georgians and their continuous provocations against Ossetians, Abkhazians and Russians turned out to be a big mistake. The only fact that can account for the behaviour of the Georgian political and military staff is that they probably hoped to push the enemy to attack first. Even if this hasn’t happened, the political aim has been partly achieved: the American ally, setting off its propagandistic machine and allied diplomacies, has managed to spread the Russia-aggressor/Georgia-victim pattern; even if the Georgian initiative hasn’t gone unobserved to anyone and the European diplomatic milieu has defined Moscow’s reaction as  “disproportionate” (the same expression used in 2006 to mildly blame the Israeli invasion of Lebanon). Nonetheless, Russia ’s veto right within the UN Security Council has spared Moscow serious backlashes. In consideration of the facts, for the moment the Georgian “diplomatic victory” seems to be just in its preliminary stages. Yet, it has been important for them to involve Russia as an active and belligerent part in the dispute over the two separatist regions, thus undermining its peacemaking role it has played up to now. Not surprisingly, the EU has immediately welcomed the idea according to which Moscow won’t be any longer allowed to act as mediator in the Caucasus but, on the contrary, it will have to resort to Brussels’ mediation in its clash with Tblisi. Hence it will be up to Moscow and its resoluteness to ward off the possible diplomatic backlashes of the conflict: Russia is historically a master in winning wars on the ground and then losing them at the negotiation table.

Going back to the strictly military point, what’s left is the fact that the Russians have kicked the Georgian troops out of South Ossetia and have actually bombed Georgia’s military or military-related infrastructures. The merely military targets seems therefore to have been achieved with a surprising rapidity and with little  losses (the official report speaks, at the moment, of 18 dead and 152 wounded): the Georgian attack has been fought back beyond the starting-point (Tblisi has lost its contingent stationed in South Ossetia and, seemingly, even the northern part of the Kodori gorge) and the Georgian resiliency for another attack has been seriously undermined, maybe even foiled for months or years to come.

The Russian armed forces has demonstrated to be very fast  in the decision-making process at its highest ranks and in reacting at its lowest ones; the only negative aspect is the high  losses suffered by the air force: considered the poorness of the enemy, four crafts are undoubtedly too many, even if the undisputed control of air has been achieved quite immediately. Moreover, the Russian counteroffensive has brought some political advantages to Moscow , though a small deferment in closing the operations might have optimized them.

First of all, Saakashvili has been destabilized. The Georgian can look at the Russian aggressor pattern as much as they want (since they consider South Ossetia as being part of the Georgian territory, so the Russian one has been a violation of their sovereignty) but they surely don’t ignore that the Russian alleged “aggression” could have been avoided if their President hadn’t taken such venturesome decisions. Therefore Saakashvili will have to bear responsibility for having set off a conflict they have ruinously lost, even if he will try to politically optimize the “victim” aura.

Secondly, the US’ prestige—and secondly EU’s one —has endured remarkable backlashes in the region. Today facts have showed how much the balance of military power in the Caucasus leans undoubtedly towards Moscow. Washington has been able to counter the Russian offensive with propaganda, with fulminating declarations, with word-only solidarity, and it’s likely to do it also with hefty donations for the rebuilding of Georgian infrastructures; yet the US hasn’t even been able to send a single soldier to protect the supposedly “aggressed” Georgian ally, and Moscow has brought the operation to an end only after having accomplished its own targets. The rash closing of the operations by Moscow will certainly be exploited by Washington and Tblisi in order to make it look like it depended on American pressures aiming at preserving the White House’s prestige in the region.

Moscow’s third success lies in putting off Georgia’s admission to the NATO. If Georgia had been a NATO member, today Europe and the US should have either engaged in the third world war or lost their face before the whole world. Reason for which Georgia’s entrance in the NATO has always been dependent on settling the Abkhazian and Ossetian problems. Now more than ever these problems are serious and their possible consequences obvious. Paradoxically, the only way for Tblisi to enter the NATO, at the moment, would seem to be the annexation of Abkhazia and Ossetia to the  Russian Federation: as the saying goes, “off goes the tooth, off goes the ache”. Maybe that’s why Moscow will go on lingering, putting off the settlement of both issues until doomsday.


Source: http://www.eurasia-rivista.org/cogit_content/articoli/EkElZuFVFyJfqfxDct.shtml

Original article published on Aug. 14, 2008

About the author

Diego Traversa is a collaborator of Tlaxcala and Benedetta Scardovi-Mounier is a member of Tlaxcala, the network of translators for linguistic diversity. This translation may be reprinted as long as the content remains unaltered, and the source, author, translator and reviser are cited.

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L’America indiolatina nel sistema multipolare

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Editoriale
America indiolatina ed Eurasia: i pilastri del nuovo sistema multipolare (Tiberio Graziani)

Dossario: L’America indiolatina nel sistema multipolare
L’imperialismo e la rivoluzione latinoamericana I Parte (Giovanni Armillotta)
Le misiones. Il Venezuela e la sovranità sociale (Marco Bagozzi)
Banco del Sur: una visione geopolitica (Alberto Buela)
Chiesa e America Latina (Alessandra Colla)
Alle origini della prassi geopolitica di Chavez: il pensiero geopolitico di Norberto Ceresole (Francisco de la Torre)
Rafael Correa: per una vera unità sudamericana (Francisco de la Torre)
Il programma nucleare del Brasile (Alessandro Lattanzio)
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Il MERCOSUR in un mondo dalle molteplici opzioni (Félix Peña)
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Recensioni
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Roberto Occhi, Che Guevara. La più completa biografia, Verdechiaro, Baiso (RE) 2007 (Claudio Mutti)
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America indiolatina ed Eurasia: i pilastri del nuovo sistema multipolare

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L’avventurismo statunitense in Georgia e la profonda crisi economico-finanziaria che investe l’intero sistema occidentale hanno definitivamente evidenziato l’incapacità degli Stati Uniti di gestire l’attuale momento storico. I paradigmi interpretativi basati sulle dicotomie est-ovest, nord-sud, centro-periferia non sembrano più essere validi per delineare i prossimi scenari geopolitici. Una lettura continentale e multipolare delle alleanze e delle tensioni fra gli attori globali ci permette di individuare nell’America indiolatina e nell’Eurasia i pilastri del nuovo sistema internazionale.

L’incapacità statunitense di governare

La recente questione georgiana ha definitivamente posto una pietra tombale sul cosiddetto unipolarismo statunitense e, soprattutto, sembra aver reso effettivo un sistema geopolitico articolato ormai su poli continentali, cioè un sistema multipolare.

Ciò non è stato affatto colto dalla maggior parte degli osservatori ed analisti, i quali, pur consapevoli del tramonto della “nazione indispensabile” (secondo l’ardita definizione dell’ex Segretario di Stato Madeleine Albright), in margine alla crisi agostana tra Mosca e Tiblisi hanno ripetutamente fatto riferimento ad un nuovo bipolarismo e ad una riformulazione della “guerra fredda”. In realtà, siamo ben lontani dalla riedizione del vecchio sistema bipolare, e non soltanto perché le motivazioni ideologiche (tra cui l’antitesi comunismo-capitalismo, totalitarismo-democrazia), che hanno caratterizzato il dopoguerra dal 1945 al 1989, e dunque fornito linfa all’equilibrio bipolare, sono venute meno, ma, soprattutto, perché grandi paesi di dimensione continentale, come la Cina, l’India e il Brasile, in conseguenza del loro sviluppo economico e grazie alla coscienza geopolitica che anima da circa un buon decennio le loro rispettive classi dirigenti, ambiscono, responsabilmente, ad assumere impegni politici, economici e sociali a livello planetario.

Bisogna subito dire, però, che il declino del sistema unipolare a guida statunitense non significa affatto la fine dell’egemonia di Washington, tuttora presente, anche militarmente, in vaste aree del Pianeta. Quella di Washington è per il momento un’egemonia ridotta, con cui le nuove entità geopolitiche dovranno confrontarsi ancora per qualche anno. Un’egemonia, teniamo a sottolineare, forse più pericolosa del passato per la stabilità internazionale, perché appunto traballante e suscettibile, pertanto, di essere gestita da Washington e dal Pentagono con scarso equilibrio, come la crisi georgiana ha ampiamente dimostrato.

La profonda crisi strutturale dell’economia degli USA (1) ha contribuito soltanto ad accelerare un processo di ridimensionamento dell’intero “sistema occidentale” che, iniziato a metà degli anni ’90, veniva tuttavia registrato solo nei primi anni dell’attuale secolo da autori come Chalmer Johnson ed Emmanuel Todd nella rispettive analisi sulle conseguenze cui gli Stati Uniti, quale unica potenza mondiale egemone, sarebbero presto andati incontro (2) e sulla decomposizione del sistema statunitense (3).

Johnson, profondo conoscitore dell’Asia, e del Giappone in particolare, osservava, tra il 1999 e il 2000, che gli USA non sarebbero stati in grado di gestire il loro rapporto con l’Asia, se avessero perseguito i “reiterati tentativi del loro governo di dominare la scena mondiale” (4). Tra i cambiamenti, già visibili, che avrebbero nel prossimo futuro delineato un nuovo quadro geopolitico, Johnson poneva la propria attenzione al crescente tentativo della Cina di emulare le altre economie dell’Asia orientale a crescita intensiva (5). Lo stesso autore, riferendosi all’impietosa analisi illustrata da David Calleo (6) nel lontano 1987 sulla disgregazione del sistema internazionale, riteneva che gli Stati Uniti di fine secolo fossero “un egemone rapace” “dotato di scarso senso d’equilibrio”.

Anche il francese Todd, come l’americano Johnson, riteneva che gli USA, a causa delle guerre in Medio Oriente e in Jugoslavia, fossero diventati, ormai, un elemento di disordine per l’intero sistema internazionale; secondo Todd, inoltre, l’interdipendenza economica era a netto svantaggio dell’economia statunitense, come la crescita del deficit economico dell’ultimo decennio indubbiamente dimostrava.

Alcuni anni dopo, nel gennaio del 2005, un acuto e brillante osservatore come Michael Lind della New America Foundation sosteneva, in un importante articolo pubblicato sul “Financial Times” (7), che alcuni Paesi eurasiatici (principalmente la Cina e la Russia) e dell’America meridionale stavano “silenziosamente” prendendo misure il cui effetto sarebbe stato quello di “ridimensionare” la potenza nordamericana.

Più recentemente (2007), Luca Lauriola (8) ha sostanzialmente ribadito gli stessi concetti, che qui riportiamo nelle parole di Claudio Mutti: “Lauriola intende dimostrare alcune tesi che possono essere schematicamente riassunte nei termini seguenti: 1) gli USA non sono più la maggiore potenza mondiale; 2) la potenza tecnologica russa supera oggi quella statunitense; 3) l’intesa strategica tra Russia, Cina e India configura un’area geopolitica alternativa a quella statunitense; 4) gli USA si trovano in una gravissima crisi finanziaria ed economica che prelude ad un vero e proprio crollo; 5) in tale situazione, la potenza statunitense è “smarrita e impazzita”, sicché Mosca, Pechino e Nuova Delhi la trattano cercando di non provocare reazioni che potrebbero causare catastrofi mondiali; 6) l’amministrazione Bush prosegue imperterrita verso il precipizio, inventando continuamente menzogne che giustifichino la funzione mondiale degli USA; 7) le condizioni di vita di gran parte della popolazione statunitense sono simili a quelle di molti paesi sottosviluppati; 8 ) l’immagine odierna degli USA non è un’eccezione della loro storia, ma riproduce fedelmente quella di sempre (dal genocidio dei Pellirosse al terrorismo praticato in Vietnam); 9) negli USA, un ruolo politico eminente viene svolto da quella medesima lobby messianica che aveva primeggiato nella nomenklatura sovietica” (9).

Ma come mai l’iperpotenza statunitense, nel breve volgere di neanche un ventennio, è sul punto di collassare? Perché un attore globale come gli USA non è stato in grado di governare ed imporre il suo tanto declamato “New Order”, democratico e liberista?

Le risposte a tali quesiti non vanno ricercate soltanto nelle, tutto sommato, facili analisi care agli economisti e/o nelle contraddizioni politiche in seno al sistema occidentale. Vanno, a nostro avviso, cercate proprio nell’analisi delle dottrine geopolitiche della potenza statunitense. Gli Stati Uniti d’America — potenza talassocratica mondiale — hanno sempre perseguito, fin dalla loro espansione nel subcontinente sudamericano, una prassi geopolitica che in altra sede abbiamo definita “del caos” (10), vale a dire la geopolitica della “perturbazione continua” degli spazi territoriali suscettibili di essere posti sotto la propria influenza o il proprio dominio; da qui l’incapacità di realizzare un vero ed articolato ordine internazionale, quale ci si dovrebbe aspettare da chi ambisce alla leadership mondiale.

Due geopolitici italiani, Agostino Degli Espinosa e Carlo Maria Santoro, in epoche diverse e molto lontane tra loro, rispettivamente negli anni ’30 e ’90, hanno constatato una importante caratteristica degli USA, quella di essere inadatti a governare, ad amministrare.

Scriveva nel lontano 1932 Agostino Degli Espinosa: “L’America non vuole governare, vuole semplicemente possedere nel modo più semplice, ossia con il dominio dei suoi dollari”, e proseguiva affermando che governare “non significa unicamente imporre delle leggi e delle volontà: significa dettare una legge a cui lo spirito del popolo o dei popoli aderisca in modo che fra governo e governati si formi un’unità spirituale organizzata” (11).

Ribadiva, a distanza di oltre sessant’anni, Carlo Maria Santoro: “le potenze marittime […] non sanno immaginare, neppure concettualmente, la conquista e l’amministrazione, ovvero la suddivisione gerarchica dei grandi Imperi continentali” (12).

La specificità talassocratica degli USA, individuata da Santoro, e l’incapacità di governare, nel senso sopra magistralmente esposto da Degli Espinosa, spiegano meglio di ogni altra analisi il declino della Potenza nordamericana. A ciò, ovviamente, vanno aggiunti anche gli elementi critici connessi al grado di espansione dell’imperialismo statunitense: dispiegamento militare, spesa pubblica, scarso senso della diplomazia.

Ad affermare l’inettitudine degli USA nel gestire l’attuale momento storico è giunto, recentemente, anche l’economista francese Jacques Sapir. Per il direttore della scuola di Parigi per gli studi delle scienze sociali (EHESS), anzi, già la crisi del 1997-1999 aveva mostrato ”que les Ètats-Unis étaient incapables de maîtriser la libéralisation financière internationale qu’ils avaient suscitée et imposée à nombreux pays” (13). Ovviamente, per Sapir la mondializzazione è un aspetto dell’espansionismo statunitense, essendo in larga misura l’applicazione della politica americana che egli ritiene essere “una politica volontarista di apertura finanziaria e commerciale” (14). All’epoca, quando le ricette liberiste statunitensi, veicolate attraverso i diktat del Fondo monetario internazionale, fallivano in Indonesia e venivano, a ragione, duramente rifiutate da Kuala Lumpur, fu, significativamente, sottolinea Sapir, la responsabile politica economica adottata da Pechino ad assicurare la stabilità dell’Estremo Oriente.

È interessante notare che l’accelerazione del processo di ridimensionamento economico e politico degli USA (2007-2008) è avvenuto proprio quando alla guida del paese permane una gruppo di potere che si rifà alle idee dei think tank neoconservatori. I neocons, è noto, hanno spinto il più possibile Washington ad attuare negli ultimi anni — a partire almeno dal 1998, anno in cui inizia la “rivoluzione negli affari militari” — una politica estera aggressiva ed espansionista; tale politica è stata condotta in stretta coerenza con i principi veterotestamentari (l’impulso messianico come componente del patriottismo statunitense e come costante del carattere nazionale) che li contraddistinguono e con la particolare declinazione, in senso conservatore, della nota tesi trockista della rivoluzione permanente. Questa tesi, oltre a costituire, per alcuni versi, il sostrato teorico della strategia della “permanent war”, definita dal vice presidente Dick Cheney ed attuata con solerzia dall’Amministrazione Bush nel corso degli ultimi due mandati presidenziali (2000-2008), rinverdisce la caratteristica “geopolitica del caos” di Washington.

America indiolatina ed Eurasia

Se gli USA, stretti tra necessità d’ordine geostrategico (controllo della Russia e della Cina in Eurasia, del Brasile, dell’Argentina e dell’area caraibica nel proprio emisfero) e una profonda crisi economico-finanziaria, sembrano essere confusi ed oscillare tra una politica estera persino più aggressiva e muscolare rispetto al recente passato e un ripensamento realistico del proprio ruolo mondiale, i maggiori paesi eurasiatici, Russia e Cina in testa, ed i più importati paesi sudamericani, Argentina e Brasile, appaiono sempre più consapevoli delle proprie potenzialità economiche, politiche e geostrategiche.

Ciò obbliga gli analisti e i decisori politici ad utilizzare nuovi paradigmi per interpretare il presente. Gli schemi interpretativi del passato, basati sulle dicotomie est-ovest, nord-sud, centro-periferia, non sembrano valere più. Sarà bene analizzare il presente, al fine di cogliere gli elementi necessari per delineare i futuri possibili scenari geopolitici, da una prospettiva continentale e multipolare delle alleanze e delle tensioni fra gli attori globali; in particolare, occorrerà concentrare l’attenzione sugli assi intercontinentali tra i due emisferi del Pianeta.

Il BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), il nuovo asse geoeconomico tra l’Eurasia e l’America indiolatina, è ormai una realtà ben definita, capace di attrarre, nel prossimo futuro, altri paesi eurasiatici e sudamericani. Se, nel breve-medio periodo, tale asse si consoliderà, il sogno “occidentalista” inglese di una comunità euroatlantica, dalla Turchia alla California (15), e quello mondialista degli USA, incardinato sulla triade Nordmerica, Europa e Giappone, saranno destinati a rimanere tali.

Il recente vertice dei Ministri degli esteri dei paesi del BRIC (maggio 2008, Ekaterinburg, Russia), che ha confermato l’intenzione dei nuovi paesi emergenti ad intessere ulteriormente le relazioni economiche e politiche, è stato percepito dagli USA come un vero e proprio affronto. A ciò occorre anche aggiungere la riunione dei Big Five (Brasile, India, Cina, Messico e Sud Africa), tenutasi a Sapporo nel luglio del 2008 in concomitanza con il vertice di Hokkaido del G8.

È con l’insediamento di Putin a primo ministro della Federazione russa (agosto 1999) che iniziano ad avviarsi consistenti relazioni economiche tra la Russia e i paesi sudamericani, per poi intensificarsi nel corso degli ultimi anni fino ad assumere una decisa dimensione politica.

Mentre risale all’aprile del 2001 l’interesse della Cina verso l’America meridionale, con la storica visita del presidente Jian Zemin a diverse nazione del subcontinente americano. La Cina, alla ricerca di materie prime e di risorse energetiche per il proprio sviluppo industriale, ritiene il Brasile, il Venezuela ed il Cile partner privilegiati e strategici (si contano, ad oggi, tra i 400 e 500 accordi commerciali tra Pechino, i principali paesi sudamericani e il Messico), tanto da investirvi cospicui capitali per la realizzazione di importanti infrastrutture.

Gli interessi russi e cinesi in America meridionale, dunque, aumentano giorno dopo giorno. Il colosso russo Gazprom (insieme all’italiana ENI) sigla contratti con il Venezuela (settembre 2008) per l’esplorazione delle aree Blanquilla Est e Tortuga, nel Mar dei Caraibi, a circa 120 chilometri a nord dalla città di Puerto la Cruz (Venezuela settentrionale), e Mosca vara un piano per la creazione di un consorzio petrolifero in America meridionale. Inoltre, mentre la Lukoil firma un memorandum d´intesa con la compagnia petrolifera venezuelana, la PDVSA, Chávez si reca a Pechino (settembre 2008) per firmare una ventina di accordi commerciali con Hu Jintao, relativi a forniture agricole, tecnologiche e petrolchimiche e si impegna a fornire 500 mila barili/giorno di petrolio entro il 2010 e 1 milione entro il 2012.

Inoltre, Pechino e Caracas, facendo seguito a intese intercorse nel maggio del 2008, a settembre dello stesso anno, prendono accordi per l’installazione di una raffineria di proprietà comune in Venezuela e per la realizzazione congiunta di una flotta di quattro petroliere giganti e per l’aumento delle spedizioni di petrolio in Cina.

L’America caraibica e meridionale non sembra più essere il “cortile di casa” di Washington. Le preoccupazioni aumentano per Washington, quando il Nicaragua riconosce le repubbliche dell’Ossezia del sud e dell’Abkhazia, quando il Venezuela ospita bombardieri strategici russi a lungo raggio e, soprattutto, quando il processo di integrazione dell’America meridionale viene accelerato dalle strettissime intese tra Buenos Aires e Brasilia. Le relazioni tra i due maggiori paesi del subcontinente americano si sono recentemente (settembre 2008) concretizzate nell’adozione del sistema di pagamento in moneta locale (SML) per l’interscambio economico-commerciale. L’adozione del SML al posto del dollaro statunitense rappresenta un vero e proprio primo passo verso l’integrazione monetaria dell’intera area Mercosur e l’embrionale costituzione di un “polo regionale” che, verosimilmente, grazie soprattutto agli ormai consolidati rapporti con la Russia e la Cina in campo economico e commerciale, potrebbe svilupparsi nel breve volgere di un lustro.
Il nervosismo di Washington sale, inoltre, quando Pechino e Russia espandono la loro influenza in Africa e trattengono rapporti di collaborazione con l’Iran e la Siria.

Tuttavia, oltre i pur importanti e necessari accordi economici, commerciali e politici, affinché il nuovo sistema multipolare possa adeguatamente svilupparsi, i suoi due pilastri, l’Eurasia nell’emisfero nordorientale e l’America indiolatina in quello sudoccidentale, dovranno assumere, necessariamente, il controllo dei propri litorali e contenere le tensioni interne (spesso suscitate artificialmente da Washington e Londra), il loro vero tallone d’Achille.

Infatti, per far fronte agli USA — per trovare, cioè, soluzioni ragionevoli ed equilibrate che ne riducano, a livello planetario, senza ulteriori sconvolgimenti, il grado di perturbazione — Cina e Russia devono considerare che, attualmente, l’ex iperpotenza è, sì, sicuramente una nazione “smarrita”, ma pur sempre un’entità geopolitica dalle dimensioni continentali, padrona dei propri litorali e con ancora una potente flotta navale (16), presente su tutti gli scacchieri del Pianeta. Recentemente, ricordiamo, Washington ha riattivato la Quarta Flotta (per ora costituita da 11 navi, un sommergibile nucleare e una portaerei) per dimostrare, minacciosamente, il proprio impegno presso i loro partner centroamericani e sudamericani. La pur sempre temibile potenza statunitense impone all’Eurasia, principalmente alla Russia che ne costituisce il fulcro, ma anche alla Cina, di attivare una politica di integrazione, o maggiore collaborazione, verso l’area peninsulare ed insulare della massa continentale, cioè verso l’Europa ed il Giappone. È in tale contesto che occorre considerare la nuova politica del presidente Medvedev in relazione al potenziamento delle forze armate russe e, in particolare, al riammodernamento della marina militare (17). Pur se ci troviamo nell’era della cosiddetta “geopolitica dello spazio” e della geostrategia dei missili e degli scudi spaziali, l’elemento navale rappresenta, già da oggi, un importante banco di prova sul quale gli attori globali sono chiamati a sperimentare le proprie strategie per almeno il prossimo decennio, sia nei “mari interni” (Mediterraneo, Nero e Caraibico) sia negli oceani.

Al fine di comprendere appieno le future mosse della potenza d’oltreoceano, Pechino e Mosca farebbero bene a tenere a mente quanto scriveva, anni or sono, Henry Kissinger,: “Geopoliticamente l’America è un’isola al largo del grande continente eurasiatico. Il predominio da parte di una sola potenza di una delle due sfere principali dell’Eurasia — Europa o Asia — costituisce una buona definizione di pericolo strategico per gli Stati Uniti, una guerra fredda o meno. Quel pericolo dovrebbe essere sventato anche se quella potenza non mostrasse intenzioni aggressive, poiché, se queste dovessero diventare tali in seguito, l’America si troverebbe con una capacità di resistenza efficace molto diminuita e una incapacità crescente di condizionare gli avvenimenti” (18).

In maniera perfettamente speculare a quello per l’Eurasia, un analogo discorso vale anche per l’America indiolatina. L’America indiolatina — cioè per il momento, il Brasile, l’Argentina ed il Venezuela — è obbligata per evidenti motivi geostrategici, a contenere le tensioni che alimentano l’instabilità di una parte dell’arco andino (19), in particolare quella boliviana, che costituisce il tratto territoriale che collega la costa occidentale a quella orientale del subcontinente americano. Brasilia, Buenos Aires, Santiago e Caracas — se veramente vogliono sottrarsi alla tutela statunitense — dovranno necessariamente incrementare le loro relazioni politiche e militari e porre particolare attenzione al potenziamento delle proprie flotte marine, civili e militari. Le condizioni attuali, grazie all’“amico lontano” rappresentato dalle potenze eurasiatiche, sembrano giocare a loro favore. Le condizioni attuali, è doveroso dirlo, giocano a favore anche dell’Europa e del Giappone.

Per l’equilibrio del Pianeta, tuttavia, c’è solo da sperare che gli USA prendano ragionevolmente atto del loro ridimensionamento, e non perseguano, quindi, insensate strategie di rivincita.

Note

1. L’odierna crisi economico-finanziaria risale, secondo alcuni specialisti, tra cui Jacques Sapir, a quella del triennio 1997-1999. Jacques Sapir, Le nouveau XXI siècle. Du siècle «américaine» au retour des nations, Seuil, Paris 2008, p.11. Ricordiamo che gli USA, dal 1992 al 1997, nella convinzione di essere ormai l’unica potenza mondiale, veicolarono, a sostegno della loro strategia di dominio mondiale, una “campagna ideologica volta ad aprire le economie del mondo al libero commercio e al libero movimento dei capitali su scala globale” (Chalmer Johnson, Gli ultimi giorni dell’impero americano, Garzanti, Milano 2001, p. 290).

2. Chalmer Johnson, Gli ultimi giorni dell’impero americano, Garzanti, Milano 2001, ediz. orig. Blowback, The Costs and Consequences of American Empire, Little Brown and Company, London 2000.

3. Emmanuel Todd, Après l’empire. Essai sur la décomposition du système américain, Gallimard, Paris 2002. Ed. italiana, Dopo l’impero, Tropea, Milano 2003.

4. Chalmer Johnson, op. cit., p. 59.

5. Chalmer Johnson, op. cit., p. 58.

6. “Il sistema internazionale va disgregandosi non solo perché nuove potenze aggressive dotate di scarso senso dell’equilibrio cercano di dominare i paesi confinanti, ma anche perché le potenze in via di declino, anziché regolarsi e adattarsi, cercano di cementare il proprio barcollante predominio trasformandolo in un’egemonia rapace”, David. P. Calleo, Beyond American Hegemony: The future of the Western Alliance, New York 1987, p. 142, citazione tratta da Chalmer Johnson, op. cit., p. 312.

7. Michael Lind, How the U.S. Became the World’s Dispensable Nation in “Financial Times”, 26 gennaio 2005.

8. Luca Lauriola, Scacco matto all’America e a Israele. Fine dell’ultimo Impero, Palomar, Bari 2007.

9. Claudio Mutti, Recensione a L. Lauriola, Scacco matto all’America e a Israele, www.eurasia-org, 27 gennaio 2008.

10. Tiberio Graziani, Geopolitica e diritto internazionale nell’epoca dell’occidentalizzazione del pianeta, in “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, 4/2007, p. 7.

11. Agostino Degli Espinosa, Imperialismo USA, Augustea, Roma-Milano 1932-X, p.521.

12. Carlo Maria Santoro, Studi di Geopolitica, G. Giappichelli, Milano 1997, p. 84.

13. Jacques Sapir, op. cit., pp. 11-12.

14. Jacques Sapir, op. cit., pp. 63-64.

15. Sergio Romano, in merito alla politica inglese antieuropea, così rispondeva a due lettori del quotidiano “Corriere della sera”: “L’ obiettivo inglese è una grande comunità atlantica, dalla Turchia alla California, di cui Londra, beninteso, sarebbe il perno e la cerniera”, Sergio Romano, Perché è difficile fare l’ Europa con la Gran Bretagna, Corriere della sera, 12 giugno 2005, p. 39.

16. Riporta Alessandro Lattazione che “la flotta USA, dieci anni fa, possedeva 14 portaerei e relativi gruppi di battaglia. Oggi ne ha, sulla carta, 10 ma solo 5/6 sono operative”. Alessandro Lattanzio, La guerra è finita?, relazione presentata al FestivalStoria, Torino, 16 ottobre 2008.

17. Alessandro Lattanzio, Il rilancio navale della Russia, www.eurasia-rivista.org, 1 ottobre 2008.

18. Henry Kissinger, L’arte della diplomazia, Sperling & Kupfer Editori, Milano 2006, pp.634-635.

19. Come noto, gli analisti suddividono l’America meridionale in due archi: l’arco andino, costituito da Venezuela, Colombia, Ecuador, Perú, Bolivia, Paraguay e l’arco atlantico, costituito da Brasile, Uruguay, Argentina e Cile.

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Латинская Америка и Евразия: центры нового многополярного мира

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Авантюрная политика США в Грузии и глубокий финансовый и экономический кризис, поразивший весь западный мир, окончательно выявили неспособность Соединенных Штатов управлять ходом современной истории.

Модели формирования современного миропорядка на базе противопоставления: восток – запад, север – юг, центр – окраины, кажется, уже больше не работают для геополитических сценариев будущего.

Многополярный подход к союзам и конфликтам между действующими на мировой арене силами позволяет нам географически выделить в качестве главных центров нового мироустройства Латинскую Америку и Евразию.


Неспособность США к господству

Недавняя грузинская кампания окончательно похоронила так называемую однополярность, основанную на единоличном лидерстве США, и, что особенно важно, показала эффективность новой геополи3 тической системы, строящейся отныне вокруг различных полюсов на отдельных континентах, иными словами, многополярного мира.

Следует, однако, сразу же заметить, что закат однополярного мира под эгидой Соединенных Штатов вовсе не означает конец гегемонии Вашингтона, чье присутствие, в том числе и военное, по3прежнему сохраняется на обширной части территории нашей планеты. С этой на сегодняшний день убавившейся гегемонией новым геополитическим силам еще несколько лет предстоит находиться в конфронтации.

Такая гегемония, подчеркнем особо, по сравнению с прошлым, возможно, еще более опасна для международной стабильности, именно в силу своей шаткости и уязвимости. Поэтому осуществлять ее Вашингтону и Пентагону приходится, с трудом удерживая равновесие, как наглядно показал грузинский конфликт.

Глубокий структурный кризис экономики Штатов (1) только ускорил процесс перераспределения сил во всей «западной системе», начавшийся еще в середине 1990-х годов, что подметили, однако, только в первые годы нового столетия такие авторы, как Чалмер Джонсон и Эммануэль Тодд, каждый анализируя по-своему те последствия, с которыми должна будет скоро столкнуться единственная в мире сверхдержава (2), США, и предрекая распад системы американского господства (3).

Джонсон, глубокий знаток Азии и Японии, в частности, в 1999–2000 гг. высказывал мнение о том, что США окажутся не в состоянии сохранять прежние отношения с Азией, если «их правительство будет продолжать настаивать в своих притязаниях на мировое господство» (4). В числе уже заметных перемен, которые в ближайшее время будут определять новый геополитический контекст, он обращал внимание на усилившееся стремление Китая обогнать экономики других восточно-азиатских стран путем интенсивного роста (5). Он же, ссылаясь на безжалостный анализ Давида Каллео (6), проиллюстрировавшего еще в далеком 1987 году распад международной системы,

делал вывод о том, что США в конце столетия превратились в «хищного гегемона», «обделенного чувством равновесия».

Французский ученый Тодд также считал, что США в результате войн на Ближнем Востоке и в Югославии превратились в настоящее время в фактор, вносящий беспорядок на международной арене, при этом, по его мнению, взаимозависимость мировых экономик явно невыгодно сказалась на американской экономике, что однозначно продемонстрировал ее дефицит в последнем десятилетии.

Несколько лет спустя, в январе 2005 года, острый и блестящий обозреватель издания New America Foundation Микаэл Линд в большой статье, опубликованной в газете «Financial Times» (7), указывал, что некоторые евроазиатские страны, главным образом, Россия и Китай, и страны Южной Америки «потихоньку» предпринимали меры, последствием которых явится «убывание» американской мощи.

И совсем уже недавно (2007) Лука Лауриола (8) в основном повторил те же оценки, которые мы приводим здесь со слов Клаудио Мутти: «Лауриола намерен изложить несколько тезисов, которые схематично сводятся к следующему: 1) США уже не являются сильнейшей мировой державой; 2) технологическая мощь России на сегодняшний день выше, чем у Штатов; 3) в стратегическом согласии между Россией, Китаем и Индией угадывается конфигурация нового, альтернатив_ного Америке, геополитического пространства; 4) США пребывают в глубочайшем финансовом и экономическом кризисе, преддверии самого настоящего краха; 5) в такой ситуации заокеанская держава «растерялась и сошла с ума», хотя Москва, Пекин и Нью_Дели стара_ются вести себя с ней так, чтобы не спровоцировать реакцию, угро_жающую мировой катастрофой; 6) администрация Буша продолжа_ет невозмутимо двигаться в сторону пропасти, каждый раз выдумы_вая новые лживые оправдания мировой роли США; 7) значительная часть населения Соединенных Штатов живет в условиях, близких к условиям развивающихся стран; 8) сегодняшний имидж этой страны не является исключительным для ее истории, но в точности воспро_ изводит ее всегдашний облик (начиная с геноцида краснокожих и кон_чая разбоем во Вьетнаме); 8) в США ведущую политическую рольиграет мессианское лобби, подобное тому, что некогда господствова_

ло в советской номенклатуре» (9).

Но как такая супердержава за короткое десятилетие могла подойти к состоянию, близкому к краху? Почему такой всемирный игрок, как США, оказался не способным ни руководить, ни навязать свой прославленный демократический и либеральный «новый порядок»?

Ответы на эти вопросы не следует искать только в простых выкладках экономистов, дорогих их сердцам, или/и в политических противоречиях, наблюдающихся в лоне западной системы. На наш взгляд, их следует искать именно в анализе геополитических доктрин этой страны. США, эта мировая талассократическая держава, со времен своей экспансии на территорию латиноамериканского континента, всегда придерживались политической практики, которую мы уже определили в другом случае как хаос (10), что означает «геополитику постоянных пертурбаций», устраиваемых на территориях тех стран, где есть возможность подчинить их своему влиянию и навязать собственное господство. Отсюда – неспособность установить настоящий и внятный международный порядок, которого следовало бы ждать от тех, кто претендует на мировое лидерство.

Два итальянских специалиста по геополитике, Агостино Дельи Эспиноза и Карло Мария Санторо, в разное и довольно далекое друг от друга время, соответственно в 19303е и в 19903е годы, констатировали характерную для Соединенных Штатов важную черту: неспособность к руководству, к управлению. В далеком 1932 году Агостино Дельи Эспиноза писал: «Америка не хочет править, а хочет просто властвовать самым обыкновенным способом, а именно, путем засилья своих долларов». И продолжал дальше, утверждая, что править «не означает только навязывать свои законы и волю, а означает диктовать закон, который так бы отвечал духу народа, что между правящим и управляемыми возникло бы духовное организованное единство» (11)

Спустя более чем 60 лет Карло Мариа Санторо вторил ему: «Морские державы […] не могут даже концептуально представить себе завоевание и правление иначе, как путем деления крупных континентальных империй по иерархическому принципу» (12).

Специфическое свойство такого талассократического государства, как США, отмеченное Санторо, заключается в неумении править, в том смысле, о котором мастерски высказался выше Дельи Эспиноза, объяснив лучше, чем любой другой аналитик, упадок североамерикан-ской державы.

К чему, разумеется, следует добавить также и негативные обстоятель3 ства, связанные с экспансией американского империализма: военное развертывание, государственные расходы, недостаток дипломатического такта. Сегодняшнюю неспособность США возглавить исторический

процесс недавно констатировал также и французский экономист Жак Сапир. Более того, по мнению ректора Высшей школы общественных наук в Париже (EHESS – Ecole des hautes Jtudes en sciences sociales), уже кризис 1997–1999 годов показал, «что Соединенные Штаты оказались неспособны обуздать процесс международной финансовой либерализации, который они сами вызвали и навязали многим странам» (13).

Очевидно, что для Сапира глобализация является одним из аспектов американского экспансионизма и во многом результатом проводимой Штатами «волюнтаристской политики финансовой и коммерче ской свободы» (14). В то время как американские либеральные рецепты, навязываемые Международным валютным фондом методом диктата, терпели неудачу в Индонезии и жестко отвергались в Куала Лампуре, стабильность на Дальнем Востоке, по мнению ученого, в значительной мере была обеспечена благодаря ответственной экономической политике, проводимой Пекином.

Интересно отметить, что процесс ослабления экономического и политического могущества США в 2007–2008 годах ускорился именно тогда, когда у власти там находилась группировка, питавшаяся идеологическими разработками консерваторских «мозговых центров». Как известно,

неоконсерваторы в последнее время, по крайней мере, начиная с 1998 года, начала «революции в военных делах», изо всех сил толкали Вашингтон к проведению агрессивной и экспансионистской внешней политики. Эта политика осуществлялась в строгом соответствии с известными старозаветными принципами (мессианский импульс как составляющая часть американского патриотизма и как постоянный национальный признак), а также с особым консервативным акцентом в трактовке знаменитой троцкистской теории «перманентной революции». Это учение, явившись в некотором роде теоретическим субстратом стратегии «перманентной войны», которая была разработана вице3президентом Диком Чейни и с усердием претворялась в жизнь администрацией Буша в течение двух последних сроков президентского правления (2000–2008), вновь вдохновляет типичную для Вашингтона «геополитику хаоса».

Латинская Америка и Евразия

Если США, оказавшись перед необходимостью поддержания геостратегического порядка (контроля за Россией и Китаем в Евразии, а также за Бразилией, Аргентиной и странами Карибского бассейна в собственном полушарии), в условиях глубокого финансово3экономического кризиса кажутся растерянными и балансируют между еще более агрессивной, силовой по сравнению с прошлым внешней политикой и реалистической переоценкой собственной роли в мире, то крупнейшие евроазиатские державы во главе с Россией и Китаем, а также южно американские страны, такие, как Аргентина и Бразилия, похоже, все сильнее осознают собственные экономические, политические и гео стратегические потенциальные возможности. Это заставляет аналити ков и людей, принимающих политические решения, подходить с новыми мерками к пониманию настоящего момента.

Похоже, схемы толкования исторического прошлого, исходящие из противопоставления востока и запада, севера и юга, центра и окраин, уже больше не работают. Чтобы распознать возможные геополитические сценарии будущего, было бы правильнее применять континентальные и многополярные модели к союзам и расколам, происходящим между сегодняшними игроками на мировой арене, следовало бы сосредоточить внимание на межконтинентальных осях, связывающих сегодня два полушария.

Страны БРИК (Бразилия, Россия, Индия и Китай) образовали новую геоэкономическую ось между Евразией и Южной Америкой, которая стала уже вполне определенной реальностью, способной привлечь в ближайшем будущем остальные евроазиатские и южноамериканские страны. Если за короткий и средний период такая ось окончательно сформируется, то «западническим» мечтам Англии о евроатлантическом сообществе от Турции до Калифорнии (15) или расчетам США на установление мирового порядка, основанного на триаде сил – Северная Америка, Европа и Япония, так и не суждено будет сбыться.

В ходе недавней встречи министров иностранных дел стран БРИК (май 2008) в Екатеринбурге было подтверждено намерение развивающихся стран продолжать укрепление экономических и политических связей, что было воспринято США как настоящий вызов. Следует также напомнить о заседании «большой пятерки» (Бразилия, Индия, Китай, Мексика и ЮАР), состоявшемся в Саппоро а июле 2006 года, совпавшем по времени со встречей G8 в Хоккайдо.

Именно с момента вступления В.Путина в должность главы правительства Российской Федерации (август 19993го) между Россией и южноамериканскими странами возникли и начали интенсивно развиваться экономические связи, обретя в последние годы политически

значимые масштабы.

В то же время растет интерес Китая к Южной Америке, начало чему положил в апреле 2001 года визит председателя Китая Дзян Дземиня в различные страны южноамериканского континента. Китай в своих поисках сырья и энергетических ресурсов, необходимых для собственного промышленного роста, рассматривает Бразилию, Венесуэлу и Чили как своих привилегированных стратегических партнеров (на сегодняшний день между Пекином, основными южноамериканскими странами и Мексикой существует 400–500 торговых соглашений), сделаны также значительные капиталовложения в развитие крупных инфраструктур.

Таким образом, интересы России и Китая в Южной Америке растут с каждым днем. Российский колосс «Газпром» (вместе с итальянским ЭНИ) заключает с Венесуэлой (сентябрь 2008) контракты на разведку газа на участках Blanquilla Est (Бланкия Эст) и Tortuga (Тортуга), в Карибском море, приблизительно в 120 км к северу от города Пуэрто ла Круз (северная Венесуэла), кроме того, Москва утверждает план создания нефтяного консорциума в Южной Америке. В то время как «Лукойл» подписывает соглашение3меморандум с венесуэльской нефтедобывающей компанией Petroleos de Venezuela S.A. (PdVSA), Уго Чавес едет в Пекин (сентябрь 2008) для подписания 20 коммерческих соглашений с Ху Цзиньтао о поставках сельскохозяйственной, нефтехимической продукции и технологий, а также обязуется поставить 500 тысяч баррелей нефти в день до 2010 года и 1 млн. баррелей до 2012 года.

Кроме этого, Пекин и Каракас, в продолжение соглашений, заклю ченных в мае 2008 года, в сентябре того же года договариваются о строительстве совместного нефтеперерабатывающего завода в Венесуэле и о совместном строительстве 4 гигантских танкеров для увеличения

поставок нефти в Китай.

Страны Карибского бассейна и Южной Америки уже больше не выглядят «домашним подворьем» Вашингтона. Озабоченность его только возрастает, когда Никарагуа признает республики Южную Осетию и Абхазию, когда Венесуэла принимает у себя на территории российские стратегические бомбардировщики дальнего радиуса действия, а главное, когда процесс интеграции стран Южной Америки ускоряется в результате тесного сближения между Буэнос3Айресом и Бразилией. Взаимоотношения между двумя крупнейшими державами латиноамериканского континента нашли недавнее конкретное воплощение в создании системы платежей в местной валюте (SML) для облегчения взаимообмена товарами. Введение SML вместо доллара США является первым настоящим шагом к интеграции валют всех стран – участниц Южноамериканского общего рынка (Mercosur), образованием в зачаточном виде «регионального полюса», который, по всей видимости, сможет развиться за короткий период благодаря уже упрочившимся отношениям с Россией и Китаем в экономической и торговой сфере.

Нервозность Вашингтона возрастает и тогда, когда Россия и Китай расширяют свое влияние в Африке, а также поддерживают отношения сотрудничества с Ираном и Сирией.

Однако, помимо заключения пусть даже очень важных и необходимых экономических, торговых и политических соглашений, направленных на адекватное развитие новой многополярной системы, два ее главных центра, Евразия – в cеверо3восточной и Латинская Америка – в юго3западной части планеты, обязательно должны будут взять под контроль свои прибрежные зоны и гасить у себя внутренние конфликты, зачастую искусственно разжигаемые самим Вашингтоном и Лондоном, а это является их настоящей ахиллесовой пятой.

Действительно, чтобы противостоять США – иными словами, чтобы находить разумные и взвешенные решения, которые без новых потрясений уменьшили бы риск возникновения на планете беспорядков, – Китай и Россия должны учитывать, что сегодня экс3супердержава хотя и представляет из себя «растерявшуюся» нацию, но все еще является геополитической единицей континентального масштаба, хозяином собственных прибрежных территорий. Располагая пока еще сильным морским флотом (16), она способна, как игрок, присутствовать повсюду, где бы на планете ни разыгрывалась «шахматная» партия. Недавно, как мы помним, Вашингтон возродил Четвертый флот (в состав которого на сегодняшний день входят 11 судов, одна ядерная подлодка и один авианосец), воинственно демонстрируя усердие своим партнерам в Центральной и Южной Америке. Все еще представляя угрозу, Соединенные Штаты вынуждают Евразию, и, главным образом, ее ядро, Россию, а также и Китай, усиливать политику интеграции и сотрудничества в отношении полуостровной и островной части континента, то есть Европы и Японии.

Именно в таком контексте следует рассматривать новый курс президента Медведева, направленный на усиление мощи российских ВВС, в особенности на модернизацию Военно-морского флота (17). Даже если мы живем в эру так называемой «геополитики пространства», геостратегии ракетного нападения и противоракетных щитов, корабельный флот уже сегодня является важной сферой, где участникам глобальных игр предстоит еще, по крайней мере, в течение ближайшего десятилетия, испытывать собственные военные стратегии как в водах «внутренних»

морей (Средиземного, Черного и Карибского), так и на океанах.

Чтобы лучше понимать будущие поступки заокеанской державы, Пекину и Москве было бы полезно иметь в виду то, о чем писал Генри Киссинджер: «С геополитической точки зрения, Америка является островом по отношению к евразийскому континенту. Преобладание одной_единственной державы в какой _либо основной части Евразии – в Европе или в Азии – представляет определенную опасность для Соединенных Штатов, угрозу войны, холодной или не очень. Данная опасность должна быть выявлена, даже если бы эта держава и не проявляла бы агрессивных намерений, поскольку, в случае появления таковых впоследствии, возможность Америки эффективно противостоять им весьма уменьшилась бы, в то время как ее неспособность влиять на события, напротив бы, возросла» (18).

Сказанное в отношении Евразии совершенно зеркально можно отнести и к Латинской Америке. Латинская Америка, а это на сегодняшний день Бразилия, Аргентина и Венесуэла, по очевидным геостратегическим соображениям вынуждена сдерживать напряженность, вызывающую нестабильность на территории одной части «андской дуги»1, особенно боливийской, это участок, соединяющий западный и восточный берега южноамериканского континента. Бразилия, Буэнос-Айрес, Сантьяго и Каракас, если они действительно хотят высвободиться из3под американской опеки, обязательно должны укреплять свои политические и военные связи, а также уделять особое внимание усилению мощи своего флота, как гражданского, так и военного.

Сегодня условия, благодаря их «дальнему другу» – евроазиатским державам, кажется, складываются в их пользу. Стоит заметить, что эти условия благоприятны также и для Европы, и для Японии.

Остается только надеяться, что ради сохранения равновесия на планете и США благоразумно осознают сокращение своей роли и, значит, не будут стремиться к безрассудному реваншу.


* Тиберио Грациани (Италия) – главный редактор итальянского журнала «Евразия. Обозрение геополитических исследований « и библиотеки «Геополитические тетради».


1. Сегодняшний экономический и финансовый кризис, по мнению некоторых специалистов, в числе которых Жак Сапир, восходит к кризисному трехлетию 1997–1999 годов. Jacques Sapir, Le nouveau XXI siècle. Du siècle «américaine» au retour des nations, Seuil, Paris 2008, p. 11. Напомним, что США с 1992 по 1997 год, в своем убеждении, что они теперь единственная супердержава в мире, развернули в поддержку стратегии мирового господства «идеологическую кампанию, нацеленную на открытие экономик мира для свободной торговли и движения капиталов, свободного в глобальных масштабах» (Chalmer Johnson, Gli ultimi giorni dell’impero americano, Garzanti, Milano 2001, p. 290).

2. Chalmer Johnson, Gli ultimi giorni dell’impero americano, Garzanti, Milano 2001, ediz. orig. Blowback, The Costs and Consequences of American Empire, Little Brown and Company, London 2000.

3. Emmanuel Todd, Après l’empire. Essai sur la décomposition du système américain,

Gallimard, Paris 2002. Ed. italiana, Dopo l’impero, Tropea, Milano. 2003.

4. Chalmer Johnson, op. cit., p. 59.

5. Chalmer Johnson, op. cit., p. 58.

6. «Мировая система распадается не только потому, что агрессивные державы, наделенные слабым чувством равновесия, пытаются руководить граничащими с ними странами, но также и потому, что, переживая упадок своего могущества, вместо того чтобы приспосабливаться, они стараются укрепить свое пошатнувшееся господство, трансформируя его в хищную гегемонию». David. P. Calleo, Beyond American Hegemony: The future of the Western Alliance, New York 1987, p. 142, цитируется по Chalmer Johnson, op. cit., p. 312.

7. Michael Lind, How the U.S. Became the World’s Dispensable Nation in «Financial Times», 26 gennaio 2005.

8. Luca Lauriola, Scacco matto all’America e a Israele. Fine dell’ultimo Impero, Palomar, Bari 2007.

9. Claudio Mutti, Recensione a L. Lauriola, Scacco matto all’America e a Israele, www.eurasia-org, 27 gennaio 2008.

10. Tiberio Graziani, Geopolitica e diritto internazionale nell’epoca dell’occidentalizzazione del pianeta, в «Eurasia. Rivista di studi geopolitici», 4/2007, p. 7.

11. Agostino Degli Espinosa, Imperialismo USA, Augustea, Roma-Milano 19323X, p.521.

12. Carlo Maria Santoro, Studi di Geopolitica,

13. Jacques Sapir, op. cit., pp. 11–12.

14. Jacques Sapir, op. cit., pp. 63–64

15. Серджо Романо по поводу английской антиевропейской политики так отвечал двум читателям еженедельника «Corriere della sera»: «Целью англичан является создание крупнейшего атлантического сообщества, от Турции до Калифорнии, стержнем и связующим звеном которого, разумеется, явился бы Лондон». Sergio Romano, Perché è difficile fare l’ Europa con la Gran Bretagna, Corriere della sera, 12 giugno 2005, p. 39.

16. Алессандро Латтационе отмечает, что «у флота США десять лет назад имелось на вооружении 14 авианосцев и соответствующие боевые подразделения. Сегодня на бумаге их 10 , но только 5/6 из них оперативны». Alessandro Lattanzio, La guerra è finita?, доклад, представленный в FestivalStoria, Torino, 16 ottobre 2008.

17. Alessandro Lattanzio, Il rilancio navale della Russia, www.eurasia-rivista.org, 1 ottobre 2008.

18. Henry Kissinger, L’arte della diplomazia, Sperling & Kupfer Editori, Milano 2006, pp. 634–635.

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Indiolateinamerika und Eurasien: Die Säulen des neuen multipolaren Systems

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Das US-Abenteuer in Georgien sowie die eklatante Wirtschafts- und Finanzkrise, die das westliche System derzeit heimsucht, zeigen, daß die Vereinigten Staaten von Amerika an diesem Punkt in der Geschichte nicht in der Lage sind, die Führungsrolle zu übernehmen. Auf Grundlage beispielsweise der Dichotomien Ost—West, Nord—Süd, Mitte—Peripherie etc. scheinen keinerlei künftige geopolitische Szenarien von Bedeutung herauszuarbeiten zu sein. Betrachten wir die kontinentalen sowie multikontinentalen Gemeinsamkeiten und Unterschiede der globalen Akteure, so zeigen sich uns die Säulen, auf denen ein neues internationales System für Indiolateinamerika und Eurasien ruhen kann.


Von der Regierungsunfähigkeit der USA

Die jüngste Diskussion um Georgien setzt dem Gerede um die sogenannten „unipolaren“ Vereinigten Staaten von Amerika und vor allen Dingen der Behauptung, diese hätten ein wirkungsvolles geopolitisches System — das heißt ein multipolares System — geschaffen, endlich ein Ende.

Dies sehen nicht nur die meisten jener Beobachter und Berichterstatter so, die — während sich der Niedergang der „unverzichtbaren Nation“ (so ein Syntagma der US-Außenministerin Madeleine Albright) vollzieht — im Zuge der Herbstkrise zwischen Moskau und Tiflis wiederholt eine neue Bipolarität beschworen und Formulierungen aus der Zeit des „kalten Krieges“ entstaubt haben. In Wahrheit sind wir von einem erneuten Aufleben des alten bipolaren Systems weit entfernt; die Nachkriegszeit von 1945 bis 1989 ist von einem ideologischen Widerstreit gekennzeichnet gewesen (nämlich zwischen den Antithesen Kapitalismus—Kommunismus und Totalitarismus—Demokratie), der nun aber nicht so sehr an den lymphatischen Knotenpunkten des bipolaren Gleichgewichtes aufgelöst, sondern vielmehr dadurch entschieden worden ist, daß die heutigen großen Nationen mit kontinentalen Ausmaßen, wie zum Beispiel China, Indien und Brasilien, die aufgrund ihrer wirtschaftlichen Entwicklung und dank des geopolitischen Bewußtseins, das sie unter ihrer jeweiligen politischen Führung rund ein Jahrzehnt lang kultiviert haben, gediehen sind und heute danach streben, auf der weltweiten Bühne in politischer, wirtschaftlicher und sozialer Hinsicht verantwortungsvolle Rollen zu übernehmen.

Wir müssen sogleich hinzufügen, daß das Ende der US-dominierten unipolaren Hegemonie keineswegs die militärische Vorherrschaft berührt, die Washington in weiten Teilen der Welt besitzt. Doch Washingtons Macht in geopolitischer Hinsicht ist heute geringer als noch vor einigen Jahren. Ich möchte allerdings darauf hinweisen, daß diese Hegemonie heute für die internationale Stabilität vielleicht noch gefährlicher ist, als dies in der Vergangenheit der Fall war, gerade weil sie wackelig und empfindlich ist und Washington und das Pentagon leicht aus dem Gleichgewicht geraten können, wie die georgische Krise ja auch gezeigt hat.

Die tiefe Strukturkrise der US-Wirtschaft1 hat nur dazu beigetragen, den Prozeß der Machteinbuße des „westlichen Systems“, der seit Mitte der 90er Jahre zu beobachten ist, zu beschleunigen. Mit den Auswirkungen, die dieser Prozeß auf die Vereinigten Staaten haben wird, auf die „einzige Weltmacht“, haben sich in den ersten Jahren unseres Jahrhunderts Autoren wie Chalmers Johnson2 und Emmanuel Todd3 in ihren jeweiligen Analysen befaßt; hierin zeigen die Verfasser auf, wohin dieser Prozeß bald führen wird und wie die Zersetzung des US-Systems vonstatten geht.

Johnson, ein profunder Kenner Asiens im allgemeinen und Japans im besonderen, meint, daß die USA in den Jahren 1999/2000 nicht in der Lage gewesen seien, ihre Beziehungen mit den Ländern Asiens souverän aufrechtzuerhalten, während man doch deutlich „die fortgesetzten Bemühungen ihres Landes, die ganze Welt zu beherrschen“4 verfolgen konnte. Zu den Veränderungen, die sich bereits sichtbar abzeichnen und die geopolitische Situation der nahen Zukunft erahnen lassen, zählt Johnson auch „Chinas zunehmende Orientierung am Vorbild der asiatischen Staaten mit hohem Wirtschaftswachstum“.5 Der gleiche Autor weiß von der mitleidslosen Analyse David P. Calleos zu berichten,6 der bereits im Jahre 1987 die Auflösung des internationalen Systems schilderte und die Ansicht vertrat, daß die Vereinigten Staaten am Ende des 20. Jahrhunderts eine „raubgierige Hegemonialmacht“ seien „mit wenig Sinn für Ausgewogenheit“.

Sowohl der Franzose Todd als auch der Amerikaner Johnson sind der Ansicht, daß die USA aufgrund der Kriege im Mittleren Osten und in Jugoslawien zu einem Unsicherheitsfaktor für das gesamte internationale System geworden sind; Todd zufolge wirken sich unter anderem die ökonomischen Verflechtungen der Vereinigten Staaten deutlich nachteilig aus, wie ja auch das negative Wirtschaftswachstum des letzten Jahrzehnts unzweifelhaft zeigt.

Einige Jahre später, im Januar 2005, wird ein so aufmerksamer und brillanter Beobachter wie Michael Lind von der New America Foundation („Stiftung Neues Amerika“) in einem wichtigen Artikel in der Financial Times argumentieren, daß einige eurasische Länder (in erster Linie China und Rußland) sowie Südamerika „in aller Stille“ Maßnahmen in die Wege leiten, die den nordamerikanischen Einfluß „verringern“ sollen.7

Luca Lauriola hat sich dem erst kürzlich — 2007 — im wesentlichen angeschlossen;8 in den Worten Claudio Muttis: „Lauriola bringt einige Argumente vor, die man wie folgt zusammenfassen kann: 1.) Die USA stellen nicht mehr die große Weltmacht dar; 2.) die technologische Großmacht Rußland ist heute mächtiger, als die die USA es sind; 3.) die strategische Verständigung zwischen Rußland, China und Indien bietet eine geopolitische Alternative zu den USA; 4.) die USA stecken mitten in einer schweren Finanz- und Wirtschaftskrise, die den Auftakt zu einem veritablen Kollaps bildet; 5.) in dieser Lage steht die US-Macht so ‚einsam und verlassen da, daß Moskau, Peking und Neu-Delhi versucht sein werden, Reaktionen zu provozieren, die zu globalen Katastrophen führen können; 6.) die Administration Bush schreitet beharrlich auf den Abgrund zu, während die Regierung der Welt vorgaukelt, alles sei in bester Ordnung; 7.) die Lebensbedingungen der Mehrzahl der US-Bürger sind mit denen in manchen Entwicklungsländern vergleichbar; 8.) das Bild, das sich uns heute von den USA bietet, ist keineswegs eine historische Ausnahme, vielmehr zeigt sich in der US-Geschichte eine klare Kontinuität (vom Völkermord an den native Americans bis zum Terrorismus, wie er in Vietnam praktiziert wurde); 9.) in den USA hält die gleiche messianische Lobby die politischen Zügel in Händen, die schon früher in der Sowjetunion die Nomenklatura gestellt hat.“9

Aber warum steht die Supermacht USA nicht einmal mehr sagen wir zwanzig Jahre vor ihrem Kollaps? Warum soll ein globaler Akteur wie die Vereinigten Staaten von Amerika nicht in der Lage sein, sich weiter an der Macht zu halten und seine offen verkündete „Neue Ordnung“, seine New Order, in demokratischer und liberaler Manier durchzusetzen?

Die Antworten auf diese Fragen sind im großen und ganzen nicht nur einfach in den Untersuchungen von Wirtschaftswissenschaftlern und/oder in politischen Widersprüchen des westlichen Systems zu finden. Sie sind meiner Meinung nach vielmehr in der Auslegung und Anwendung geopolitischer Lehrsätze durch die US-Macht zu suchen. Die Vereinigten Staaten von Amerika — eine thalassokratische Weltmacht — waren schon immer bestrebt, ihre Einflußsphäre auch auf den südamerikanischen Subkontinent auszudehnen. Es ist dies eine geopolitische Praxis, die ich bereits an anderer Stelle als „chaotisch“ bezeichnet habe;10 darunter ist eine Geopolitik der „fortwährenden Störung“ empfindlicher Territorien zu verstehen, um diese dem eigenen Einfluß zu unterstellen und sie schlußendlich dem eigenen Hoheitsgebiet einzuverleiben. Dieses Vorgehen zeugt allerdings von der Unfähigkeit, jene wahrhaft gegliederte internationale Ordnung zu verwirklichen, die diejenigen durchsetzen müssen, deren Trachten auf eine weltweite Führerrolle, eine globale leadership, gerichtet ist.

Zwei italienische Geopolitiker, Agostino Degli Espinosa (1904–1952) und Carlo Maria Santoro (1935–2002), haben in ganz verschiedenen Epochen und mit großem zeitlichen Abstand voneinander — der erste in den 1930ern, der zweite in den 1990ern — den USA übereinstimmend einen wichtigen Zug attestiert, nämlich die Unfähigkeit zu regieren und zu verwalten.

Vor vielen Jahrzehnten, im Jahre 1932, schrieb Agostino Degli Espinosa: „Amerika will gar nicht regieren, es will vielmehr auf die einfachste Art und Weise herrschen, die man sich denken kann, nämlich mittels der Dollar-Herrschaft“, und er fährt fort, „das bedeutet nicht nur, daß seine Gesetze oktroyiert und sein Wille durchgesetzt wird; sondern das bedeutet das Diktat eines Gesetzes, dem der Geist der Menschen oder der Völker in solcher Weise anhaftet, daß Regierende und Regierte ein spirituelle Einheit bilden.“11

Carlo Maria Santoro hat vor über sechzig Jahren noch einmal unterstrichen, daß die US-Amerikaner sich die „maritime Macht […] überhaupt nicht ausmalen, ja nicht einmal konzeptionell vorstellen können, nicht Eroberung und Verwaltung noch die hierarchische Unterteilung, wie die großen Kontinentalreiche“ sie aufwiesen.12

Die thalassokratische Besonderheit der USA, die Santoro hervorgehoben hat, und die Unfähigkeit zum Regieren, die schon Degli Espinosa so meisterhaft erläuterte, weisen deutlicher als jede andere Analyse auf den künftigen Niedergang amerikanischer Macht hin. In diesem Zusammenhang müssen natürlich weitere kritische Elemente bezüglich der Expansion des US-Imperialismus berücksichtigt werden: Militäreinsatz, öffentliche Ausgaben, geringe diplomatische Kompetenz.

Der historische Tag, an dem die Führungsunfähigkeit der USA offen zutage trete, sei nun gekommen, behauptete der französische Wirtschaftswissenschaftler Jacques Sapir jüngst. Dem Direktor der Hochschule École des Hautes Études en Sciences Sociales (EHESS) zufolge habe sich bereits in der Krise von 1997 bis 1999 gezeigt, „que les États-Unis étaient incapables de maîtriser la libéralisation financière internationale qu’ils avaient suscitée et imposée à nombreux pays13. Sapir sieht in der Globalisierung selbstverständlich einen Aspekt der US-Expansion, denn er versteht die Anwendung der amerikanischen Politik im großen Maßstab als eine Politik der freiwilligen finanziellen und merkantilen Öffnung.14 Zu diesem Zeitpunkt, da nun das liberale US-amerikanische Süppchen mittels des Diktats des Internationalen Währungsfonds weiteren Patienten eingeflößt werden soll — obwohl dies doch schon in Indonesien mißlang und sich auch Kuala Lumpur nachdrücklich dagegen gewehrt hat —, unterstreicht Sapir, daß es Pekings verantwortungsvolle Wirtschaftspolitik ist, die die Stabilität im Fernen Osten garantiert.

Es sei hier festgehalten, daß die Beschleunigung des ökonomischen und politischen Schrumpfungsprozesses der USA (2007/08) in eine Zeit fällt, da die Führung der Nation nach wie vor in Händen einer Machtclique liegt, die sich auf die Ideen des neokonservativen think tank beruft. Die Neocons haben bekanntlich Washington in den letzten Jahren — spätestens seit 1998, dem Jahre des Beginns der „Revolution in Military Affairs“ — soweit wie möglich zu einer aggressiven und expansionistischen Außenpolitik gedrängt; es war dies eine Politik, die sich eng an die Prinzipien des Alten Testamentes (— der messianische Impuls bildet einen festen Bestandteil des US-Patriotismus wie auch eine Konstante des US-Nationalcharakters —) sowie an die trotzkistische Theorie von der „permanenten Revolution“ gehalten hat, wobei letztere allerdings eine besondere — nämlich konservative — Beugung hat hinnehmen müssen. Diese Theorie ist nicht nur gewissermaßen das theoretische Substrat der Strategie des permanent war, des „beständigen Krieges“, welche Vizepräsident Dick Cheney lanciert und welche die Bush-Administration im Laufe der letzten beiden Legislaturperioden (2000–08) so eifrig umgesetzt hat, weshalb in Washington die „Geopolitik des Chaos“ aufgeblüht ist.

Indiolateinamerika und Eurasien

Die USA empfinden sich von der Notwendigkeit der geostrategischen Ordnung (über die in Eurasien Rußland und China die Kontrolle ausüben, in der südamerikanischen Hemisphäre dagegen Brasilien, Argentinien sowie die Karibik) und einer grundlegenden Wirtschafts- und Finanzkrise eingeengt; sie scheinen verwirrt und schwanken einerseits zwischen einer Außenpolitik noch aggressiverer Art und mit noch mehr Muskelspiel als in der jüngsten Vergangenheit und andererseits einer realistischen Neueinschätzung ihrer eigenen globalen Rolle. Derweil werden sich die größten eurasischen Nationen — allen voran Rußland und China — und die wichtigsten südamerikanischen Nationen — Argentinien und Brasilien — ihres wirtschaftlichen, politischen und geostrategischen Potentials in immer stärkerem Maße bewußt.

Dies setzt voraus, daß politische Analytiker und Entscheidungsträger neue Paradigmen zur Anwendung bringen, um die Gegenwart zu interpretieren. Die Auslegungsschemata der Vergangenheit, die auf der Grundlage der Dichotomien Ost—West, Nord—Süd, Zentrum—Peripherie fußen, scheinen keine Gültigkeit mehr zu haben. Eine Analyse der Gegenwart wird von Nutzen sein, um alle notwendigen Elemente zu erfassen, um die geopolitischen Szenarien der Zukunft zu umreißen, um sich einer kontinentalen wie auch multipolaren Sichtweise zu befleißigen, um Bündnisse wie auch Spannungen zwischen den globalen Akteuren auszumachen; hier richten wir unsere Aufmerksamkeit auf die interkontinentalen Achsen zwischen beiden Hemisphären unseres Planeten.

Die BRIC-Achse (Brasilien, Rußland, Indien und China), die neue geoökonomische Achse zwischen Eurasien und Indiolateinamerika, ist mittlerweile eine wohldefinierte, attraktive Tatsache und wird in naher Zukunft verschiedene eurasische und südamerikanische Nationen verbinden. Wenn sich diese Achse nicht kurz- bis mittelfristig konsolidiert, wird der britische „westliche“ Traum von einer euroatlantischen Gemeinschaft, „von der Türkei bis Kalifornien“15, weitergeträumt werden, und die Weltmacht USA — als Kopf der Triade Nordamerika, Europa und Japan — wird weiterhin herrschen.

Auf dem jüngsten Gipfeltreffen der Außenminister der BRIC-Staaten (im Mai 2008 in Jekaterinburg/Rußland) wurde die Absicht bekräftigt, die wirtschaftlichen und politischen Beziehungen zu den neuen aufstrebenden Ländern enger zu gestalten; in den USA faßte man dies als veritablen Affront auf. Man sollte das Treffen der „Großen Fünf“ (Brasilien, Indien, China, Mexiko und Südafrika) in Sapporo auch in Verbindung mit dem G8-Gipfel in Tōyako im Juli 2008 sehen.

Mit dem Amtsantritt von Ministerpräsident Wladimir Putin in Rußland im August 1999 begannen sich zwischen Rußland und einigen südamerikanischen Ländern dauerhafte wirtschaftliche Beziehungen anzubahnen, die in den letzten Jahren intensiviert wurden und eine gewisse politische Dimension angenommen haben.

China zeigte sein Interesse an Südamerika bereits im April 2001 mit dem historischen Besuch von Staatspräsident Jiang Zemin in mehreren südamerikanischen Nationen auf dem Subkontinent. China, stets auf der Suche nach Rohstoffen und Energieressourcen für die industrielle Entwicklung, ist der Auffassung, daß es in seinen bevorzugten und strategischen Partner-Staaten Brasilien, Venezuela und Chile erheblichen Investitionsbedarf gibt, damit die grundlegende Infrastruktur geschaffen werden kann (heute gibt es rund 400 bis 500 Handelsvereinbarungen zwischen Peking und den wichtigsten südamerikanischen Ländern einschließlich Mexikos).

Das Interesse Rußlands und Chinas an Südamerika wächst daher von Tag zu Tag. Die russische Gasprom (und mit ihr Eni)16 hat im September 2008 Verträge mit Venezuela über die Erforschung des Gebietes Blanquilla Est und der Karibikinsel La Tortuga, etwa 120 Kilometer nördlich von der Hafenstadt Puerto La Cruz (im Norden Venezuelas) gelegen, unterzeichnet, und Moskau hat einen Plan zur Schaffung eines Ölkonsortiums in Südamerika verabschiedet. Während der russische Mineralölkonzern Lukoil nach Gesprächen mit der Erdölgesellschaft Petróleos de Venezuela S. A. (PDVSA, auch „Petroven“) eine Punktation verfaßte, reiste ferner Staatspräsident Hugo Chávez im September 2008 nach Peking, um ein Dutzend Handelsabkommen über die Lieferung landwirtschaftlicher, technologischer und petrochemischer Erzeugnisse mit dem chinesischen Staatsoberhaupt Hu Jintao zu unterzeichnen; überdies verpflichtete sich Chávez, bis 2010 fünfhunderttausend Barrel Öl pro Tag zu liefern und hernach eine Million bis zum Jahre 2012.

Darüber hinaus sind Peking und Caracas nach intensiven Verhandlungen von Mai bis September 2008 übereingekommen, die notwendigen Voraussetzungen für die Errichtung einer im gemeinschaftlichen Besitz befindlichen Raffinerie in Venezuela zu schaffen und gemeinsam in China eine Flotte von vier gigantischen Öltankern zu bauen, um die erhöhten Öl-Lieferungen zu bewältigen.

Die Karibik und Südamerika scheinen nicht mehr zu sein als der „Hinterhof“ Washingtons. Washingtons Sorgen vergrößern sich angesichts Nikaraguas Anerkennung der Republiken Südossetien und Abchasien, angesichts Venezuelas Auftreten als Gastgeber für russische strategische Bomberpiloten auf Fernaufklärung und vor allem angesichts der Beschleunigung des Prozesses der südamerikanischen Integration durch das enge Bündnis zwischen Buenos Aires und Brasília. Die Beziehungen zwischen den beiden größten Ländern des amerikanischen Subkontinentes, Argentinien und Brasilien, haben es jüngst (Oktober 2008) gestattet, das Sistema de Pagos en Monedas Locales (SML)17 für den wirtschaftlich-kommerziellen Austausch ins Leben zu rufen. Die Umgehung des US-Dollars durch den SML ist ein erster echter Schritt in Richtung auf eine währungspolitische Integration in den Gemeinsamen Markt „Mercosur“ und der Beginn der Schaffung einer „regionalen Drehscheibe“, die wohl vor allem auf die im wirtschaftlich-kommerziellen Bereich bereits soliden Beziehungen zu Rußland und China wird bauen können, die sich in der unmittelbar nächsten Zeit prächtig entwickeln werden.

Washingtons Nervosität wächst noch angesichts von Pekings und Moskaus Ausweitung ihres Einflusses in Afrika und angesichts der Unterhaltung ihrer Beziehungen mit dem Iran und Syrien.

Aber so wichtig und notwendig solche ökonomischen, kommerziellen und politischen Vereinbarungen auch sein mögen, damit sich das neue multipolare System, dessen beide Säulen Eurasien im Nordosten und Indiolateinamerika im Südwesten sind, richtig entwickeln kann, müssen letztere unbedingt ihre Seeküsten kontrollieren und ihre (oft künstlich von Washington und London hervorgerufenen) internen Spannungen im Zaum halten, die ihre wahre Achillesferse darstellen.

China und Rußland sollten allerdings, wenn sie den USA gegenübertreten, beachten, daß die einstige Hypermacht derzeit zwar mit Sicherheit eine „verlorene“ Nation ist, sie aber immer noch ein geopolitisches Gebilde von kontinentalen Ausmaßen und Herrin ihrer eigenen Küsten ist und noch immer eine starke Flotte besitzt,18 die auf jedem Kriegsschauplatz des Planeten auftauchen kann; das heißt, es gilt vernünftige und ausgewogene Lösungen zu suchen, damit der Grad der Störungen auf globaler Ebene nicht noch zunimmt. Jüngst haben wir daran erinnert, daß Washington nun seine Vierte Flotte reaktiviert hat (bestehend aus elf Schiffen, einem Atom-U-Boot und einem Flugzeugträger), um in bedrohlicher Weise die Verpflichtung zu demonstrieren, die man für mittel- und südamerikanischen „Partner“ habe. Die furchteinflößende Macht, die die USA Eurasien und vor allem Rußland gegenüber zur Schau stellen, bildet den Ausgangspunkt für eine Politik der Integration oder der verstärkten Zusammenarbeit des Subkontinents mit Europa und Japan — auch mit China. In ebendiesem Zusammenhange müssen wir die neue Politik von Rußlands Präsident Dmitri A. Medwedew in bezug auf die Entwicklung der russischen Streitkräfte betrachten, insbesondere die Modernisierung der Marine.19 Obwohl wir im Zeitalter der sogenannten „Geopolitik des Raumes“ und der geostrategischen Raketenwaffen sowie der Strategischen Verteidigungsinitiative (SDI) leben, bilden doch Schiffe auf den Weltmeeren auch heute noch den Prüfstein der Macht, an dem globale Akteure ihre Strategien zu beweisen eingeladen sind; dies gilt noch mindestens das nächste Jahrzehnt hindurch sowohl für „Binnenmeere“ (Mittel- und Schwarzes sowie Karibisches Meer) als auch in den Ozeanen.

Um völlig zu verstehen, in wessen Händen in Übersee die Macht liegt und — nach dem Willen der USA — auch künftig liegen soll, täten Peking und Moskau gut daran, der Worte Henry Kissingers eingedenk zu sein, der vor Jahren schrieb:

Geopolitisch betrachtet, ist Amerika eine Insel weitab der riesigen Landmasse Eurasiens, dessen Ressourcen und Bevölkerung die der Vereinigten Staaten bei weitem übertreffen. Und nach wie vor ist die Beherrschung einer der beiden Hauptsphären Eurasiens — Europas also und Asiens — durch eine einzige Macht eine gute Definition für die strategische Gefahr, der sich die Vereinigten Staaten einmal gegenübersehen könnten, gleichviel, ob unter den Bedingungen eines Kalten Krieges oder nicht. Denn ein solcher Zusammenschluß wäre imstande, die USA wirtschaftlich und letztlich auch militärisch zu überflügeln, eine Gefahr, der es selbst dann entgegenzutreten gälte, wenn die dominante Macht offenkundig freundlich gesinnt wäre. Sollten sich deren Absichten nämlich jemals ändern, dann stieße sie auf eine amerikanische Nation, deren Fähigkeit zu wirkungsvollem Widerstand sich erheblich vermindert hätte und die folglich immer weniger in der Lage wäre, die Ereignisse zu beeinflussen.“20

Das zu Eurasien Gesagte gilt, nahezu perfekt gespiegelt, in gleicher Weise auch für Indiolateinamerika. Aus evidenten geostrategischen Gründen muß Indiolateinamerika — und das heißt derzeit Brasilien, Argentinien und Venezuela — die Spannungen niedrig halten, die die Instabilität einiger an die Andenkette angrenzenden Länder schüren;21 hier kommt Bolivien eine Vorrangstellung zu, das als Binnenstaat die Westküste des amerikanischen Subkontinents mit seinem Osten verbinden könnte. Brasília, Buenos Aires, Santiago de Chile und Caracas mußten nun gezwungenermaßen ihre politischen wie militärischen Beziehungen ankurbeln — unter der Vormundschaft der USA, wenn man so will — und haben dabei ihr besonderes Augenmerk auf den Ausbau ihrer Hochseeflotten, sowohl zivile wie militärische, gelegt. Die gegenwärtigen Entwicklungen scheinen Indiolateinamerika, dank des „fernen Freundes“ — der eurasischen Macht —, in die Hände zu spielen. Die gegenwärtigen Entwicklungen, das muß gesagt werden, nutzen auch Europa und Japan.

Für das Gleichgewicht des Planeten jedoch bleibt nur zu hoffen, daß die Macht der USA auf ein rechtes Maß zurückschrumpft und daß sich die Vereinigten Staaten danach keiner unbesonnenen Revanchestrategie verschreiben.


Aus dem Italienischen von D. A. R. Sokoll


1 Die derzeitige Wirtschafts- und Finanzkrise geht nach Meinung einiger Experten, unter diesen Jacques Sapir, auf die drei Jahre 1997 bis 1999 zurück. (Jacques Sapir. Le Nouveau Siècle XXI.: Du siècle „américaine“ au retour des Nations. Paris: Seuil, 2008. S. 11.) Hier sei daran erinnert, daß die USA — in der Überzeugung, die „einzige Weltmacht“ (Zbigniew Brzezinski) zu sein — „[u]ngefähr von 1992 bis 1997 […] eine ideologische Kampagne [führten], die auf die Öffnung aller nationalen Märkte für den freien Welthandel und den ungehinderten Kapitalverkehr über nationale Grenzen hinweg abzielte“ (Chalmers Johnson Ein Imperium verfällt: Wann endet das Amerikanische Jahrhundert? übers. v. Thomas Pfeiffer u. Renate Weitbrecht. München: Karl-Blessing-Verlag, 2000. S. 269).

2 Chalmers Johnson. Ein Imperium verfällt: Ist die Weltmacht USA am Ende? übers. v. Thomas Pfeiffer u. Renate Weitbrecht. München: Goldmann, 2001.

3 Emmanuel Todd. Weltmacht USA: Ein Nachruf. übers. v. Ursel Schäfer u. Enrico Heinman. München: Piper, 2003.

4 Johnson, a. a. O., S. 55.

5 Johnson, a. a. O., S. 54.

6 „Das internationale System zerbricht nicht nur, weil schwankende und aggressive neue Mächte versuchen, ihre Nachbarn zu dominieren, sondern auch weil zerfallende alte Mächte, statt sich anzupassen, versuchen, ihre ihnen aus den Händen gleitende Überlegenheit in eine ausbeuterische Vormachtstellung auszubauen.“ (David P. Calleo. Die Zukunft der westlichen Allianz: Die NATO nach dem Zeitalter der amerikanischen Hegemonie. übers. v. Helena C. Jadebeck. Stuttgart: Bonn Aktuell, 1989. S. 218.

7 Michael Lind. How the U.S. Became the World’s Dispensable Nation.“ In: Financial Times, 26. Januar 2005.

8 Luca Lauriola. Scacco matto all’America e a Israele: Fine dell’ultimo Impero. Bari: Palomar, 2007.

9 Claudio Mutti in seiner Rezension von: Lauriola, Scacco matto all’America e a Israele, a. a. O. — Veröffentlicht auf: www.eurasia.org, am 27. Januar 2008.

10 Tiberio Graziani. „Geopolitica e diritto internazionale nell’epoca dell’occidentalizzazione del pianeta.“ In: Eurasia: Rivista di studi geopolitici, 4/2007, S. 7.

11 Agostino Degli Espinosa. „Imperialismo USA.“ In: Augustea. Nr. 10. Rom/Mailand, 1932. S. 521.

12 Carlo Maria Santoro. Studi di Geopolitica 1992–1994. Turin: G. Giappichelli, 1997. S. 84.

13 Auf Deutsch: „daß die Vereinigten Staaten unfähig gewesen sind, mit der internationalen finanziellen Lossagung fertigzuwerden, zu denen sie unsere Länder selbst getrieben und die sie uns auferlegt haben“. — Sapir, a. a. O., S. 11 f.

14 Ebd., S. 63 f.

15 Mit diesen Worten hat Sergio Romano in zwei Briefen in der Tageszeitung Corriere della Sera die britische Anti-Europa-Politik kommentiert: „Das Ziel der Briten ist die Schaffung einer großen atlantischen Gemeinschaft, von der Türkei bis Kalifornien, und London mittendrin wäre natürlich der Dreh- und Angelpunkt.“ (Sergio Romano. „Perché è difficile fare l’Europa con la Gran Bretagna.“ In: Corriere della Sera, 12. Juni 2005. S. 39.)

16 Das Akronym steht für Ente Nazionale Idrocarburi und bezeichnet den Erdöl- und Energiekonzern, der das größte Wirtschaftsunternehmen Italiens darstellt. 1999 hat Eni mit Gasprom eine Vereinbarung über den Bau der Blue-Stream-Pipeline unterzeichnet, die Rußland über das Schwarze Meer mit der Türkei verbindet. — Anm. d. Übers.

17 Zahlungssystem in lokaler Währung. Zwischenstaatliche Geschäfte werden direkt in Brasilianischen Reais und Argentinischen Pesos abgerechnet, ohne Umweg über die Weltwährung Dollar. — Anm. d. Übers.

18 Alessandro Lattanzio weist darauf hin, daß „die US-Marine vor zehn Jahren noch vierzehn Flugzeugträger sowie Trägerkampfgruppen gehabt hatte. Jetzt besitzt sie auf dem Papier noch zehn [Flugzeugträger], aber nur fünf, sechs stehen im Einsatz“. (Alessandro Lattanzio. „La guerra è finita?“ Vortrag anläßlich des FestivalStoria zu Turin am 16. Oktober 2008.)

19 Alessandro Lattanzio. „Il rilancio navale della Russia.“ In: www.eurasia-rivista.org (Stand: 1. Oktober 2008).

20 Henry A. Kissinger. Die Vernunft der Nationen: Über das Wesen der Außenpolitik. übers. v. Matthias Vogel u. a. Berlin: Siedler, 1994. S. 904.

21 Bekanntlich haben Analysten Südamerika in zwei Bogenbereiche untergliedert: einerseits den Andenbogen, bestehend aus Venezuela, Kolumbien, Ecuador, Peru, Bolivien, Paraguay, und andererseits den Atlantikbogen, bestehend aus Brasilien, Uruguay, Argentinien und Chile.

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Caucaso in fiamme : la Turchia per la cooperazione e la stabilità dell’area

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Dopo la funzione di mediazione assunta nel contenzioso Siria – Israele (il 4 settembre Erdoğan si recherà anche per questo a Damasco) e in quello concernente la questione del nucleare iraniano, la diplomazia turca mira a conquistare un analogo ruolo nel tormentato scenario caucasico.

Ankara ha finora mantenuto una posizione di neutralità nel conflitto, non accodandosi alle virulente critiche occidentali a Mosca ma mostrando un certo imbarazzo di fronte al riconoscimento russo dell’indipendenza di Abkhazia e Ossezia meridionale.

La Turchia mantiene in effetti buone relazioni con entrambi i contendenti : la Russia è diventato il principale partner commerciale, dotato di grande importanza dal punto di vista energetico, e la visita di questi giorni del ministro degli esteri Lavrov a Istanbul non ha fatto che confermare l’ottima intesa fra i due paesi. Un problema doganale che aveva recentemente provocato qualche dissapore (con blocco dei Tir turchi alla frontiera) è stato prontamente avviato a soluzione.

Prima di Lavrov il ministro degli esteri turco Babacan aveva interloquito con il collega georgiano Tkeshelashvili : anche con la Georgia gli scambi commerciali sono intensi ed è ora in progetto un’importante linea ferroviaria Baku – Tibilisi – Kars.

Ma la Turchia non sta soltanto a guardare, lanciando un’iniziativa piuttosto originale e coraggiosa, e soprattutto esente da pregiudizi antirussi : una piattaforma per la cooperazione e la stabilità caucasica aperta a Turchia, Russia, Georgia, Azerbagian e Armenia. Un’iniziativa che potrebbe in qualche modo svincolare la stessa Georgia dai suoi ingombranti (e bellicosi) padrini atlantici restituendola a una dimensione geopolitica a lei più propria. Fa sensazione la proposta turca – effettivamente quanto mai opportuna – di includere l’Armenia : un altro gesto di distensione peraltro corrisposto dalla controparte, che per bocca del ministro degli esteri ha fatto sapere di considerare molto positivo l’invito. E il 6 settembre avverrà qualcosa di rilevanza storica : in occasione dell’incontro di calcio Armenia – Turchia, valido per le qualificazioni ai mondiali, il presidente turco Gül, accompagnato da trenta parlamentari, si recherà a Erevan accogliendo l’invito del collega armeno Sarkisian, un sostenitore del dialogo turco – armeno.

Qualche giornale turco si chiede se tutto ciò farà piacere al senatore Biden, candidato vicepresidente degli Stati Uniti d’America e da sempre acceso inquisitore della Turchia, in ragione delle sue imperdonabili colpe storiche…. …
*Aldo Braccio, esperto della Turchia, è redattore di Eurasia. Rivista di studi geopolitici

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La frammentazione del pianeta e l’alternativa multipolare

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Il 27 settembre 2008, presso il Centro Culturale “San Fedele” a Milano, si è tenuto il primo appuntamento del ciclo 2008-2009 dei “Seminari di Eurasia”. Il seminario ha avuto come titolo “La frammentazione del pianeta e l’alternativa multipolare”, ed ha preso spunto dall’uscita in edizione italiana dell’opera di François Thual Il mondo fatto a pezzi per affrontare il tema della disintegrazione politica e proliferazione statuale che da decenni caratterizza lo scenario geopolitico mondiale. Malgrado la lunghezza dell’evento, che ha coperto un’intera giornata, la partecipazione di pubblico è stata notevole.

Vedi la presentazione del Seminariopdf
Leggi gli atti del Seminariopdf (3,40 MB)

Galleria fotografica:

Da sinistra a destra: Marco Bagozzi, Stefano Vernole, Filippo Pederzini, Aldo Braccio Da sinistra a destra: Andrea Fahrat, Manuela Vittorelli, Augusto Marsigliante Da sinistra a destra: Luca Bionda, Enrico Galoppini, Marco Bagozzi, Claudio Moffa
Claudio Moffa pronuncia il suo intervento Susanne Scheidt pronuncia il suo intervento Da sinistra a destra: Stefano Vernole, Filippo Pederzini, Aldo Braccio

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Turchia e Russia: un esempio di collaborazione e di buon vicinato in un’area cruciale del mondo

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Un aspetto particolarmente importante e significativo del nuovo scenario eurasiatico è senza dubbio costituito dalle positive relazioni russo – turche.

Il mondo turco si è trovato talvolta – nel passato – in posizione antagonista con quello russo, e come paese NATO avrebbe potuto particolarmente risentire del clima di tensione suscitato a intermittenza dagli attriti internazionali.

L’ingresso al governo dell’attuale partito di maggioranza – l’AKP di Erdoğan, espressione di un’opinione pubblica non più disponibile a una politica antirussa e antiislamica – ha invece decisamente aperto una fase nuova nelle relazioni estere di Ankara; da parte sua la Federazione Russa ha corrisposto con intelligenza e lungimiranza a tale apertura, manifestando il suo interesse per un’intesa privilegiata.
Si tratta – è bene ricordarlo – dell’incontro tra due paesi di antica storia e tradizione, due realtà essenziali anche per i paesi europei, che dovrebbero considerarli come parte integrante del “vecchio” continente.

La Russia ha accolto con favore la proposta turca di una “piattaforma per la cooperazione caucasica” aperta a Russia, Georgia, Azerbaijan e Armenia, oltre che alla Turchia stessa. Tale iniziativa appare di notevole rilievo per vari motivi : perché pone in primo piano gli effettivi attori dello scacchiere caucasico – privilegiandoli nei confronti di Stati e realtà politiche non direttamente coinvolte nell’area – e perché favorisce concretamente il dialogo fra Russia e Georgia da una parte e fra Turchia, Armenia e Azerbaijan dall’altra.

In questo contesto, la comprensione e l’amicizia fra Mosca e Ankara è essenziale, come lo è il generale riconoscimento del ruolo centrale e decisivo della Russia in una prospettiva eurasiatica e nella costruzione di un mondo multipolare che metta fine alla nefasta egemonia planetaria di un solo paese.
Un segno importante di collaborazione nell’area è dato anche dalla ripresa di contatti diretti tra Turchia e Armenia : dopo l’invito del presidente armeno Sarkisian e la storica visita del presidente turco Gül a Erevan, in occasione dell’incontro tra le due nazionali di calcio, il ministro degli Esteri di Ankara, Babacan, ha proposto un incontro triangolare turco-armeno-azero allo scopo di avviare a soluzione l’annoso problema del Karabakh. “Da parte armena – ha riconosciuto Babacan – c’è volontà di discutere la questione ed è per questo che abbiamo proposto questo incontro triangolare”, che si terrà, a quanto annunciato, a fine settembre presso la sede delle Nazioni Unite.

Intanto le intese di carattere energetico ed economico tra Russia e Turchia crescono vistosamente : all’inizio di giugno l’ottava sessione della Commissione economica russo – turca ha spianato la strada a un’ulteriore crescita della cooperazione energetica e commerciale, prospettando addirittura la possibilità di aprire alla Federazione Russa il percorso del gasdotto transeuropeo “Nabucco”.

D’altra parte la Gazprom ha considerevolmente aumentato l’esportazione di gas naturale in Turchia, mentre la Russia con 23 miliardi e mezzo di dollari è stata nel 2007 il primo fornitore complessivo della Turchia (in tale classifica la Germania figura al secondo posto, la Cina al terzo e l’Italia, con 10 miliardi di dollari, al quarto).

E’ intanto notizia di questi giorni che la federazione doganale russa (Fcs) implementerà un nuovo sistema che renderà più agevoli le importazioni turche da parte della Russia (soprattutto macchinari, impianti, beni di consumo) : un sistema che, una volta operativo, determinerà per la Turchia uno sgravio di 500 milioni di euri all’anno.

Risulta infine in costante aumento anche il numero delle imprese russe che aprono uffici di rappresentanza nel paese della mezzaluna, attratte dal robusto tasso di crescita del PIL turco : un più che positivo 4 % nel 2007, dopo due anni boom (7,6 % nel 2005 e 6 % nel 2006).

* Aldo Braccio, geopolitico, esperto di Turchia ed area mediorientale è redattore di Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici (www.eurasia-rivista.rg)

Fonte: Nasha GazetaLa nostra gazzetta
Edizione di giovedì 25 settembre 2008

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Enrico Galoppini, Islamofobia, attori, tattiche, finalità

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Islamofobia. Attori, tattiche, finalità


di Enrico Galoppini

Prefazione di Aboulkheir Breigheche
Postfazione di Costanzo Preve

Edizioni all’insegna del Veltro

Il libro: Questo libro – che raccoglie una serie di articoli pubblicati dall’Autore tra il 1999 e il 2007 – è un tentativo d’inquadrare storicamente e culturalmente il fenomeno dell’islamofobia, spiegandolo non solo come una delle tante facce che può assumere il “pregiudizio”, ma come una necessità irrinunciabile nell’ambito di una vasta campagna propagandistica occidentale volta a creare l’idea dell’Islàm come “problema”. Lo scopo, piuttosto evidente, è quello di fornire una “copertura ideologica” ad un serie di aggressioni che l’Occidente – in primis Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele – ha compiuto ed intende compiere in quella parte del mondo abitata prevalentemente da popolazioni musulmane. L’individuazione del legame tra strategie geopolitiche atlantiche ed islamofobia costituisce quindi uno dei tratti caratteristici di questo libro. I protagonisti della campagna di disinformazione sull’Islàm e i musulmani, il loro modus agendi e gli obiettivi che essi si prefiggono vengono messi a nudo in quello che costituisce, inoltre, una denuncia della cosiddetta “informazione”, impegnata nella creazione del “nemico islamico” sia all’interno (le comunità d’immigrati di religione islamica) che all’esterno (i popoli del Vicino e del Medio Oriente).

L’Autore
: Enrico Galoppini, saggista e traduttore dall’arabo, diplomato in lingua araba a Tunisi e ad Amman, ha lavorato nell’ambito di progetti internazionali (ad es. in Yemen) ed ha insegnato per alcuni anni Storia dei Paesi islamici presso le Università di Torino e di Enna. È nel comitato di redazione della rivista di Studi geopolitici “Eurasia” (www.eurasia-rivista.org). Particolarmente interessato agli aspetti religioso e storico-politico del mondo arabo-islamico, alla storia del colonialismo, all’attualità politica internazionale, ma anche ai viaggi e a fenomeni di costume, collabora o ha collaborato a riviste e quotidiani tra cui “LiMes”, “Imperi”, “Eurasia”, “Levante”, “La Porta d’Oriente”, “Kervàn”, “Africana”, “Meridione. Sud e Nord del mondo”, “Diorama Letterario”, “Italicum”, “Rinascita”. Ha pubblicato alcuni saggi e prefazioni, ed il suo primo libro è “Il Fascismo e l’Islàm” (Edizioni All’Insegna del Veltro, Parma 2001)./em>

Euri 18, 208 p.

Edizioni all’insegna del Veltro
Viale Osacca, 13
43100 – Parma

contatti:
insegnadelveltro1@tin.it
tel. 0521 290880

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